L'uomo al centro dei due Pd

Claudio Cerasa

Oggi ci sono soprattutto le polemiche sulle pensioni, le critiche sulla contrattazione aziendale, le preoccupazioni sulla riforma del mercato del lavoro, i nervosismi sul pareggio di bilancio e le solite tensioni sull'abolizione dell'articolo 18. Ieri invece c'erano la battaglia contro Marchionne, le critiche alla Bce, il sostegno agli indignados, gli scontri con Enrico Letta, i litigi con Matteo Renzi, i battibecchi con Pietro Ichino, le parole sulla Fiom, le critiche al modernismo e naturalmente le invettive contro il blairismo, il giavazzismo, il liberismo, e così via.

    Oggi ci sono soprattutto le polemiche sulle pensioni, le critiche sulla contrattazione aziendale, le preoccupazioni sulla riforma del mercato del lavoro, i nervosismi sul pareggio di bilancio e le solite tensioni sull'abolizione dell'articolo 18. Ieri invece c'erano la battaglia contro Marchionne, le critiche alla Bce, il sostegno agli indignados, gli scontri con Enrico Letta, i litigi con Matteo Renzi, i battibecchi con Pietro Ichino, le parole sulla Fiom, le critiche al modernismo e naturalmente le invettive contro il blairismo, il giavazzismo, il liberismo, e così via. Oggi come ieri però il risultato non cambia e alla fine il fatto è che da un paio di mesi a questa parte il vero protagonista del dibattito quotidiano del centrosinistra è sempre di più l'uomo a cui Pier Luigi Bersani ha delegato, due anni e mezzo fa, l'agenda economica del partito: Stefano Fassina. Negli ultimi giorni, si sa, il capo degli economisti del Pd è finito nell'occhio del ciclone soprattutto per essere stato oggetto di una richiesta di licenziamento arrivata dal fronte liberal del suo stesso partito.

    Ma la verità è che non passa giorno senza che le due anime e i due micro-Pd presenti all'interno del partito guidato da Bersani non si azzuffino tra di loro discutendo delle parole, delle dichiarazioni e delle prese di posizione del compagno Fassina. Certo, si dirà: la crisi finanziaria ha costretto tutti i partiti a mettere in cima alla propria agenda le tematiche legate alla politica economica, ed è naturale che di questi tempi il protagonista del maggior partito d'opposizione sia il suo responsabile economia. Ma con il passare dei mesi, nel centrosinistra è risultato sempre più chiaro che dietro il profilo di Fassina non si nasconde solo il volto dell'uomo scelto da Bersani per dare forma alla proposta economica del Pd ma si nasconde anche – e anzi: soprattutto – il simbolo più evidente dell'evoluzione dello stesso Pd. E in questo senso, si può dire che oggi, due anni e mezzo dopo l'elezione di Bersani alla segreteria del partito, il modo migliore per studiare la trasformazione del Pd – e comprendere anche il travaglio vissuto in questi giorni dalle due diverse anime del partito che si stanno confrontando con l'esperienza del governo Monti – è quello di andare a ripercorrere le tappe che hanno permesso a Fassina di diventare il dirigente più famoso del Pd.

    “Non si può capire nulla del Pd e del suo rapporto con il governo Monti se non si comprende quello che sta succedendo intorno a Stefano”, racconta un esponente democratico vicino al segretario. E in effetti, per avere un'idea di quello che sta succedendo in queste ore nel tormentato mondo del Pd alle prese con le imprevedibili conseguenze del governo Monti, e per comprendere anche il senso delle richieste che questa sera Bersani porterà all'attenzione del nuovo presidente del Consiglio, bisogna partire proprio da Fassina, e in particolare bisogna partire da una data precisa: 25 ottobre 2009, giorno dell'elezione di Bersani.

    La storia in questione comincia dunque nell'ottobre del 2009, quando Bersani decide di mettere al centro della sua discesa in campo l'economia e quando il segretario in pectore del Pd sceglie di affidare l'agenda economica del partito a un ambizioso e rampante quarantatreenne già direttore scientifico dell'associazione Nens (think tank di Vincenzo Visco), già consigliere economico del ministero del Tesoro ai tempi di Carlo Azeglio Ciampi, già consulente del Fondo monetario ma, a dire il vero, conosciuto fino a quel momento quasi esclusivamente per la sua mezza omonimia con l'attuale sindaco di Torino, Piero Fassino. E proprio a questo rampante quarantenne, Bersani, una volta eletto, chiese di trovare un modo per trasformare in concreta proposta politica uno dei passaggi chiave della sua mozione congressuale. Un passaggio che nel corso del tempo, tra l'altro, è diventato la vera bussola dell'identità economica della segreteria del Pd. “La causa fondamentale della crisi – disse Bersani candidandosi alla guida del partito – viene da lontano… Col prevalere di una finanza sempre più spregiudicata, la ricerca del profitto si è separata dalla creazione di valore economico e sociale… e si è incrinato il grande patto nazionale tra capitalismo e democrazia che aveva segnato il Novecento e si è imposto quel ‘pensiero unico' neoliberista che ha influenzato anche tanti riformisti”. Lotta dura, pura e senza paura al neoliberismo, dunque. E bisogna partire da qui per capire da dove nascono le perplessità coltivate dal Pd di fronte alla sfida del governo Monti. “La lotta al neo-liberismo – ammette Giorgio Tonini, senatore del Pd – è sempre stata una cifra importante della gestione della segreteria di Bersani, e si può dire che Fassina ha incarnato in modo impeccabile questo ruolo. Ma la domanda che dobbiamo porci di fronte a un governo in fondo ‘neo-liberista' come quello guidato da Monti è se quella critica strutturale al pensiero unico neoliberista oggi ha ancora senso oppure no”.

    Le parole di Tonini, pur essendo naturalmente di parte (veltroniana), sono utili per entrare nel cuore delle critiche rivolte negli ultimi mesi a Fassina da ampi settori del Pd. Come fanno notare ormai da molte settimane diversi dirigenti di primo piano del partito, per il Pd l'aver dato la sua fiducia a un programma di governo come quello di Monti (che contempla riforme come la flexsecurity e la contrattazione aziendale, contro le quali Bersani e Fassina combattono da sempre) ha significato bocciare la linea portata avanti fino a oggi dai vertici del Pd, e non può sorprendere dunque che nel Partito democratico ci sia qualcuno che oggi chiede con insistenza allo stesso Fassina di prenderne semplicemente atto e di non continuare a fare finta di niente. “Chi in modo esplicito e in modo implicito chiede a Fassina di dimettersi – dice il deputato bersaniano del Pd Stefano Esposito – dovrebbe smetterla di comportarsi come se facesse parte non del Pd ma del partito dei Monti boys; e piuttosto dovrebbe ricordarsi più spesso che l'agenda del nostro partito non la decide un governo tecnico o un differenziale di rendimento, ma l'ha decisa un congresso a cui hanno partecipato milioni di elettori. E governo Monti o non governo Monti l'identità del Pd è quella, e resterà quella fino al prossimo congresso”.

    Polemiche a parte tra Monti boys e Bersani boys, quello che risulta più interessante nella storia dell'evoluzione del pensiero fassiniano è la ragione per cui il responsabile Economia del Pd viene portato in palmo di mano da tutto il fronte più sinistro del partito di Bersani. Una ragione molto semplice: Fassina, infatti, forse meglio di chiunque altro dirigente del Pd, rappresenta uno dei princìpi cardine del bersanismo riassumibile più o meno così: la vocazione maggioritaria non ci fa certo schifo ma il nostro grande obiettivo deve essere quello di non lasciare scoperto il fianco sinistro del Pd, e impegnarci in tutti i modi a non regalare la sinistra del paese al compagno Nichi Vendola. Un rischio questo che nei prossimi mesi – mesi in cui il partito di Bersani darà il suo appoggio al governo lacrime e sangue di Monti – correrà naturalmente ogni giorno di più. E a partire dalla prossima settimana sarà interessante osservare in che modo il Partito democratico riuscirà a fare i conti con alcune riforme come quelle delle pensioni che faranno inevitabilmente borbottare la base più di sinistra del Pd. “Non possiamo permetterci di lasciare la sinistra e la Cgil a Nichi Vendola – è il ragionamento fatto in questi giorni dal segretario del Pd – e anche a costo di sembrare a volte ostili a questo governo non dobbiamo rinunciare alla nostra identità: perché altrimenti il rischio è che quando i sindacati il prossimo anno scenderanno in piazza per manifestare contro le misure del governo alla fine manifesteranno anche contro di noi, e francamente sarebbe una beffa”.

    In effetti, il tema dell'identità del Pd si trova al centro dello scontro che in queste settimane vive sotto traccia tra le due grandi anime presenti nel partito. E se da un lato i Monti boys (che al governo guidato dall'ex numero uno della Bocconi hanno deciso di dare un appoggio quasi incondizionato) sono convinti che il governissimo aiuterà il Pd ad avvicinarsi all'elettorato moderato e ad allontanarsi sempre di più dalla famosa foto del patto di Vasto; dall'altro lato i Bersani boys sono invece convinti che il governissimo potrà essere appoggiato solo a condizione che il nuovo presidente del Consiglio accolga nella sua agenda alcune misure ispirate a quell'“equità sociale” a cui fanno riferimento ormai quotidianamente tanto il segretario del Pd quanto Stefano Fassina. E sarà proprio questo quello che stasera Bersani dirà a Monti, in perfetta sintonia tra l'altro con la relazione che oggi pomeriggio terrà Susanna Camusso all'assemblea straordinaria convocata dalla Cgil a Roma: caro presidente, noi siamo pronti a ingoiare il boccone amaro delle pensioni, noi siamo disposti ad accettare anche una riforma del mercato del lavoro ispirata al principio della flexsecurity, ma in cambio voi dovete prometterci che non rinuncerete al principio del “chi ha di più deve dare di più”: e per questo, caro Monti, quando sarà il momento della nostra proposta di patrimoniale per favore non dire di no.

    Un dettaglio che non è sfuggito
    “Vedete – ci dice ancora Tonini, voce sempre utile a capire quello che passa per la testa dei liberal del Pd – il vero punto è che finora il Pd si è mosso troppo spesso rinnegando l'idea originaria con cui il nostro partito è nato quattro anni fa. L'idea di creare una sintesi riformista tra cattolici e comunisti. Di superare i miti unitari del Novecento. Di diventare il contenitore delle anime riformiste di tutto il centrosinistra. Ed è proprio in questo senso che un riformista oggi fa fatica ad accettare che il nostro partito continui a essere ostaggio dei veti dei sindacati meno riformisti. Serve più coraggio oggi, cari compagni, dobbiamo fare alcuni passi in avanti e trovare una nuova identità: e non capire questo significherebbe buttare nel cestino la grande chance che ci offre l'esperienza del governo Monti”.

    Eppure, prima di diventare il nemico giurato del popolo liberal del Pd, un piccolo e generoso tentativo di conquistare i propri antagonisti democritici Fassina lo aveva fatto, e lo aveva fatto neppure troppo tempo fa. Ricordate? Era l'aprile del 2010 e Fassina rilasciò una lunga intervista – proprio a questo giornale – per provare a rompere uno degli storici tabù del centrosinistra, e tentare di sedurre anche l'ala neoliberista del Pd (quella che insomma non sviene quando sente nominare la parola “Giavazzi”). L'idea era semplice: dimostrare che il più grande partito del centrosinistra era stufo di essere identificato come se fosse ancora il partito del tassare e spendere, e del santo cielo signora mia ma quanto sono belle le tasse. E così – oplà– ecco la novità: cari compagni, ora basta, da oggi in poi dobbiamo combattere tutti uniti per far sì che i governi abbassino le tasse. “Bisogna smettere di credere – disse Fassina – che la questione dell'abbassamento delle tasse sia soltanto una fissa degli integralisti del liberismo. Non è così”.

    Quella svolta – una svolta tra l'altro significativa perché arrivò appena venti giorni dopo un'altra intervista in cui Fassina aveva detto l'esatto contrario (“Per me è chiaro, ad esempio, che fare asili nido è più importante che abbassare l'aliquota fiscale”) – venne salutata con soddisfazione dal popolo liberal del centrosinistra; e per qualche mese Fassina riuscì a conquistare persino la simpatia di tutto il partito e a farsi in qualche modo interprete di quel tentativo di “amalgamare e unire persone diverse, incrociare percorsi che vengono da lontano con la freschezza di chi si è appena messo in cammino, intendersi parlando anche lingue differenti” a cui fece riferimento Bersani sempre all'interno della sua mozione congressuale. Ma pochi mesi dopo quel tentativo comunque coraggioso, lo stesso popolo liberal che aveva apprezzato la svolta riformista e (però ditelo sottovoce) leggermente blairiana di Fassina oggi è unito nel valutare in modo negativo l'operato del responsabile economico del Pd, nel chiedere (più o meno ad alta voce) le sue dimissioni e nel ricordare tutte le sconfitte, i passi falsi e le retromarce fatte registrare in questi mesi dalla coppia Bersani-Fassina. Perché se è vero che i capi economici del Pd hanno già sofferto (e molto) per aver votato due settimane fa un'agenda di governo non in sintonia con quanto proposto finora dal Pd, è anche vero che durante il 2011 ci sono almeno altri due temi sui quali Fassina ha registrato due sconfitte rotonde. Il primo è la patrimoniale. Il secondo è il pareggio di bilancio.

    Sulla patrimoniale la storia è nota: perché oggi tutto il Pd chiede a Monti di tassare i patrimoni ma all'inizio dell'anno i bersaniani del Pd criticarono ferocemente gli esponenti liberal del partito (soprattutto Veltroni) che sponsorizzarono per primi quel genere di proposta. “La possibilità di un'imposta straordinaria sul patrimonio – scrisse Fassina in un duro scambio epistolare con alcuni membri della segreteria del Pd a gennaio – l'abbiamo discussa a lungo… poi, l'abbiamo scartata perché sarebbe massimamente regressiva data la composizione e la residenza del patrimonio italiano”. La storia si è ripetuta anche con le posizioni del Pd sul pareggio di Bilancio. Fassina ha sempre sostenuto che il pareggio di bilancio sarebbe stato rischioso da introdurre in Costituzione perché avrebbe avuto la conseguenza di acutizzare anziché contrastare gli effetti negativi del ciclo economico – e anche ad agosto, durante una riunione congiunta delle commissioni Affari costituzionali e Bilancio della Camera e del Senato, Fassina sostenne che il Pd avrebbe commesso una sciocchezza ad appoggiare quella norma. E invece pochi giorni fa è successo quello che Fassina temeva: di fronte alla possibilità di votare il pareggio di bilancio alla Camera, il Pd si è espresso al contrario di come chiedeva il capo degli economisti del Pd, e semplicemente ha votato “sì”. Ma nonostante questo, Bersani negli ultimi giorni non ha fatto a meno di difendere il suo braccio destro, e in una recente intervista rilasciata al Messaggero ha detto che le posizioni di Fassina sono le posizioni del Pd, facendo capire che non avrebbe più accettato critiche a Fassina perché attaccare Fassina significa attaccare anche il segretario.
    Un'equazione molto semplice, che a dire il vero ai Monti boys e agli anti fassiniani del Pd non era affatto sfuggita.

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.