La rivoluzione non sa aspettare al Cairo
In teoria questa seconda rivoluzione egiziana, dopo quella di dieci mesi fa, sembra uguale e persino più semplice. Per un momento è sembrato persino che i generali avessero offerto il governo provvisorio e civile in pasto alla folla – tanto manca una sola settimana al voto. Ma il vero obiettivo delle proteste sono sempre loro, che invece non si muovono. Il meccanismo della lotta in piazza è rodato.
Il Cairo, dal nostro inviato. In teoria questa seconda rivoluzione egiziana, dopo quella di dieci mesi fa, sembra uguale e persino più semplice. Per un momento è sembrato persino che i generali avessero offerto il governo provvisorio e civile in pasto alla folla – tanto manca una sola settimana al voto. Ma il vero obiettivo delle proteste sono sempre loro, che invece non si muovono. Il meccanismo della lotta in piazza è rodato: gli slogan sono conosciuti da tutti, le seconde linee aspettano le prime e lavano via subito dagli occhi e dai nasi l'agente irritante dei lacrimogeni con Pepsi-Cola tenuta negli spruzzini per i vasi da balcone, il banco che vende maschere antigas è arrivato subito, gli ospedali da campo sono stati allestiti negli stessi angoli, la lista dei medicinali richiesti con urgenza è uguale, il circuito dei social network che si passa foto e notizie è vispo e in funzione come mai.
Nemmeno gli scontri sono cambiati: l'obiettivo è lo stesso, controllare via Mohamed Mahmoud, la strada che collega il ministero dell'Interno a piazza Tahrir. Da una parte e dall'altra polizia e manifestanti temono che se non si scontrassero con violenza il nemico irromperebbe nel cuore simbolico del proprio territorio, il ministero o la piazza. A nulla vale ragionare che entrambi potrebbero passare da mille viuzze secondarie: la lotta che dura da ottanta ore, di notte e di giorno, in Mohamed Mahmoud è una dichiarazione politica violenta: noi siamo resistenti e disposti al sacrificio in attesa che le nostre domande siano soddisfatte – dicono i manifestanti – e noi siamo dispostissimi a livellare il dissenso con la forza bruta – risponde la polizia. I tifosi dell'Ahly in prima linea hanno un conto aperto con il ministero dell'Interno e il giorno dopo chi non avrà un paio di ferite da esibire sarà considerato un codardo. In via Mohamed Mahmoud c'è però abbondanza di ferite per tutti, è chiusa sui lati, larga dieci metri, gli agenti dai tetti sparano di sotto con pallini di gomma, lacrimogeni, proiettili veri: i morti per ora sono 40, i feriti un migliaio.
In pratica, al Cairo i protagonisti sono cambiati. Il Consiglio supremo dei generali, che a gennaio era stato decisivo nella cacciata del presidente Hosni Mubarak perché non era intervenuto, questa volta è il nemico e l'obiettivo diretto delle proteste. Anche se gode ancora del consenso prono della maggioranza dell'Egitto, ha già sforato di due mesi il termine oltre il quale aveva promesso che avrebbe riconsegnato il potere ai civili e ha segnalato di non volerlo fare dopo le elezioni di martedì prossimo, grazie all'introduzione di nuove leggi superiori alla Costituzione che garantiscono ai militari autonomia politica e impunità legale. Oggi militari e polizia, prima rivali e capri espiatori gli uni degli altri, sono assieme dalla stessa parte. I giovani di piazza Tahrir in questi mesi hanno sprecato una chance politica: temerari, generosi e pronti a farsi sparare in cima a barricate fatte con auto bruciate, non hanno costruito molto. La settimana scorsa, ad appena dieci giorni dal voto, l'unico partito in grado di rispondere con efficienza alle telefonate dei giornalisti sul calendario di appuntamenti elettorali era il partito della Libertà e Giustizia, paravento politico della Fratellanza musulmana. E infatti questi giorni di battaglia arrivano dopo un venerdì di proteste colossali indetto dai partiti islamisti contro i generali: quando i giovani progressisti avevano convocato la piazza, la risposta era stata deludente. Ora i progressisti con le All stars ai piedi e le pietre in mano vogliono un presidente civile entro una data certa e ieri sera hanno riempito piazza Tahrir come a febbraio. I Fratelli musulmani, pronti a entrare nel nuovo governo, e i salafiti vogliono invece le elezioni, perché le vinceranno.
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