Non c'è etica del capitalismo che tenga se c'è troppa politica

Stefano Cingolani

La “multinazionale delle mazzette” non abita a Roma in un palazzetto di vetro e cemento che guarda il Tevere, ma a Monaco di Baviera. Opera in venti paesi che coprono l'intero alfabeto, dalla A di Argentina alla V di Vietnam passando per la I di Italia. Non l'ha messa a nudo un magistrato d'assalto, bensì una società di revisione dei conti, l'olandese Kpmg, una delle quattro grandi (insieme a Deloitte & Touche, Ernst & Young e PwC).

    La “multinazionale delle mazzette” non abita a Roma in un palazzetto di vetro e cemento che guarda il Tevere, ma a Monaco di Baviera. Opera in venti paesi che coprono l'intero alfabeto, dalla A di Argentina alla V di Vietnam passando per la I di Italia. Non l'ha messa a nudo un magistrato d'assalto, bensì una società di revisione dei conti, l'olandese Kpmg, una delle quattro grandi (insieme a Deloitte & Touche, Ernst & Young e PwC). No, non è Finmeccanica; è la Siemens, gioiello del Modell Deutschland. La trama è emersa nel 2006 in un rapporto commissionato dalla Securities and Exchange Commission, cioè l'agenzia americana che controlla Wall Street. Centrali elettriche, gestione delle carte d'identità, sistemi di controllo del traffico, macchinari per la sanità, reti di telecomunicazioni. Un totale di 4.283 pagamenti illegali, per 14 categorie di transazioni e 332 progetti o vendite individuali. Almeno 1,4 miliardi di dollari passati nelle tasche di funzionari governativi dei vari paesi, compresi almeno due ex capi di stato.

    Nel 2003 emergono i primi casi da un'indagine interna sulla corruzione in Nigeria per la fornitura di sistemi di comunicazione al paese africano (si scopre poi che al presidente e al suo vice hanno regalato orologi per 170 mila euro). Intanto, a Milano scoppia lo scandalo Enelpower. La procura trova versamenti su conti monegaschi a due ex manager del gruppo elettrico italiano per comprare turbine tedesche da montare nelle centrali progettate all'estero. Briciole, rispetto alle consulenze pagate a una società americana che fa capo alla moglie del vicepresidente Siemens (familismo in salsa di crauti) per lavori mai svolti: almeno 2,8 milioni di euro. Per i manager sott'accusa, prepensionamenti d'oro; uno di loro riceve anche 1,8 milioni di euro di benefit quando lascia la società. Nel novembre 2006, la polizia tedesca irrompe nella sede di Monaco di Baviera, ma ci vuole ancora un anno per far cadere le teste. Nel frattempo, secondo la Sec, le mazzette continuano, almeno 27,5 milioni fino al settembre 2007. Il big boss, Klaus Kleinfeld, dimessosi già nell'aprile di quell'anno, adesso è al vertice di Alcoa, il gigante dell'alluminio.

    Dunque, così fan tutte? E così fanno dappertutto? Non c'è etica protestante che metta al sicuro lo spirito del capitalismo. Attenti a farsi paladini della purezza perché il demone colpisce anche i migliori. Come accadde a Helmut Kohl. Il padre dell'unità tedesca, lo statista che rinunciò al marco per creare l'euro, coinvolto in un sistema di finanziamenti occulti, finì mestamente una non comune carriera. Ad accanirsi contro di lui, fu proprio la sua pupilla Angela Dorothea Kasner divorziata Merkel, figlia di un pastore luterano, nata ad Amburgo, ma cresciuta al di là del Muro. Chi raccolse le mazzette era l'uomo forte della Cdu e la mente più brillante, Wolfgang Schäuble, che le pistolettate di un pazzo ha costretto sulla sedia a rotelle dal 1990. Lo racconta in un libro autobiografico intitolato “Mitten in Leben”, nel mezzo della vita, espressione di una vera e propria crisi di mezz'età personale oltre che politica dopo la rovinosa sconfitta di Kohl nel 1998 contro Gerhard Schröder. La vicenda risale al 1994, quando all'hotel Königshof di Bonn, viene avvicinato da Karl-Heinz Schreiber che gli chiede un appuntamento. Il giorno dopo l'uomo si presenta come un imprenditore simpatizzante e gli allunga una bustarella con centomila marchi, “per uso personale”. Schäuble, tesoriere del partito, prima si schermisce poi la prende e la passa direttamente a Frau Baumeister, la classica ignara segretaria. L'inchiesta successiva accerterà che donazioni del genere sono andate avanti per anni. Kohl sapeva? Era stato informato. Non poteva non sapere. Anche in Germania.

    Le indagini del Parlamento tedesco sui fondi illegali della Cdu, rivelarono la cresta sulle vendite di carri armati alla corona saudita, e una maxi-tangente: 40 milioni di euro per l'acquisto di una compagnia petrolifera in Germania est da parte di Elf Aquitaine, il gruppo petrolifero dello stato francese: 15 milioni sarebbero stati versati direttamente al partito democristiano come aiuto per la campagna elettorale di Kohl nel 1994. Oltre 300 milioni di marchi furono scoperti in depositi nel cantone di Ginevra. Nel 2003 è emerso che a Helmut Kohl furono pagati 300 mila euro dal magnate televisivo Leo Kirch il quale aveva costruito il proprio impero proprio grazie all'aiuto di Kohl negli anni 80. Insomma, ogni paese ha il suo Lorenzo Borgogni, l'uomo che gira con le valigette. L'orchestra cambia, la musica è sempre la stessa. Ma a noi non interessa compilare una rassegna di ordinaria corruzione. Le mani debbono essere pulite. In Giappone i politici vanno dagli elettori indossando guanti bianchi. Poi se li tolgono e prendono i pizzini della Yakuza. Non tutti, naturalmente. Il problema è capire quando e perché il meccanismo diventa sistemico.
    Il serpente tentatore s'annida nel connubio tra economia e politica.

    Come dimostra il caso Siemens, appunto. O come Finmeccanica, impresa multinazionale, perché opera in più paesi, ma nazionalissima perché finanziata dal Tesoro, sostenuta da contratti esclusivi con lo stato, e da aiuti pubblici sotto forma di incentivi all'innovazione, contigua ai servizi segreti. Nel momento in cui è stato defenestrato Pier Francesco Guarguaglini che ha fatto il bello e cattivo tempo, è prevalsa, ça va sans dire, la continuità nominando presidente l'amministratore delegato Giuseppe Orsi. L'ex capo intasca come buonuscita 5,5 milioni. Cambiare, ma non troppo: se questo è il governo dei tecnici, incrociamo le dita. Accade così anche nei gruppi che lavorano per il Pentagono? Forse, ma almeno sono molti, rispondono all'amministrazione che dà le commesse, ma anche agli azionisti. L'oligopolio non è il mercato ideale, comunque è meglio del monopolio pubblico.

    Carlo Troilo che ha trascorso tutta la propria vita professionale curando le relazioni pubbliche dell'Istituto per la ricostruzione industriale, ha pubblicato una storia dei “vent'anni che sconvolsero l'Iri”, dal 1963 al 1982. Il punto di svolta è quando esce di scena la generazione postbellica. “Comincia così a emergere una classe dirigente formata da uomini che vanno avanti anche, se non innanzitutto, per meriti e amicizie politiche. Con il passare degli anni le ragioni dei tecnici e il richiamo dei vincoli di mercato divengono fastidiosi elementi di freno per le ambizioni del nuovo gruppo dirigente. Con l'arrivo di Giuseppe Petrilli alla presidenza nel 1964 è iniziata la politicizzazione dell'Iri: Fanfani lo ha scelto come proprio rappresentante al vertice dell'Istituto”. Dunque, la metamorfosi del sistema, finiti i tempi eroici di Mattei o dei Saraceno, è un processo lungo ma ineluttabile.

    Biagio Marzo, dirigente socialista, potente presidente della commissione Partecipazioni statali negli anni di Bettino Craxi, ricorda i manager di alto livello che, pur targati politicamente, hanno segnato momenti alti: i socialisti Marisa Bellisario, Michele Giannotta, Vito Gamberale, tutta gente che “nei posti di comando si sono fatti onore” o i democristiani Ernesto Pascale al vertice di una Stet che allora produceva abbastanza utili da spalmarli su tutta l'Iri, Fabiano Fabiani che risanò la Finmeccanica vendendo l'Alfa Romeo alla Fiat, Ettore Bernabei. Marzo in un suo libro documentatissimo ha raccontato “fatti e misfatti delle privatizzazioni”. Non getta via tutta l'industria pubblica con la sua acqua sporca, ma non si definisce un nostalgico. Riconosce che era un processo inevitabile, inscritto nello stesso trattato di Maastricht. “Nel momento in cui il mercato finanziario europeo viene unificato e si opera con una moneta unica, la competizione sul fronte della cattura del risparmio rafforza la competizione tra stati, favorisce la convergenza e costringe i paesi in ritardo a mettersi al pari dei paesi più avanzati, pena un crollo di domanda dei propri titoli di debito. Questa logica sta alla base dell'Unione europea. Per l'Italia ha significato ridisegnare i confini dell'organizzazione pubblica”. Sono parole del rapporto dell'Iri sulle privatizzazioni in Italia.

    Un liberista impenitente come Alessandro Penati, sostiene che non si è andati abbastanza avanti. “Non è necessario lo stato azionista per sostenere l'industria italiana; per esempio il governo americano sostiene benissimo la propria industria della difesa senza possederne una sola azione”. Eni, Enel, Finmeccanica, le Poste, le Ferrovie, sono rimaste sotto controllo diretto del Tesoro. Alitalia è stata salvata con i denari dei contribuenti. Mentre le ex municipalizzate sono diventate nuovi mostri pubblici. Con quali risultati? Penati fa i conti in tasca a Finmeccanica. Il gruppo è piccolo tra i grandi (18 miliardi di fatturato contro una media di 20), perde 800 milioni con un debito da 4,6 miliardi e un valore del titolo crollato in borsa del 65 per cento. Tirano gli elicotteri dell'AgustaWestland e l'elettronica per la difesa. Il resto, sarebbe da ricollocare a cominciare da treni ed energia. Ma l'unico interesse è proprio sugli armamenti, tanto che Thales (della quale la République française possiede il 27 per cento e Dassault il 25), si è fatta avanti per Oto Melara.

    Là dove la politica comanda o addirittura amministra, là s'annida la bestia. In Germania governo e imprese si sono giurati eterna fedeltà. In Francia grandi aziende sono possedute o controllate dal governo e gli scandali di sistema abbondano. Come l'affaire Karachi che coinvolge Nicolas Sarkozy. Nel 1994, l'attuale presidente occupava il posto di portavoce del candidato all'Eliseo Eduard Balladur. In quel periodo Parigi firmò con il Pakistan il contratto Agosta, che prevedeva la vendita di alcuni sottomarini all'esercito pachistano. Il business venne gestito da Ziad Takieddine, miliardario di origine franco-libanese, nelle cui mani passarono circa 30 milioni di euro in commissioni. Insomma, c'è un Lorenzo Cola anche in Francia, patria dei brasseur d'affaires. Buona parte della somma sarebbe stata destinata alla campagna di Balladur del 1995. E Sarko, suo strettissimo collaboratore, come poteva non sapere dei sette milioni di euro in contanti?
    Il cerchio si stringe intorno al marito di Carla Bruni. Nicolas Bazire, testimone di nozze dell'inquilino dell'Eliseo, è stato messo sotto inchiesta per finanziamenti illegali nel periodo in cui occupava la carica di direttore della campagna elettorale proprio di Balladur. La stessa sorte è toccata all'ex consigliere economico di Sarkozy, Thierry Gaubert. In più Brice Hortefeux, ex ministro dell'Interno e grande amico del presidente, è accusato di essersi impossessato illegalmente di informazioni riguardanti le indagini sul caso di corruzione del 1995. Sarkozy continua a dirsi completamente “estraneo ai fatti”.

    Altre aspidi spuntano dalla cesta. Tra il 2005 e il 2006, fonti più o meno affidabili avevano rivelato l'esistenza della società lussemburghese Clearstream e del suo database di evasori fiscali in cui figuravano i nomi di 300 personaggi di spicco del panorama francese, tra i quali quello di Sarkozy, all'epoca ministro dell'Interno. Ma la credibilità di queste liste ha avuto breve vita, “falsi di bassa qualità”. I sospetti ricadono su Dominique de Villepin, rivale nella corsa all'Eliseo, al punto che Sarko non esita a portarlo in tribunale. L'allora ministro degli Affari esteri, nonostante le smentite, era stato messo al corrente dell'esistenza della lista da Jean-Louis Gergorin, figura a lui molto vicina, che a sua volta aveva ricevuto il dossier dall'informatico Imad Lahoud, unico condannato per diffamazione e calunnie di tutto l'affaire. Villepin viene assolto, ma Sarkozy non esita a sfruttare il suo potere per fini personali. L'aria fosca del sospetto si leva anche dalle trame del ministro Eric Woerth e di sua moglie, che si occupa del patrimonio L'Oréal dal quale sarebbero partite donazioni a vari esponenti dell'Ump, il partito del presidente per finanziare la campagna del 2007.

    Accuse, insinuazioni che riportano indietro alle grandi trame dell'era socialista, come quella che coinvolse uno degli esponenti più in vista, Roland Dumas, amico, compagno di battaglie e avvocato di François Mitterrand, poi nominato da Jacques Chirac membro della Corte costituzionale (in quella veste voterà a favore dell'immunità per il presidente finché resta in carica). Un don Giovanni tradito dalla sua bella, Christine Deviers-Joncour, amante e spia per conto della Elf, “la putaine de la République” come lei stessa si è definita in un libro autobiografico. La trama da film ci racconta di amori da jet set, fregate a Taiwan, affari trattati direttamente da Dumas come ministro degli Esteri, tangenti non per sé, uomo ricco oltre che potente, ma per amici, compagni, il partito.

    La Spagna ci introduce a personaggi meno charmant, per lo più sindaci o presidenti di regione, protagonisti di un meccanismo di finanziamento occulto che passa per la bolla immobiliare. Dieci anni di boom edilizio spargono la manna nella provincia tagliata fuori dal rinascimento economico avviato da Felipe González (caduto anche lui sotto le accuse di corruzione nel 1996). Con la crisi, gli scheletri escono dall'armadio. Secondo un rapporto della procura Anticorruzione citato dal Mundo, solo nei 28 maggiori casi scoperti negli ultimi 10 anni, sono andati in fumo per la collettività 4,15 miliardi di euro. Il giro di soldi sarebbe superiore a quello creato dal traffico della droga (calcolo dell'agenzia Reuters). In Catalogna sono stati sottratti 44,7 milioni di euro in tre diversi comuni e in carcere sono finiti un ex deputato del Partito socialista, il sindaco socialista di Santa Coloma, e due ex membri del governo regionale all'epoca di Jordi Pujol. Il “caso Gürtel”, invece, ha assestato un durissimo colpo al Partito popolare nelle zone di Valencia, Madrid e in Galizia: un gruppo di affaristi guidati dal faccendiere Rafael Correa, riceveva appalti da varie amministrazioni del Pp in cambio di favori personali, sessuali ed economici. Secondo le prime stime, la vicenda coinvolgerebbe mazzette per un giro di almeno 40 milioni di euro. Un imprenditore galiziano ha dichiarato davanti al giudice di Lugo di avere versato 400 mila euro in contanti e attraverso false fatture all'ex ministro socialista dei trasporti José Blanco per ottenere il suo aiuto nella concessione di sostegni pubblici. L'imprenditore Jorge Dorribo ha affermato davanti al giudice che Blanco gli avrebbe aperto le porte dei ministeri.

    L'economia in Spagna è stata trainata dall'edilizia, e il mattone s'è trasformato in oro. In Germania o in Francia i grandi gruppi che fanno affari in tutto il mondo diventano lo snodo del rapporto tra economia e politica, più stretto quando sono in ballo società controllate direttamente dal governo, ma molto forte anche quando è in gioco quella oligarchia che si è sempre spartita consigli di amministrazione e gabinetti dei ministeri. In Italia la testa del serpente s'annida anch'essa in un perimetro della Pubblica amministrazione tortuoso e poroso. C'è una linea mobile, ma riconoscibile, tra corruzione spicciola e sistemica. Il confine si può varcare in entrambi i sensi, ma la distinzione chiave riguarda il grado di occupazione politica dell'industria e dell'economia. Quanto più il legame è stretto, tanto più cresce il catoblepa, il mostro che divora i propri piedi. Il mercato non è perfetto, ma ad aumentare le sue imperfezioni concorre proprio il desiderio di “fracassarlo per vedere come è fatto dentro, come fanno i bambini con i giocattoli”. Così scriveva Luigi Einaudi nel 1944 dal suo esilio svizzero, anticipando già tutte le Siemens, le Elf, le Finmeccanica del mondo.