Lo zar è malato
Per l'ultimo, grande discorso prima delle elezioni, gli uomini di Vladimir Putin hanno scelto uno stadio di hockey poco lontano dal centro di Mosca e hanno lavorato a lungo per evitare problemi. Migliaia di giovani sostenitori del premier hanno gonfiato il Luzhniki con le loro bandiere, gridando “hurrah” ogni volta che Putin pronunciava la parola “Russia”; fuori dal palazzetto, le squadre della polizia hanno costruito una bolla di sicurezza larga quattro isolati.
Per l'ultimo, grande discorso prima delle elezioni, gli uomini di Vladimir Putin hanno scelto uno stadio di hockey poco lontano dal centro di Mosca e hanno lavorato a lungo per evitare problemi. Migliaia di giovani sostenitori del premier hanno gonfiato il Luzhniki con le loro bandiere, gridando “hurrah” ogni volta che Putin pronunciava la parola “Russia”; fuori dal palazzetto, le squadre della polizia hanno costruito una bolla di sicurezza larga quattro isolati, che vuol dire strade chiuse, posti di blocco lungo ogni via d'accesso e grandi sfilate di uomini in divisa con poca voglia di parlare.
Così, domenica pomeriggio, Putin ha annunciato la propria candidatura alle presidenziali di marzo e ha chiuso la campagna di Russia Unita per le elezioni politiche che si terranno questo fine settimana. Nonostante i cori e le feste e gli applausi dello stadio Luzhniki, Putin non attraversa il momento migliore della propria carriera politica: resta sempre il politico più popolare del paese, è l'unica guida possibile per milioni e milioni di russi, ma i sondaggi dicono che le sue percentuali non sono mai state così basse negli ultimi dieci anni.
La tendenza è confermata da un paio di segnali che sarebbero poco importanti in altri paesi europei, ma qui pesano in modo diverso. Blog e quotidiani si sono concentrati sui fischi arrivati due settimane fa, quando Putin è salito su un ring per premiare un lottatore russo che aveva appena battuto un rivale americano. Il capo del Cremlino sarebbe dovuto tornare nello stesso stadio qualche giorno più tardi per salutare gli elettori, ma l'evento è stato cancellato. Ed è avvenuto più o meno lo stesso con un incontro organizzato a Pietroburgo la scorsa settimana, al quale Putin ha preferito mandare uno dei suoi vice, Dmitri Kozak: quando il pupillo è salito sul palco, alcuni avrebbero gridato “vergogna”, come ha riportato Simon Shuster di Time Magazine.
Che cosa c'è dietro il calo di popolarità del leader russo? Per capirlo non bisogna osservare i raduni ai quali Putin è presente, ma quelli in cui non c'è. Nella città di Arseniyevo, per esempio, decine di persone hanno organizzato una protesta contro il governo e lo hanno fatto durante la visita del loro governatore, che ha cercato di calmare gli animi con promesse e rimbrotti.
Arseniyevo è nella regione di Tula, a duecento chilometri da Mosca, ed è conosciuta anche in occidente per le sue industrie: non è un villaggio di ribelli nel cuore del Caucaso, né un centro isolato della Siberia, è un polo cresciuto grazie alla dottrina Putin, alla stagione di stabilità economica, e oggi non avverte più una spinta alle proprie spalle. La crisi ha colpito duro da queste parti e la politica si è mostrata meno reattiva del necessario.
La Russia ha un prestatore di ultima istanza potentissimo che si chiama Gazprom e può contare sulle risorse senza limiti di questa grande terra, ma parole come corruzione, disoccupazione e alcolismo stanno rapidamente tornando nelle case, nelle chiacchiere al supermercato e nelle riunioni di quartiere. Questa gente non appartiene all'opposizione, non partecipa alle manifestazioni della destra, fa parte piuttosto della classe media del paese, quella nuova categoria di cittadini nata proprio con le cure di Putin: oggi sono loro a pagare il prezzo più elevato della crisi e fischiano, protestano, passano dall'apatia alle richieste.
Secondo i sondaggi del Levada Center di Mosca, Russia Unita vincerà le elezioni di domenica, ma la percentuale scenderà clamorosamente rispetto al passato e si fermerà intorno al 53 per cento. E' molto più di quel che serve per governare, ma non basta a compiere manovre più complesse, come la modifica della Costituzione, una mossa che Putin ha portato a termine con successo nel corso dell'ultima legislatura e che gli ha permesso di candidarsi alle presidenziali di marzo, quando conquisterà – ci sono pochi dubbi al riguardo – il suo terzo mandato al Cremlino.
Il carisma di Putin dipende da due fattori importanti. Il primo è fatto dei successi che ha raggiunto nei primi anni da presidente, ovvero la vittoria sui ribelli ceceni e l'inizio della “stabilità”, che è diventata la sua parola d'ordine sia negli affari domestici sia nelle questioni internazionali. Il secondo monta sulla capacità di comprendere il linguaggio della Russia e di rispondere ai bisogni dei suoi cittadini. Putin è quel genere di politico che entra in un supermercato e chiede conto del prezzo delle salsicce mentre i suoi colleghi discutono il piano di salvataggio di qualche compagnia pubblica, è uno di quelli che non hanno bisogno della posta elettronica, di Twitter e di Facebook per restare in contatto con la pancia del paese – nel 2005 disse addirittura di non avere un telefono cellulare, ma probabilmente il dettaglio è cambiato da allora.
Sinora le sue scelte hanno avuto grande riscontro dal punto di vista della popolarità, tutto è filato liscio senza bisogno di forzare, qualche trucco c'era ma la maggior parte della nazione non si è fermata a vederlo. Adesso ci sono segni che vanno nella corrente opposta e forse è normale che saltino fuori proprio al momento del voto.
E' come se Putin fosse rimasto lo stesso degli esordi, con le foto a cavallo sulle creste di qualche montagna lontana e la tuta da sub mentre recupera due anfore antiche nelle acque del mar Nero (l'episodio delle anfore è realmente accaduto, la scorsa estate, e un portavoce ha dovuto ammettere che è stata una messa in scena, un evento senza tanti precedenti nella carriera di Putin). Il fatto è che il paese là fuori sta cambiando, il numero dei disoccupati è in aumento, gli investitori stranieri portano altrove i loro soldi e non ci sono tracce di rinascita, com'era dieci anni fa, quando la Russia superava lo choc economico e ricostruiva la propria immagine di potenza internazionale.
Di fronte a questo scenario, Putin può dare il via a una nuova stagione di riforme per modernizzare il paese e dare all'economia lo slancio che ci si attende da un capopopolo. Si tratta di una scelta rischiosa e necessaria allo stesso tempo, perché l'alternativa è il controllo del potere.
Un primo, leggero cambiamento si è già visto sul fronte della politica estera e non si tratta di buone notizie. Il presidente in uscita, Dmitri Medvedev, non ha avuto momenti di debolezza nei quattro anni passati al Cremlino, ma un gran numero di diplomatici occidentali ritiene che usasse toni più concilianti, più efficaci rispetto a Putin. A giudicare dai fatti delle ultime settimane, si direbbe che la tendenza è già invertita. Il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, ha spiegato con calma che cosa pensa del dossier siriano. Assad ha il dovere di risolvere per proprio conto i problemi di casa, ha detto Lavrov, e Mosca non interferirà in alcun modo, quindi niente sanzioni economiche, niente bando alla vendita di armi, niente appoggio alle iniziative dell'Onu. L'unica portaerei della marina russa ha lasciato il mar Nero qualche giorno fa per raggiungere Tartous, sulle coste della Siria, dov'è attesa da altre due navi militari.
Non è certo quel che gli alleati europei avrebbero voluto sentire dai loro vicini orientali. Ma il colpo più potente al “reset” fra la Russia e l'occidente è arrivato dal Cremlino. Medvedev ha fatto sapere che il paese è pronto a tutto pur di fermare il sistema missilistico che gli Stati Uniti progettano di costruire fra l'Europa e il medio oriente. Prima ha annunciato la costruzione di un impianto radar a Kaliningrad, ma la notizia non ha suscitato reazioni clamorose alla Casa Bianca. Quindi ha ripreso la vecchia minaccia di bloccare i canali che permettono alla Nato di rifornire le truppe in Afghanistan. Anche in questo caso, gli americani hanno scelto il basso profilo per la loro risposta, e hanno rimandato la trattativa a data da destinarsi.
Secondo Dmitri Trenin del Carnegie di Mosca, la situazione è piuttosto chiara: Mosca continua a vedere Washington secondo il prisma dei tempi andati, ma gli americani hanno altro a cui pensare. La Russia non rappresenta più una priorità per gli Stati Uniti e pochi al Cremlino hanno il coraggio di ammetterlo: preferiscono muoversi pensando che gli americani stiano dissimulando, cercano di ridurre il peso degli avversari e programmano la fine del potere russo. Trenin non sembra certo un sostenitore di Putin, di Medvedev e del loro “tandem” di governo, ma non sono molti gli autori che mettono in dubbio lo status della Russia e le sue potenzialità.
Uno studioso come Daniel Treisman ha dedicato dieci anni di ricerche e un volume di quattrocento pagine (si chiama “The Return. Russia's journey from Gorbachev to Medvedev”, ed è pubblicato dalla Free Press di New York) a una causa precisa: dimostrare che la Russia è “tornata”, che è di nuovo una superpotenza e deve essere considerata tale a Washington come a Bruxelles. Nel suo libro analizza i fattori che hanno permesso a Putin di ricostruire l'economia e consolidare il proprio potere, ma non dipinge il paese come un “petrolstato” nelle mani di una gang mafiosa e nazionalista, un'immagine abbastanza diffusa fra gli analisti anglosassoni.
“Oggi i leader del paese affrontano una serie di questioni urgenti – dice Treisman – Saranno in grado di costruire relazioni con le società che funzionano sia quando le cose vanno bene, sia quando vanno male? Cominceranno una vera battaglia contro la corruzione, nonostante i numerosi indizi che portano ai loro associati? Riusciranno ad allontanarsi dal potere senza avere conseguenze personali e senza danneggiare l'immagine del paese? O distruggeranno quel che hanno costruito negli ultimi anni?”.
Le stesse domande interessano i cittadini di Arseniyevo, nella regione di Tula, e quelli che siedono sulle tribune degli stadi di Mosca. Perché al momento, l'unico che è veramente “tornato” è Putin, e non è al cento per cento della forma.
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