Un triste approdo sovietico per un'Europa nata con grandi ambizioni
La storica dichiarazione del ministro degli Esteri francese Robert Schuman, alla quale si fa risalire l'atto di nascita del processo di integrazione europea, è datata 9 maggio 1950. Piantata temporalmente come una bandiera di speranza in un ideale punto centrale del secolo breve, del Novecento dei due conflitti mondiali, quella dichiarazione diceva: “L'Europa non è stata fatta: abbiamo avuto la guerra”.
La storica dichiarazione del ministro degli Esteri francese Robert Schuman, alla quale si fa risalire l'atto di nascita del processo di integrazione europea, è datata 9 maggio 1950. Piantata temporalmente come una bandiera di speranza in un ideale punto centrale del secolo breve, del Novecento dei due conflitti mondiali, quella dichiarazione diceva: “L'Europa non è stata fatta: abbiamo avuto la guerra”. La prima preoccupazione di Schuman e di tutta la classe politica europea dell'epoca era che non si dovesse più ripetere sul vecchio continente ciò che era avvenuto tra il 1939 e il 1945. C'era dunque una visione necessaria, c'erano le teste pensanti e la volontà politica di non ricadere mai più nell'orrore ancora recente, c'era anche un'identità rafforzata (e non è un paradosso) dalla guerra fredda, dalla comune opposizione al blocco comunista. C'era il nobile e grandioso progetto della “riabilitazione economica e politica dell'Europa”, come ha scritto l'ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt.
Sessantuno anni dopo, lo spettacolo che la classe politica europea ed euroburocratica sta offrendo rimanda a una debolezza confinante con l'insipienza, l'imperizia, l'arroganza. Sempre più impantanati e sempre più costretti a promettere soluzioni rigoriste che ancor prima di dispiegarsi denunciano la loro insufficienza, l'euroburocrazia ventriloqua della Merkel assomiglia sempre più a un apprendista stregone che ripete gesti meccanici di cui non sa prevedere nemmeno le conseguenze a breve termine.
Non c'è visione politica, e men che mai la progettualità ideale ma anche il realismo che contraddistinsero le origini. Fin dal suo iniziale atto concreto, vale a dire la fondazione della prima delle istituzioni europee, la Comunità europea del carbone e dell'acciaio (Ceca), il progetto ideale comunitario si è impastato infatti con una logica funzionalista, il cui cui più convinto alfiere fu Jean Monnet. Figlio di un commerciante di cognac, sodale della prima ora di De Gaulle, il pragmatico e visionario Monnet sapeva che uno dei più pericolosi motivi di attrito per l'armonia delle nazioni europee era quello della produzione di beni strategici come carbone e acciaio. Con la Ceca si sanciva la messa in comune di quelle risorse e si riportava la Germania, ricca di carbone e grande produttrice di acciaio, nel salotto diplomatico delle nazioni perbene. Gaetano Quagliariello, studioso di De Gaulle, spiega che “i padri fondatori europei, cioè Adenauer, Schuman e De Gasperi, subirono in prima persona il dramma dei nazionalismi e il problema dei confini. De Gasperi era un italiano suddito dell'Impero asburgico; Adenauer era di Colonia, della regine germanica dove erano scoppiati tutti i conflitti dal 1870 in poi, e Schuman era un alsaziano. La loro idea di Europa era un superare la questione dei confini sulla base dell'identà cristiana, contro i totalitarismi che avevano cercato di concellarla.
Monnet era altro. Era un funzionalista che però poteva dare per presupposto il tema dell'identità, garantito dall'anticomunismo. Il suo progetto prevedeva passi prudenti, con l'obiettivo di uno stato sovranazionale sul quale trasferire il minimo possibile di sovranità nazionale sufficiente a realizzarlo”. Questo sistema, spiega ancora Quagliariello, “ha funzionato a volte bene a volte meno bene al tempo della guerra fredda. Quando questa è finita, ha selezionato il proprio obiettivo più ambizioso: darsi una moneta unica. Un obiettivo realizzato in tempi di identità affievolita (non c'era più il nemico a est) e di Europa sempre più allargata. Ma quell'obiettivo si è realizzato senza trasferimento di sovranità allo stato sovranazionale, anche perché nel frattempo si è si era bloccata la riforma delle istituzioni europee. Il risultato è che abbiamo una moneta senza un'istituzione finanziaria che la regoli, ma anche senza un effettivo potere politico di contrappeso. Questo ha creato un cortocircuito nella democrazia, con la sovranità dei singoli stati che è andata in parte persa senza contropartite. Il soggetto finanziariamente più forte, la Germania, finisce così per avere potere di ricatto su tutto. Oggi è la Merkel che guida le danze, in un asse franco-tedesco che è stato il garante dell'Europa ma che ora sta andando in macerie a sua volta, perché è venuta meno la divisione dei ruoli al suo interno: alla Germania la forza economica, alla Francia la visione strategica. L'asse scricchiola e scarica i suoi problemi sui paesi più deboli”.
Nel 1997 il giornalista francese Jean Daniel prevedeva che dalla moneta unica sarebbe nato un “patriottismo europeo”, e che la nuova Europa, nata sull'idea di mettere fine alla secolare rivalità franco-tedesca, non poteva sfuggire alla “mescolanza primordiale tra il sociale, l'umano, l'economia e l'industria. La prima preoccupazione di un re era battere moneta, non soltanto per ragioni finanziarie ma anche per creare un'identità comune”.
Battete moneta, la politica seguirà, l'identità si rafforzerà: non la pensava allo stesso modo il compianto ed euroscettico Saverio Vertone che, sempre alla fine degli anni Novanta, sottolineava il “carattere burocratico del piano Maastricht, che unifica la moneta senza aver unificato il fisco, i servizi e le società, aprendo così le dighe di un circuito squilibrato… oggi alle nazioni si contrappone un processo di integrazione-unificazione continentale che si configura come entropia rispetto alla caratteristica fondante della storia europea. Come avvenne per la Grecia, che inventò le pòleis e da esse fu guidata verso la sua epoca d'oro, per morire poi quando venne unificata prima da Filippo II di Macedonia, poi da Alessandro e successivamente dai romani”.
L'economista Geminello Alvi,un altro euroscettico della prima ora, nel suo libro appena pubblicato (“Il capitalismo”, Marsilio), dedica un capitolo alla “commedia dell'euro”, nel quale ricorda che la nascita della moneta unica “fu solo un episodio dell'equilibrio impossibile in Europa tra la Francia, che lo rincorre, e la Germania che ogni volta, pur non volendolo, in romantica forza delle cose, se ne trova fuori”. Scrive ancora Alvi: “L'Europa senile che decise l'euro guardò indietro, ai propri incubi; e proseguì in un'idea di stato per la quale l'economia e la moneta erano solo argomento di potenza e, quindi, di benessere nazionale”.
Il risultato è che il benessere nazionale si è andato a far benedire. L'unione monetaria non padroneggiata ha mandato in fumo le sue smaglianti promesse e ha dato alla crisi economica europea una torsione politicamente inedita, piuttosto spaventosa. Ha un bel dire il premier Mario Monti che “non dobbiamo sorprenderci che l'Europa abbia bisogno di crisi, e di gravi crisi, per fare passi avanti. I passi avanti dell'Europa sono per definizione cessioni di parti delle sovranità nazionali a un livello comunitario” (alla Luiss, nel febbraio scorso). Oggi quelle parole hanno un sapore beffardo, mentre anche un “eurorealista” come Alessandro Campi, vede “l'autonomizzazione e la superfetazione di una burocrazia di Bruxelles che ha perso cervello politico. Aver fatto la moneta unica e insieme aver costruito uno strano ibrido istituzionale come la Bce è stato un altro errore, così come aver postulato l'egualitarismo forzoso degli stati dell'Unione. L'attuale stretta economica europea è figlia di una debolezza politica. Una cabina di regia politica che avesse risolto per tempo il caso greco non avrebbe fatto precipitare la situazione”.
In epoca di euroentusiasmi, quando il traguardo della moneta unica era ormai prossimo, in un intervento al Forum europeo del 1997 Monti dichiarò che “l'emergere del principio di responsabilità etica, quella che i tedeschi chiamano la solidarietà verticale tra generazione e generazione, è un portato del diffondersi di quella cultura tedesca dell'economia sociale di mercato su cui è incardinato il trattato di Maastricht”. Riconsiderata oggi, anche quella dichiarazione provoca qualche brivido. Lo storico e antropologo grancese Emmanuel Todd, in un dibattito su Herodote, parla della “Germania luterana, dominata dalla famiglia autoritaria, che accetta più facilmente le ingiunzioni governative relative al rigore o al lavoro rispetto ad altre società, come per esempio quella francese”. Così, aver messo alle idee europeiste dei padri fondatori la camicia di forza dell'unione monetaria senza banca centrale, con l'interdetto alla Bce di fare quello che qualsiasi banca centrale nazionale può fare, per Todd non poteva che condurre “all'attuale giungla”. E se le regole dell'Unione “non saranno riviste in un senso risolutamente democratico e più rispettoso delle realtà umane,l'Europa potrà addirittura fare la fine dell'Urss”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano