La lotta delle torte
La crisi del debito è riuscita dove decenni di sforzi diplomatici hanno fallito: la compattezza granitica della leadership cinese, che da sempre costringe a sottili esercizi di cremlinologia per vedere se tra le righe del copione che tutti ripetono con diligenza s'era creata qualche crepa, si sta sfaldando. Alla fine dell'anno prossimo si terrà il diciottesimo congresso nazionale del Partito comunista cinese.
La crisi del debito è riuscita dove decenni di sforzi diplomatici hanno fallito: la compattezza granitica della leadership cinese, che da sempre costringe a sottili esercizi di cremlinologia per vedere se tra le righe del copione che tutti ripetono con diligenza s'era creata qualche crepa, si sta sfaldando.
Alla fine dell'anno prossimo si terrà il diciottesimo congresso nazionale del Partito comunista cinese. Salvo cambiamenti di regole, sette dei nove membri del comitato centrale del Politburo dovranno dimettersi, presidente e primo ministro inclusi. Resteranno soltanto il vicepresidente Xi Jinping e il vicepremier Li Keqiang, pronti per togliere il prefisso "vice" dalla loro carica.
I giochi per gli altri posti sono aperti e, a giudicare dagli attacchi delle ultime settimane, non sarà facile assicurare una transizione liscia e indolore come quella tra Jiang Zemin e l'attuale presidente Hu Jintao, nel 2002 (un caso unico nella storia dei partiti comunisti, lo stesso Zemin, nell'89, era dovuto arrivare a Pechino travestito da operaio, in un'utilitaria Volkswagen).
Il più rumoroso tra i candidati è Bo Xilai, ex ministro del Commercio, segretario del partito (ovvero colui che decide qualunque cosa succeda) nella metropoli di Chonhqing. L'ha ripulita da crimine e corruzione, poi ha costretto i cittadini a un patriottismo nostalgico ed esasperato, due ottime carte per farsi largo nel partito. Ormai chiunque conti nel partito passa in visita e parla del "modello Chongqing", da estendere a tutta la Cina. Al momento, la dottrina di Bo Xilai gli ha garantito almeno cinque dei sette membri del comitato centrale. L'ha notato, con lo stile che gli compete, anche Henry Kissinger nella sua ultima visita: "Mi pare di aver capito che il nuovo vicepresidente Jinping, per prima cosa dopo l'elezione, è venuto a stare qui per tre giorni", ha detto a Xilai, a settembre.
La linea di Bo Xilai piace tantissimo ai generali e ai nostalgici, ma proprio non va giù alla "cricca" di Shanghai e a Wang Yang, capo del partito della provincia fuori Shanghai, il Guangdong, centro dell'industria cinese. E' innanzitutto una questione di dolciumi: a Bo Xilai, che da anni dice che bisogna innanzitutto dividere la torta e puntare sulla redistribuzione dei traguardi economici raggiunti, Wang Yang, anch'egli in corsa per il Politburo, sta iniziando a rispondere che "per rendere la torta più grande, dobbiamo concentrarci sullo sviluppo economico".
Nella lite si è inserito anche il vicepremier responsabile delle Finanze, Wanf Qishan, avvertendo che "quella in corso è di sicuro una recessione di lungo termine" e la Cina deve mettere qualche cambiamento in cantiere, se non vuole finirne inghiottita. Intanto il sistema bancario è al collasso e il partito si affretta a riscrivere la sua storia.
La guerra interna è solo all'inizio. Forse, grazie anche all'aiuto di Weibo, il "Twitter cinese" su cui si stanno esponendo un una certa imprudenza molti dirigenti del partito, spunteranno anche casi come quelli di questo signore.
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