Il giorno della melioneya
Quant'è pessimista il tycoon Naguib Sawiris sulle elezioni in Egitto
Tre settimane fa sembrava finito, Mohammed ElBaradei, candidato presidenziale con appena il 13 per cento dei consensi e uno staff elettorale così stanco di lui da abbandonarlo in blocco. Negli ultimi due giorni però l'ex direttore dell'Agenzia atomica delle Nazioni Unite, criticato per le sue posizioni troppo morbide con Teheran, ha avuto un colpo d'ala: prima ha rifiutato con sprezzo la convocazione a un incontro con i generali del Consiglio supremo e poi è andato in piazza Tahrir nel venerdì della melioneya, “la marcia di un milione” contro la “dittatura militare”.
Il Cairo, dal nostro inviato. Tre settimane fa sembrava finito, Mohammed ElBaradei, candidato presidenziale con appena il 13 per cento dei consensi e uno staff elettorale così stanco di lui da abbandonarlo in blocco. Negli ultimi due giorni però l'ex direttore dell'Agenzia atomica delle Nazioni Unite, criticato per le sue posizioni troppo morbide con Teheran, ha avuto un colpo d'ala: prima ha rifiutato con sprezzo la convocazione a un incontro con i generali del Consiglio supremo e poi è andato in piazza Tahrir nel venerdì della melioneya, “la marcia di un milione” contro la “dittatura militare”. E' un paradosso: il candidato meno carismatico di tutti è stato adottato dagli egiziani più combattivi e ieri circolava una petizione che chiede ai militari di consegnare il potere a un governo di unità nazionale presieduto da lui. Per riflesso automatico, i sostenitori dei generali hanno subito cominciato a odiarlo: a una manifestazione a favore del Consiglio nella piazza di Abbasiyah, gridavano davanti alle telecamere: “Piuttosto che ElBaradei primo ministro, la morte!”. Non corrono rischi immediati: la proposta suona come un balsamo per un candidato che sembrava essersi perso nella campagna elettorale, ma è considerata poco realistica. Ieri anche Washington ha chiesto ai militari di cedere il potere “il prima possibile”.
ElBaradei è riuscito almeno a entrare nel ciclo delle notizie, dominato a due giorni dall'inizio delle elezioni (estese anche a martedì) dalle richieste anti militari di Tahrir e dai Fratelli musulmani. Un intero settore di partiti e di candidati è scomparso dai discorsi degli egiziani. Il più importante tra loro è senza dubbio Naguib Sawiris, il magnate delle telecomunicazioni, che tre giorni fa era impegnato in campagna elettorale, ma a New York. L'invitato presente a una sua cena di raccolta fondi nella ricca comunità araba che vive negli Stati Uniti riferisce di averlo sentito dire che “scioperi e proteste hanno distrutto l'economia egiziana” e anche che “è stata al Jazeera a istigare l'attacco all'ambasciata israeliana”. L'uditorio ha risposto con applausi e brindisi. Ma in Egitto i moderati e il centro che avrebbero dovuto opporsi alla marea ben organizzata dei Fratelli musulmani e alla tenacia dei sei partiti salafiti stanno conducendo una campagna rinunciataria, anche se hanno una piattaforma assolutamente ragionevole. Spiega Sawiris, in un'intervista al canadese Globe and Mail: “Voglio un paese dove un islamico può andare alla moschea, un cristiano in chiesa e io se lo desidero a prendermi uno scotch al bar”. Il magnate è duro con la piazza: “Questi sono andati a suonare la chitarra a Tahrir e sono tornati a casa quando il party è finito, non c'è stato nessuno sforzo per costruire un qualcosa di politico. Poi vengono da me e chiedono: ‘Come sta andando?'”. Sawiris è sincero e pessimista, per militare in una campagna: “La Tunisia è un paese davvero liberale, là le donne sono forti come dieci uomini. Eppure gli islamisti hanno vinto con il 45 per cento. Cosa succederà qui?”.
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