Se ci si disfa dell'euro

Stefano Cingolani

Il circo mediatico-finanziario sembra in piena convulsione. Moody's nel suo ultimo report ritiene che “default multipli non sono da escludere”. E tutti pensano subito all'Italia.

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    Il circo mediatico-finanziario sembra in piena convulsione. Moody's nel suo ultimo report ritiene che “default multipli non sono da escludere”. E tutti pensano subito all'Italia. Anche se l'agenzia di rating continua a credere che l'euro sopravviverà, “nelle ultime settimane è aumentata la probabilità di scenari sempre più negativi”. Eppure le Borse partono a razzo, Milano sale addirittura del 4 per cento, Francoforte arriva al 4,6, Parigi al 5,4, New York a più 3. C'è logica in questa follia? In parte, è la reazione di sollievo alla smentita della notizia che il Fmi aveva deciso di salvare l'Italia con 600 miliardi di dollari. Gli operatori hanno letto il comunicato come un messaggio che la situazione è grave, ma non disperata. Anche se nessuno esclude un intervento del Fmi; anzi, alcuni lo auspicano, soprattutto negli Stati Uniti.

    Le banche sono pessimiste. Nomura parla di “endgame” e sostiene che gli operatori stanno facendo i conti. Merrill Lynch ha già cominciato a “pensare l'impensabile”. Deutsche Bank analizza “un nuovo stadio della crisi”. Ubs ha calcolato da tempo quanto costerà a ogni tedesco abbandonare la moneta unica e quanto a ogni greco. Ragionevolmente, gli italiani si collocano in mezzo, attorno agli otto-novemila euro l'anno. Secondo il Wall Street Journal le compagnie che consentono di scambiare ogni giorno quattro triliardi di dollari sul mercato dei cambi (per esempio ICAP o Cls Bank) hanno già condotto stress test per prepararsi alla dissoluzione dell'euro. Joachim Fels, capo economista di Morgan Stanley, ritiene che il “Doomsday” sarà il 9 dicembre: se il Consiglio europeo non uscirà con un piano comprensivo, l'Unione monetaria andrà in pezzi.

    Oggi il Tesoro italiano deve emettere 8,8 miliardi in titoli poliennali e la Banca d'Italia si prepara a intervenire, come ha già fatto la Bundesbank per i propri Bund, nel caso di un fallimento o di tensioni eccessive sui rendimenti. L'anticipo di ieri con tassi scesi al 7,3 per cento ha fatto tirare un sospiro di sollievo, ma erano solo 567 milioni con scadenza 2023. Nelle scorse settimane i Btp hanno già sfondato quella che Ignazio Visco ha definito la soglia di pericolo, cioè l'8 per cento. Nel 1996 siamo arrivati ben oltre. Per non parlare del 1976 quando fummo salvati dal Fondo monetario internazionale. Due anni prima dovemmo chiedere un prestito alla Germania dando in pegno 540 tonnellate d'oro. Oggi abbiamo 2.400 tonnellate per 94,6 miliardi di euro poco più della Francia, terzi al mondo dopo Usa e Germania. Dunque, in teoria possiamo farcela anche con tassi più elevati, certo ansimando e boccheggiando. In pratica, la corsa al rialzo dei tassi sul debito italiano diventa la prova generale dell'assalto finale all'area euro.

    Circola anche una versione che sembra fatta apposta per placare gli animi. Eccola qua: al ritorno dalla missione americana, Angela Merkel darà il via alla nascita dello zar dei bilanci, con diritto di veto sulle politiche dei paesi in deficit e sanzioni per gli inadempienti. In cambio, la Bce concede prestiti triennali alle banche ormai rimaste a secco e annuncia un obiettivo per gli spread sui titoli di stato, oltre il quale si lascia facoltà di intervenire senza limiti. Il tetto resta alto abbastanza da costringere comunque i governi a tirare la cinghia (dunque oltre 400 punti base). La svolta verrebbe annunciata al vertice del 9 dicembre avviando un circolo virtuoso. Sarà così? Lo vedremo nei prossimi giorni.
    Intanto si moltiplicano gli scenari apocalittici. Persino l'intelligence di Berlino diffonde le prove generali di una uscita tedesca dall'Unione monetaria. Le tappe dell'addio elaborate dall'Università Helmut Schmidt di Amburgo, che fa capo alle Forze armate, formano un cliché che si applica a chiunque. Chiusura delle banche, emissione di nuove banconote, rigidi controlli alle frontiere, doppia circolazione, infine il passaggio integrale al nuovo marco rivalutato del 25 per cento rispetto all'euro. Un bel colpo per l'export, costi calcolati attorno ai 340 miliardi a fronte di 80 miliardi per restare nella moneta unica. Da Zurigo arriva la voce, diffusa da Mf-Dow Jones, che un'azienda svizzera starebbe stampando i nuovi marchi. Secondo alcuni, si comincia con lo stampigliare sull'euro un segnale elettronico per distinguere quelli tedeschi.

    Il marchio, in realtà, già esiste e non solo sulle monete: le banconote tedesche hanno una X quelle italiane una S. Sostituire fisicamente l'euro è una operazione lunga e complessa, difficilmente può restare segreta. Ma non ci sono difficoltà tecniche insormontabili. I problemi sono innanzitutto politici, economici e sociali. Come sempre c'è chi guadagna e chi perde. La moneta ha tre funzioni fondamentali: unità di conto, mezzo di pagamento, riserva di valore. E dietro ciascuno di essi c'è un pezzo di società che lavora, soffre o s'arricchisce.

    Un break-up dell'euro, sia esso unilaterale o concordato, coinvolga un paese marginale o uno centrale, richiede lo stato d'eccezione, con una sospensione temporanea del mercato. Occorre impedire l'assalto agli sportelli, la fuga dei capitali, bloccare gli scambi di merci e di titoli finché non è chiaro il valore ufficiale della nuova moneta, assicurandosi che ci siano abbastanza banconote e pezzi metallici in circolazione. L'Italia finora ha vissuto due grandi esperienze: il secondo Dopoguerra e il corso forzoso della lira nel 1866. Ma oggi le condizioni sono ben diverse. Tutti gli scenari, dalla svizzera Ubs a Merrill Lynch (che fa parte di Bank of America) alla giapponese Nomura, prevedono una svalutazione e un default di fatto. Del resto, proprio da queste decisioni traumatiche derivano i due veri vantaggi: la svalutazione favorisce le esportazioni, il default taglia il valore del debito.

    Nomura ha condotto gli studi più approfonditi, l'ultimo pubblicato il 25 novembre, l'altro il 18 e s'addentra nei complessi dettagli giuridici che nascondono altrettante trappole. I titoli di debito emessi in euro verranno tutti rinonimati nella nuova valuta? E in questo caso quanto perderà chi li detiene? Tutto dipende dalla loro natura legale. I Btp, ad esempio, rispondono alle norme italiane. Gli Eurobond a quelle inglesi, azioni e obbligazioni piazzate a Wall Street a quelle americane. Ciò vale per la Grecia come per la Germania. Una tabella quantifica gli asset finanziari in circolazione: quelli italiani ammontano a 6.245 miliardi quasi tre volte il pil di un anno. Tra questi ci sono 1.529 miliardi in titoli di debito sovrano emessi in Italia e 198 miliardi all'estero. Quindi un haircut, come si dice, avrebbe un effetto consistente e verrebbe pagato da banche, imprese e famiglie che detengono buoni del Tesoro.

    E a quanto arriva questo “taglio di capelli”? Merrill Lynch calcola che la moneta italiana oggi è sopravvalutata rispetto al dollaro e quella tedesca sottovalutata. Ciò dimostra i vantaggi che hanno tratto i tedeschi in termini di bilancia dei pagamenti. Dunque, è evidente che un ritorno alla lira deve prevedere un rovesciamento delle parti, altrimenti all'Italia non conviene. Tenendo conto dei valori al 1999 e degli aggiustamenti avvenuti in questo decennio in termini di parità di potere d'acquisto e competitività, un dollaro costerebbe 1.607 lire; 1,38 marchi; 5,26 franchi francesi. Oggi un dollaro quota 0,754 euro. A fine 1998 il biglietto verde valeva 1.840 lire. Ma sono simulazioni da computer, perché al momento del break-up si avvierà una vera e propria battaglia delle monete nel corso della quale ciascuno cercherà di strappare la quotazione più vantaggiosa. Come avvenne del resto con l'introduzione dell'euro, nonostante i parametri tecnici dei quali tanto si parla.

    Che cosa succede alla gente normale? I disagi per il cambio di moneta in realtà durano molto più delle rosee previsioni della Bundeswehr, molti mesi durante i quali sarà necessario mantenere un doppio corso e ferrei controlli su prezzi e tariffe. Un paese che esce dalla porta posteriore, deve calcolare l'impatto di una moneta più debole sulla ricchezza patrimoniale. L'Italia ha avuto una rivalutazione consistente di case e terreni nell'ultimo decennio: per chi possiede un tetto nei centri storici siamo persino al raddoppio, valori ridimensionati dalla crisi, ma non molto. La loro conversione in lire provoca una caduta, soprattutto se si volesse mettere l'immobile sul mercato. Lo stesso vale per i titoli mobiliari (azioni, obbligazioni, bond di qualsiasi natura). C'è il rischio di una sforbiciata rispetto alla quale la patrimoniale alla Giuliano Amato sarebbe rose e fiori.

    Sui mutui si prepara un braccio di ferro perché le banche tenderanno a mantenerli nella valuta forte, con il rischio di mettere sul lastrico i poveri debitori che ricevono salari e stipendi in lire svalutate. O perdono le banche o perdono i clienti o entrambi. In ogni caso, ci sarà una pressione sul governo per aiuti e salvataggi. Nessun controllo dei prezzi potrà bloccare più di tanto la benzina: pagata in dollari al valore stimato da Merrill Lynch, balzerebbe sopra le quattromila nuove lire al litro. Secondo alcuni, un ritorno alla moneta nazionale mette a rischio le riserve matematiche delle assicurazioni (cioè quel che viene accantonato per far fronte agli obblighi futuri nei confronti dell'assicurato).

    Il sollievo maggiore verrebbe dall'industria esportatrice. Una svalutazione del 25 per cento, secondo le stime, spiazza la meccanica tedesca rendendo più convenienti i prodotti italiani sui mercati asiatici. Una bella rivincita. Ma questi segmenti pur importanti dell'economia, hanno un'incidenza limitata sul prodotto lordo. Prima di vederne i vantaggi in termini di crescita e occupazione ci vogliono almeno tre trimestri, durante i quali tutto può succedere.

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