In Padania, ma con Monti

Cristina Giudici

"Temevano lacrime e sangue, per ora sono soddisfatti di dover soltanto piangere”. Ario Gervasutti, direttore del Giornale di Vicenza, di proprietà della Confindustria locale, sintetizza con una mezza battuta lo stato d'animo degli imprenditori veneti dopo la manovra Monti. Prova a tenere la linea: “La considerano solo il primo atto della riforma complessiva, sono fiduciosi. Hanno ottenuto la defiscalizzazione per gli investimenti e la deducibilità dell'Irap, ma sono perplessi perché non c'è stata alcuna detassazione del costo del lavoro e nessuna riforma fiscale”.

    "Temevano lacrime e sangue, per ora sono soddisfatti di dover soltanto piangere”. Ario Gervasutti, direttore del Giornale di Vicenza, di proprietà della Confindustria locale, sintetizza con una mezza battuta lo stato d'animo degli imprenditori veneti dopo la manovra Monti. Prova a tenere la linea: “La considerano solo il primo atto della riforma complessiva, sono fiduciosi. Hanno ottenuto la defiscalizzazione per gli investimenti e la deducibilità dell'Irap, ma sono perplessi perché non c'è stata alcuna detassazione del costo del lavoro e nessuna riforma fiscale”. Intanto, nella domenica di lacrime e sangue, nel cuore della terra veneta Umberto Bossi rilanciava il mito della secessione. Più ancora, il Senatùr a Vicenza ha detto che il re è nudo, che “c'è stata una guerra” e l'Italia l'ha persa, e ora è tutto da ricontrattare. Nel mezzo ci sono gli imprenditori del nord e del nordest, quelli che sono stati il motore del berlusconismo e del leghismo. Si guardano attorno disorientati sulla strada da seguire. Avesse ragione Bossi? Ma non in molti sono disposti ad andare a vedere.
    A volare alto, lo si potrebbe chiamare “le trahison des entrepreneurs”, il tradimento degli imprenditori. Ciò che importa sono i soldini e i tondini. Davanti ai primi passi del governo tecnico gli imprenditori preferiscono stare aggrappati al motto che gira da qualche settimana nei circoli e nelle aziende del nord: “Ich bin Monti”. Orfani del sogno berlusconiano, esibiscono fiducia nel nuovo governo, nella speranza che dia loro ciò che hanno atteso invano: “Poter fare liberamente”. Il primo a dare il via alla staffetta per riposizionarsi era stato nei giorni della caduta di Berlusconi il presidente della Confindustria veneta, Andrea Tomat, che dopo l'endorsement concesso al governatore leghista Luca Zaia, lo aveva messo in difficoltà dichiarando che “il nordest non si può permettere di stare all'opposizione”. E cioè stare fuori dalla nuova partita fra Roma e Bruxelles. Così, davanti alla politica costretta a fare un passo indietro, Tomat ha annunciato il sostegno esterno degli industriali veneti – o almeno dei loro rappresentanti, che devono recuperare consensi fra gli affiliati sfiduciati nei confronti della Confindustria di Emma Mercegaglia – al nuovo corso, con una notevole apertura di credito. Ma non è un mistero che tra quelli che hanno espresso fiducia al governo dei professori ci siano anche tanti elettori leghisti. Anche perché nel nordest, dopo una tiepida ripresa dell'export in autunno, ora la crisi è tornata a mordere parecchio: le banche hanno problemi di liquidità, gli imprenditori avanzano come un branco allo sbaraglio. Davanti alla pressione fiscale, economica e finanziaria europea, dopo anni di retorica “uniti è meglio”, ognuno ha optato per la politica del “si salvi chi può”.

    Ma a far cantare il coro, nelle ultime settimane, è stata l'orchestrina di via Solferino e dintorni, sul nuovo spartito solfeggiato da mesi nei circoli confindustriali. Fuori i politici incapaci e dentro i tecnici, ma quelli che diciamo noi. E infatti, dopo che Diego Della Valle ha sparato la sua pagina pubblicitaria sul Corriere della Sera, con il suo “basta”, ora in Veneto va di moda comprare pagine pubblicitarie sui giornali per farsi notare e dire la propria. L'ultimo è stato un piccolo imprenditore friulano, Giuseppe Valoppi, che ha usato il giornale di Ferruccio de Bortoli per far sapere ai politici che gli imprenditori vigilano sul Parlamento per evitare che le riforme del nuovo esecutivo vengano frenate. Vuole creare un movimento d'opinione che ha un solo obiettivo: riduzione dei costi della politica, liberalizzazioni, privatizzazioni, provvedimenti sul lavoro, sulle pensioni e sullo sviluppo, la patrimoniale. E siccome aveva inviato un suo documento programmatico ai politici, ma nessuno gli aveva risposto, si è comprato lo spazio mediatico per esprimere la sua opinione. Prima di lui lo aveva fatto un giovane trevigiano, Enrico Frare, 36 anni, creatore di un marchio di abbigliamento sportivo. Ha deciso di spogliarsi, senza sapere di emulare vent'anni dopo una provocazione pubblicitaria di Luciano Benetton, e farsi fotografare nudo, con una mano al posto della foglia di fico per coprire quegli attributi che ritiene di avere, e attirare l'attenzione delle banche che non gli hanno dato una linea di credito: “Io vivo per lavorare”, annuncia Enrico Frare, spavaldo, mentre pensa a quei maledetti 720 mila euro che ha appena perso perché non ha potuto produrre la nuova collezione per mancanza di soldi-maledetti-e-subito. Si chiede come mai non ha ricevuto alcun segnale dall'associazione industriale a cui appartiene, “visto che sono un imprenditore che non vuole delocalizzare, ma investire nel proprio territorio”, ha spiegato al Foglio.
    Il riposizionamento degli imprenditori ha tanti piccoli segnali. La scorsa settimana Filiberto Zovico, editore della rivista Nordesteuropa, ha organizzato a Venezia un convegno, ospite d'onore il vicedirettore del Corriere della Sera Dario Di Vico. Il cui filo conduttore voleva essere proprio la presa di distanza del mondo imprenditoriale dalla Lega: “Il nordest può stare all'opposizione? Salvare l'Italia, restare in Europa”. In realtà il gioco non aveva funzionato granché. Ma Roberto Zuccato, presidente degli industriali di Vicenza, che aveva usato parole dure contro la decisione della Lega di  stare all'opposizione, ora ostenta cauto ottimismo: “Si è imboccata la strada per cui investire nelle imprese e nel lavoro. E quindi rilanciare lo sviluppo. Monti e il suo governo hanno fatto quello che umanamente era possibile fare dati i vincoli finanziari, politici e istituzionali. E' vero che sul fronte dei tagli alla spesa si deve fare ancora molto, ma dopo decenni di crescita confusa non si poteva improvvisare. Diamo tempo al governo Monti per prendere in mano questi temi fondamentali”.

    Va da sé che gli imprenditori stanno sempre al fianco di chi governa, dunque nessuno pensa di mettersi contro chi continua a governare regioni e province. E poi, dopo il primo assaggio della ricetta tecnica, già non è più vero che tutti siano così montiani. Il presidente della Confartigianato veneta Giuseppe Sbalchiero – il re del popolo delle partite Iva, 60 mila aziende – ad esempio non è contento per niente e si ribella al nuovo mainstream: “Artigiani e imprenditori vogliono quello che volevano prima da Berlusconi: semplificazione normativa, cuneo fiscale e sburocratizzazione. La manovra invece ha colpito i soliti noti. L'unico provvedimento positivo – ci dice – è stata la deducibilità dell'Irap, che però gravava maggiormente su grandi imprese. Gli imprenditori sanno benissimo che il nuovo premier non è un liberista, ma sa come si dice: morto un Papa se ne fa un altro. Questa è l'atmosfera”. L'economista della Lega, il senatore Massimo Garavaglia, ora che ha le mani libere ha affermato convinto: “Torna l'Ici e rivedranno la rendita catastale. Questa si chiama patrimoniale, anche se avrà un altro nome”.

    In realtà, alla classe imprenditoriale del nord non interessa molto la sospensione della politica. E nemmeno se la democrazia si coniughi con la tecnocrazia. I sindacati, da queste parti, ascoltano perplessi i ragionamenti di industriali che sposano teorie azzardate: dicono che si lavora meglio nei paesi dove la democrazia non c'è, come in Cina, dove gli imprenditori più competitivi sono riusciti a portare le loro aziende e formare i loro staff manageriali con gli occhi a mandorla, “e quindi cosa vuoi che sia un governo che non è stato eletto”, dicono con spregiudicatezza. Meglio affidarsi a un salvatore della patria, senza curarsi troppo del resto. “Soprattutto in un paese dove la classe politica si è dequalificata, togliendosi da sola la tripletta della A dettata dalle agenzie di rating”, dicono e ribadiscono a chi li accusa di essere opportunisti. L'epicentro del nuovo movimento di opinione si trova proprio qui, nel Veneto fino a poco tempo fa culla e motore propulsivo del centrodestra berlusconiano e leghista. Come se non fossero stati loro, proprio gli imprenditori veneti, e in particolare quelli vicentini, a costituire la base sociale del berlusconismo che ora rinnegano col disincanto di una riforma tradita e di una parziale amnesia.

    “Le aziende sono soffocate dalla stretta creditizia”, ammette Franca Porto, segretaria della Cisl veneta, “e hanno bisogno sia di Roma, sia di Bruxelles, per risolvere le loro patologie. Senza dimenticare, però, che gli imprenditori sono sempre molto sensibili a capitalizzare i benefici e a minimizzare i danni”. Un diplomatico giro di parole che tradotto significa: gli industriali sono disposti a sostenere chiunque in cambio di qualche agevolazione fiscale e della speranza di un po' di politica industriale.  A sentirli parlare, a scorrere le frasi affastellate sui loro blog, quasi sempre anonimi, si ha piuttosto la sensazione di uno smarrimento. Chi può vantare di rappresentare un'eccellenza (e non sono pochi) del made in Italy, parla solo dell'aumento del proprio fatturato, degli investimenti fatti per modernizzare e internazionalizzare le proprie imprese. Chi invece è sopraffatto dalle tasse, dalla mancanza di liquidità o dall'incapacità di essere competitivo, descrive il proprio declino con pacata rassegnazione o accusando il governo, la casta, la Confindustria, le banche.

    In comune però tutti hanno la diffidenza verso la commistione fra politica e impresa e, indipendentemente dalle loro idee, scuotono la testa davanti ai proclami politici degli imprenditori perché conoscono e temono la loro autoreferenzialità. “Si sentono come marziani che vivono in una dimensione spazio-temporale diversa rispetto a quella del paese”, osserva il direttore del Censis, Giuseppe Roma, ricercatore sociale, esperto di Economia territoriale. “Rispetto al nuovo governo però, io invece noto una certa neutralità”, aggiunge, “ma per il momento sono contenti di poter andare all'estero a parlare di affari e non più di Berlusconi, anche se sono consapevoli che il vero problema non è il cambio di governo, ma la recessione che verrà. E aspettano che si possano detassare i salari per diminuire il costo del lavoro e poter fare più investimenti”. Per adesso, dunque, aspettano e sperano.
    E questo è il rovescio della medaglia. Quasi tutti quelli interpellati dal Foglio, criticano il vetusto sistema di relazioni di Confindustria, condizionato dalla commistione fra i grandi monopoli pubblici e le piccole-medie imprese, che non riescono a far sentire la propria voce, ad affermare le proprie esigenze. Non escono allo scoperto per sostenere Sergio Marchionne, ma intanto si allunga la lista delle imprese uscite o che vorrebbero uscire da Confindustria. L'ultimo è stato il patron di un piccolo gioiello, Grafica Veneta, Fabio Franceschi, che stampa “Harry Potter” in Italia, in Francia, in Polonia, Grecia e in Bulgaria. E siccome è un “babbano” e non può andare a prendere il treno per Hogwarts, la sua magia l'ha costruita così: lasciando la testa della sua azienda a Trebaseleghe e portando il resto del corpo all'estero. Fino in Russia, dove si è conquistato una fetta della torta editoriale. “Quelli che possono permetterselo fanno così”, ci ha raccontato un imprenditore lombardo, “partecipano alle riunioni locali della Confindustria, cantando l'inno di Mameli con una mano sul cuore, ma una volta ricevuti i finanziamenti dalle banche, portano i soldi all'estero, dove hanno costruito aziende più solide per salvarsi dalla globalizzazione e anche dall'andamento di Lady Spread. Soprattutto in Cina, dove cercano di far crescere all'interno delle loro aziende un establishment manageriale con gli occhi a mandorla, e chissenefrega dell'Italia che s'è desta”. Insomma, si può stare col governo tecnico, ma sotto la pelle l'imprenditore di confine il sospetto che abbia ragione Bossi ce l'ha: che la guerra sia persa e che noi e l'Europa si debba ricominciare da capo.
    Chi non può, invece, perché ha una piccola impresa e non possiede le risorse necessarie per il salto in alto globale, fa finta di avere dei forti ideali patriottici e dice che bisogna resistere, investire sul proprio territorio. Ma poi, siccome ci sono le tasse e la burocrazia, e i ricavi che si riducono – nonostante la ricchezza patrimoniale e imprenditoriale nostrana che fa a pugni con il debito pubblico e il ristagno del pil – anche i piccoli cercano di smammare.

    Alcuni salgono sui pullman per andare in visita in Slovenia o in Carinzia, per vendere il know-how italiano in cambio di terreni gratuiti e agevolazioni fiscali. Andando incontro alla terra promessa dove, pare, non esiste una cosa odiosa che si chiama l'Irap. Quella che Edoardo Nesi, scrittore toscano e rampollo di una storica azienda tessile di Prato, venduta nel 2004, quando la globalizzazione ha messo in ginocchio i distretti industriali, nel suo romanzo autobiografico “Storia della mia gente” ha ribattezzato “Iraq”. “A Prato la chiamavamo Iraq per la devastazione creata fra le aziende in difficoltà”, ha scritto. E lui, che ci ha vinto il Premio Strega, spiega forse meglio di chiunque altro cosa sia l'identità (smarrita) degli imprenditori italiani e di chi, come lui, ha smesso di esserlo. Al punto che una volta, durante un reading al quale partecipava anche lo scrittore di “Sportswriter”, Richard Ford, è andato fuori tema, mettendosi a parlare del declino della sua terra, Prato, che aveva dovuto svendere la propria storia ai cinesi. E lo scrittore americano, spiazzato, gli ha risposto: “L'economia soccomberà a un atto di immaginazione”. Che non vuol dire niente, per un imprenditore.

    Certo, se andiamo a vedere cosa ha fatto Luxottica sembra di stare in Germania. Non quella del direttorio, ma quella delle imprese solide e lungimiranti. Dopo aver creato il welfare aziendale, hanno introdotto il job sharing, che è stato uno degli stratagemmi utilizzati dai tedeschi per non licenziare i dipendenti e mantenere il ciclo produttivo. Certo, Luxottica non fa testo, è una delle aziende più floride del made in Italy. Così come forse non fa testo, ma costituisce l'eccezione, l'esperienza di Mario Carraro, che con i suoi trattori ha un fatturato di 900 milioni di euro e ha 4 mila dipendenti sparsi per il mondo dalla Cina fino in Africa perché ha conquistato nuovi mercati nei paesi emergenti. Eppure anche nel suo stabilimento padovano ha dovuto ricorrere ai contratti di solidarietà per 420 dipendenti. Ma Carraro, che cita Paul Krugman, da ex presidente della Confindustria ora è molto critico. Convinto che l'attuale sistema di relazioni industriali sia superato. E guarda alla Germania, dove la Confindustria, la Bdi, funziona perché non è una corporazione, dove convivono enti pubblici e imprese private con interessi divergenti, ma una federazione divisa in associazioni di categoria che riescono a fare lobbying.
    L'elenco delle eccellenze made in Italy è sterminato, ma è difficile capire cosa vedano oggi gli imprenditori, guardandosi allo specchio. Ma se si va a chiedere a un signore per bene, come Claudio De Albertis, presidente di Assimpredil, che rappresenta seimila aziende lombarde del settore edilizio e immobiliare, come si sente, lui scuote la testa. Stretto fra un Pgt (Piano di governo del territorio) troppo “dirigista” e la drastica crisi del settore, non ha voglia di alzarsi in piedi come i veneti per dire “Ich bin Monti”. E di dare una cambiale in bianco al nuovo governo: “Io guardo, osservo e mi aspetto un bagno di sangue”, chiosa. “Sono consapevole”, dice, “che con questo governo i cattolici hanno ripreso il potere. Niente da obiettare, se ciò non fosse accaduto attraverso la sconfitta della politica”.