La caduta di Bersani

Claudio Cerasa

Apparentemente la situazione sembrerebbe perfetta per Pier Luigi Bersani: con Silvio Berlusconi che va fuori da Palazzo Chigi, i berlusconiani che vanno fuori dal governo, gli amici bocconiani che danno vita a un nuovo esecutivo e con il suo partito che tre anni e mezzo dopo aver perso le elezioni si ritrova magicamente a dare la sua più completa fiducia a una nuova squadra di governo: e il tutto senza il minimo sforzo, senza aver avuto bisogno di perdere tempo con delle nuove e inutili e noiosissime elezioni ma impegnandosi semplicemente a farsi portare sotto braccio per un po' di tempo dalla diabolica Signorina spread.

    Apparentemente la situazione sembrerebbe perfetta per Pier Luigi Bersani: con Silvio Berlusconi che va fuori da Palazzo Chigi, i berlusconiani che vanno fuori dal governo, gli amici bocconiani che danno vita a un nuovo esecutivo e con il suo partito che tre anni e mezzo dopo aver perso le elezioni si ritrova magicamente a dare la sua più completa fiducia a una nuova squadra di governo: e il tutto senza il minimo sforzo, senza aver avuto bisogno di perdere tempo con delle nuove e inutili e noiosissime elezioni ma impegnandosi semplicemente a farsi portare sotto braccio per un po' di tempo dalla diabolica Signorina spread. Ma ora che sembra essere stata definitivamente smaltita la sbornia per la cacciata del perfido Caimano, i massimi dirigenti democratici non possono più far finta di non accorgersi che tra le vittime del patto d'acciaio stretto con la Signorina spread oltre a esserci l'ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi c'è, ovviamente, anche il segretario del Pd: Pier Luigi Bersani.

    Certo, è chiaro: può sembrare paradossale che questo accada nel momento in cui il Pd ha ottenuto le dimissioni del Cav. e nel momento in cui i sondaggi dicono che se oggi ci fosse stato il voto il centrosinistra avrebbe ottenuto una facile vittoria contro il centrodestra. Ma la verità, come sussurrano lontano dai microfoni dirigenti del Pd di diversa appartenenza, è che dal giorno in cui si è insediato Monti il leader democratico si è ritrovato a fare i conti con un nuovo contesto in cui la linea espressa dalla vecchia maggioranza del partito (quella uscita vincitrice dalle primarie del 2009) è diventata, di fatto, la linea di minoranza del Pd. 

    Bersani naturalmente non potrà mai riconoscerlo, e continuerà a dire che nel Pd va tutto bene, che è tutto sotto controllo, che gli equilibri non sono cambiati e che l'unico problema del partito è quello di trovare solo una nuova sintesi politica. Ma dalla storia più recente del Pd non è difficile capire che le cose sono molto più complicate per il segretario. E dopo non essere riuscito a evitare la formazione di un esecutivo tecnico (che Bersani non voleva), dopo non essere riuscito a spingere il Pd sulla strada delle elezioni (che Bersani invece desiderava) e dopo essere stato costretto a votare la fiducia a un governo la cui agenda si trova agli antipodi rispetto a quanto proposto finora dal leader del Pd, nel Partito democratico è risultato chiaro a tutti – come ammette a malincuore un deputato vicino al segretario – “che alla fine dei conti la Signorina spread ha trasformato Bersani nell'ambasciatore di un partito la cui linea viene dettata da tutti – da Francoforte, dal Quirinale, da Berlino, da Palazzo Chigi, da Via Solferino, da Largo Fochetti – tranne che dal segretario”.

    “Sono cambiate molte cose in questi mesi
    – dice al Foglio Marco Meloni, lettiano e membro della segreteria del Pd – ed è inevitabile che nel Pd sia doveroso creare una nuova sintesi. Bersani lo ha capito e in questa fase di sostegno al governo è ovvio che per pacificare l'Italia sia necessario anche pacificare il Pd. Lo capiremo tutti e spero che presto lo capirà anche il nostro responsabile economico, al quale chiederei di non irridere le posizioni di chi la pensa diversamente da lui. Fassina – aggiunge Meloni – non deve dimenticare che il Pd ha dato la fiducia a un governo che sul mercato del lavoro e sul welfare ha presentato un programma di riforme che mi sembra differente dalle sue estremizzazioni. E in questo senso ci penserei bene prima di dire che le sue idee su questi temi oggi valgono addirittura il 98 per cento del partito. Siamo proprio sicuri caro Fassina?”.

    Le parole di Marco Meloni si riferiscono a un nuovo piccolo caso scoppiato nelle ultime ore tra le file del Pd. L'incontenibile Stefano Fassina ieri, in una breve intervista rilasciata a Repubblica per rispondere al gruppo di Liberal del Pd che due giorni fa ha chiesto ufficialmente le sue dimissioni da responsabile Economia del partito, ha sostenuto che le idee sul mercato del lavoro e sulla contrattazione aziendale dei democratici alla Pietro Ichino (in sostanza: i democratici di tendenza blairiana e giavazziana) rappresentano appena “il 2 per cento del partito”. Le reazioni all'affermazione di Fassina hanno avuto però l'effetto di certificare il contrario di quanto sostenuto dal braccio destro di Bersani. E alla fine della giornata di ieri è risultato chiaro a tutti che nel Pd il fronte dei critici del pensiero espresso sull'economia dalla coppia Bersani-Fassina (fronte a cui vanno iscritti il vicesegretario del Pd Enrico Letta, l'ex segretario del Pd Walter Veltroni, il capo dei popolari Giuseppe Fioroni, il capogruppo alla Camera Dario Franceschini, tutti critici direttamente o indirettamente con le parole di Fassina) rappresenta decisamente qualcosa in più del due per cento del partito. “Ich bin ein Ichinen!”, ha scritto ieri su Twitter il deputato veltroniano del Pd Andrea Sarubbi: come a voler certificare che gli Ichino del partito, caro Fassina, caro Bersani, sono decisamente più di quanto la segreteria del Pd possa immaginare.

    Dunque segretario spacciato? Neanche per sogno. Perché nonostante la caduta libera del leader del Pd i bersaniani sanno che fino al prossimo congresso avranno comunque il coltello dalla parte del manico; e non è certo un caso che i dirigenti del Pd più vicini al leader democratico non perdano occasione per ricordare ogni giorno che “l'identità del partito non deve essere messa a repentaglio da questo governo” e che “il Pd continuerà a votare la fiducia al governo Monti a patto che non ci venga chiesto di diventare il partito di Monti”. Traduzione politica del messaggio: “Ehi, non fate scherzi, cari amici veltroniani, lettiani e franceschiniani: perché chiunque abbia intenzione di portare avanti un ribaltone nel Pd con la scusa del governisino deve sapere che a noi bersaniani l'idea di staccare la spina al governo di solidarietà nazionale non ci fa assolutamente paura”. Un concetto, questo, che in qualche modo viene ammesso in modo esplicito, e con sincerità, anche da Antonio Misiani, tesoriere del Pd.

    “Il nostro sostegno a questo governo
    – dice Misiani al Foglio – è leale e senza paletti di alcun genere, ma non può avere come conseguenza la trasfigurazione del profilo del Pd. Il Pd ha un leader che è stato eletto democraticamente due anni fa: pensare che il sostegno a un esecutivo tecnico debba comportare il commissariamento di un segretario che è stato scelto dai cittadini è una cosa che non esiste. Noi saremo fedeli a questo governo nell'interesse del paese. Ma da qui a farci imporre una tecnosegreteria ce ne passa: non mi sembra la priorità né per il paese né per il nostro partito”.

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.