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Il ritorno di Nasrallah e il war footing

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Ieri il leader carismatico del gruppo armato libanese Hezbollah, Hassan Nasrallah, è apparso in pubblico per la prima volta dal 2008 (qui le foto; qui il video) , durante una processione per la festa sciita dell'Ashura (che in Iraq per l'ennesima volta e in Afghanistan per la prima volta è stata segnata da attacchi sanguinosi, ma è un'altra storia).

    Ieri il leader carismatico del gruppo armato libanese Hezbollah, Hassan Nasrallah, è apparso in pubblico per la prima volta dal 2008 (qui le foto; qui il video) , durante una processione per la festa sciita dell'Ashura (che in Iraq per l'ennesima volta e in Afghanistan per la prima volta è stata segnata da attacchi sanguinosi, ma è un'altra storia).

    Nasrallah non appare in pubblico per motivi di sicurezza. Quando lo fa, è perché il momento è grave. In questo momento l'intera regione è in quella fase che gli anglosassoni chiamano di "war footing", che in italiano si potrebbe tradurre orrendamente con l'espressione: "spirano venti di guerra". La situazione sembra scivolare su un piano inclinato verso il conflitto. Basta guardare che cosa è successo in un solo mese. L'8 novembre l'Agenzia atomica delle Nazioni Unite ha pubblicato il rapporto fino a oggi più duro sul programma atomico dell'Iran, che per la prima volta è definito per quello che è: "militare". Il 14 novembre, una base della Guardie rivoluzionarie dove si lavora al programma nucleare esplode, uccidendo 36 pasdaran – ma l'Iran dice 17 – e spazzando via ogni cosa nel raggio di un chilometro. Si parla di sabotaggio. Il 16 novembre appaiono sulla stampa fughe di notizie su un piano di Israele per attaccare i siti atomici dell'Iran. Il 29 novembre l'ambasciata britannica a Teheran è attaccata da un gruppo di studenti con la compiacenza delle forze di sicurezza, abituate a domare folle ben più numerose. Il 5 dicembre gli iraniani catturano un drone americano dell'ultima generazione, capace di rilevare la radioattività al suolo. Il 6 dicembre l'Iran entra in stato di allerta militare come se si aspettasse un attacco da un momento all'altro – per esempio i missili sono sparpagliati in tutto il paese, in modo da rendere difficile la loro eliminazione e più facile la rappresaglia dopo un'eventuale bombardamento.

    Come se non bastasse, la Siria,
    sponsor storico di Hezbollah, è dentro la crisi più grave degli ultimi trent'anni. Il regime ha tentato di soffocare le proteste nel sangue ma ha ottenuto soltanto di scatenare una guerriglia sunnita e di provocare sanzioni durissime da parte della Lega araba. Il 15 dicembre i voli da e verso tutti i paesi arabi saranno tagliati del 50 per cento, e i movimenti di denaro saranno tagliati del tutto. Tranne che in Libano, dove il governo è formato anche con l'aiuto di Hezbollah. Per questo ieri il leader Nasrallah s'è riaffacciato e ha detto: "Restamo leali alla Siria, che per tanto tempo ha sostenuto la resistenza". E' una dichiarazione di lealtà, mentre il "war footing" prosegue e disegna con nettezza il fronte.

    Nasrallah non è stato incendiario nei toni,
    come invece è di solito. Sembra che la Siria gli abbia chiesto appoggio ma anche understatement, per paura che troppa foga faccia cadere il governo di Beirut (e in questo momento sarebbe una disgrazia per Damasco, è l'unico alleato arabo).  Nasrallah è un leader che si trattiene, un leader al maalox: non ha citato il caso che più lo ha reso furioso negli ultimi giorni, la scoperta che il governo libanese parteciperà alle spese del Tribunale speciale che indaga sulla morte dell'ex premier Rafiq Hariri e che sta per condannare Hezbollah (in questo modo, un governo hezbollah sta pagando le spese dei propri accusatori). Ma Damasco chiede freddezza, e per ora l'ha avuta.