I soldati e i fellah
Il nemico è smilzo, ha le spalle strette e la divisa tutta nera delle forze di sicurezza centrali, il corpo alle dipendenze del ministero dell'Interno che in Egitto si occupa delle proteste in strada. Ovvio che sia di brutto aspetto, è fatto con le reclute rifiutate dall'esercito, con gli scarti, e anche se non avessero un'uniforme diversa i due gruppi si possono distinguere fisicamente gli uni dagli altri con un'occhiata. Sono pure peggio equipaggiati.
Il Cairo, dal nostro inviato. Il nemico è smilzo, ha le spalle strette e la divisa tutta nera delle forze di sicurezza centrali, il corpo alle dipendenze del ministero dell'Interno che in Egitto si occupa delle proteste in strada. Ovvio che sia di brutto aspetto, è fatto con le reclute rifiutate dall'esercito, con gli scarti, e anche se non avessero un'uniforme diversa i due gruppi si possono distinguere fisicamente gli uni dagli altri con un'occhiata. Sono pure peggio equipaggiati: non hanno le maschere antigas, anche se in queste ore stanno sparando tonnellate di gas sulle vie che circondano piazza Tahrir, e poi gli tocca pure avanzare in mezzo e piangere e svenire negli androni dei palazzi con i caschi che cadono dalle teste – e senza nemmeno una fila di volontari, spesso di madonne consolatrici, pronti a lavare le facce con liquidi lenitivi, come invece succede dall'altra parte del fronte. Non hanno i blindati dell'esercito, hanno camionette. E hanno tutto il disprezzo dei ragazzi di piazza Tahrir, che in questi giorni distribuiscono a tutti una fotocopia con la taglia su un Divisanera che – dicono loro – mira sempre in faccia quando spara i pallettoni di gomma – sono di gomma ma fanno male, penetrano nelle guance dove incontrano poca resistenza, lasciano un foro senza pelle dove incontrano l'osso, oppure ledono irreparabilmente gli occhi. La ferita all'occhio sta diventando uno dei simboli di questa seconda rivoluzione, tra le immagini che si passano tutti per darsi coraggio c'è il fotomontaggio di uno dei quattro leoni di pietra che sorvegliano il ponte Qasr al Nil, anche lui con la benda bianca incerottata su un occhio.
I Divisanera del comitato di sicurezza centrale sono disprezzati anche dai militari, che li considerano uomini di serie B, senza stile e senza motivazioni nobili (quando nell'86 si sono ribellati per questioni di paga, sono stati i soldati a mettere a posto i picchiatori). In questi giorni, però, si dice con insistenza che i soldati abbiano rifornito i paramilitari di armi e mezzi, sempre sottobanco, perché i generali vogliono mantenere l'algida immagine di osservatori neutri, anzi addolorati, degli scontri di piazza. Su uno dei lati di piazza Tahrir c'è via Sheik Rehim, con una caserma dell'esercito: a cento metri le forze di sicurezza sparano e lì invece le sentinelle in cima al muro con casco e fucile d'assalto guardano nel vuoto, non si muovono, non rispondono alle parole lanciate dalla gente. Ogni tanto qualcuno sale su per una scaletta di ferro a dare loro il cambio, ed è l'unico movimento. Quando due notti fa i soldati sono usciti fuori dalla caserma e hanno preso posizione difensiva attorno all'ingresso, si sono seduti stretti con le gambe unite in avanti, il lungo manganello posato sull'asfalto e lo scudo a 45 gradi, una posizione di pura attesa: tutti abbastanza sicuri che non sarebbero stati attaccati dai manifestanti a pochi metri.
Il rapporto tra gli uomini del ministero dell'Interno e i militari potrebbe avere scatenato sabato scorso la seconda rivoluzione di piazza Tahrir. Ci si chiede perché le forze di sicurezza abbiano attaccato con brutalità lo sparuto gruppetto di invalidi della sollevazione di febbraio, che di mattina occupava nemmeno per un decimo la gigantesca rotonda al centro della piazza, con carrozzelle e famigliari al seguito, senza disturbare nemmeno il traffico. Il pestaggio è stato violento persino per gli standard egiziani.
Chi controlla gli uomini delle forze di sicurezza centrali? Perché li fa agire con questa durezza? E' il risentimento covato in dieci mesi di umiliazione completa, da quando hanno perso il loro status di temuti servitori del ministero, odiati e derisi mentre i soldati salivano al governo? Hanno deliberatamente scatenato problemi a una settimana dalle elezioni?, si chiede Thanassis Cambassis, reporter navigato, in Egitto prima per il New York Times e ora per una delle riviste americane migliori, Atlantic Monthly. Oppure stavano agendo non contro i militari, ma per conto loro, che approvano la brutalità delle Divisenere ma non vogliono essere loro a reprimere direttamente i civili?
Il Consiglio supremo delle forze armate ha l'ultima parola sul potere esecutivo, ma non riesce a esercitare il controllo ora per ora e giorno per giorno sulle operazioni in mano al ministero dell'Interno, scrive il canale panarabo al Jazeera sul suo sito.
La capacità dei generali di comunicare con i ministeri è fisicamente limitata – dice Steven Cook, del Council on Foreign Relations, che ha fatto ricerche dirette sull'esercito egiziano – non usano nemmeno le mail, se qualcuno al ministero dell'Interno non risponde al telefono il messaggio non arriva, è un problema enorme, comunicano come se fossero negli anni Sessanta (vale anche il contrario: durante l'assalto all'ambasciata israeliana a settembre, i generali non si fecero trovare al telefono dall'ambasciatore americano). Simon Hanna, un secondo esperto che in questi giorni è a Tahrir, sostiene che il Consiglio supremo abbia paura di una rappresaglia da parte del ministero. Se provasse a limitarne i poteri, i generali dei paramilitari, che sono in maggioranza, potrebbero reagire aggravando la crisi, sono gli stessi che hanno aperto le porte delle prigioni e hanno organizzato le milizie in abiti borghesi durante i diciotto giorni della Prima rivoluzione. Ora stanno continuando a reprimere con intensità insensata le proteste a piazza Tahrir: irruzioni in piazza, munizioni vere, ospedali da campo bruciati, migliaia di lacrimogeni sparati, e il Consiglio supremo potrebbe non avere la piena forza necessaria a controllarli. “E' come se ci fosse un ricatto in corso tra il ministero dell'Interno e il Consiglio supremo dei generali – dice Hanna – ma non si possono fare previsioni, è tutto dentro una scatola nera”.
Il Consiglio supremo e il ministero dell'Interno possono contare su una base infinita, tra gli ottanta milioni di egiziani. Piazza Tahrir attrae con un irresistibile vortice centripeto tutte le notizie e tutti i giornalisti, ma appena al di là dei confini c'è il resto del paese, che fa come se nulla fosse. I cecchini sparano e la metropolitana del Cairo, 18 milioni di abitanti, si limita a chiudere una stazione. A Zamalek, il quartiere elegante, le ragazze con i jeans di lusso bevono frappé da Coffee Bean e da Tea Leaf. Se un lato del carattere nazionale è quello indomito e irriducibile che si vede sulle barricate, dove i giovani salgono cantando con la certezza di essere feriti, e viene da chiedersi – pensiero blasfemo – se non abbiano bisogno di una rivoluzione a intervalli regolari di tempo, l'altro carattere nazionale è quello del fellah, il bracciante abituato a sopportare il ciclo millenario del Nilo che invade la terra e poi si ritira dopo mesi lasciando distese di mota coltivabile. Il fellah è imperturbabile: si aspetta dal potere – sia esso di volta in volta il faraone, il sultano, il presidente Mubarak o il Consiglio supremo dei militari guidato dal generale Tantawi – che l'ordine naturale delle cose, regolato dalle leggi dell'appetito e della sicurezza, non sia troppo stravolto. Si aspetta che la piramide non sia rovesciata. Non partecipa alla storia, la storia è un'inondazione che periodicamente allaga la terra e c'è da attendere che tutto torni come prima. Agisce secondo poche coordinate chiare che rispetta senza scarti e per questo è sospettoso di ogni elemento che non rientra nello schema: un giornalista straniero con un computer sottile dev'essere per forza un agente maligno, probabilmente una spia israeliana. E non vale soltanto per le classi economicamente più disastrate, il fellah è un carattere diffuso anche tra gli uomini d'affari e tra i politici: il Nilo monta, l'importantate è poi rimettere le cose a posto come prima.
In due mesi di campagna elettorale, in preparazione di quelle che saranno le prime elezioni senza previsioni scontate di grandi brogli come durante l'era Mubarak, soltanto i Fratelli musulmani e i salafiti sono riusciti a vincere quest'apatia, questa inerzia nazionale, grazie alla loro organizzazione – lavorano a questo momento da ottant'anni – e grazie al fervore religioso di proselitismo islamico che per quest'occasione è semplicemente diventato proselitismo politico. I grandi partiti laici, la borghesia medio alta, le banche, il mondo degli affari, i militari, sono rimasti preda dell'incantamento stanco del fellah. E ora si stanno bruscamente risvegliando. La Borsa soltanto domenica ha bruciato otto miliardi di sterline egiziane. I candidati non sono pronti al voto. E i militari sono davanti alla seconda rivoluzione di Tahrir.
Il Foglio sportivo - in corpore sano