La cura del vivere all'epoca della riforma pensionistica del tecnogoverno
“Le lavoratrici che aspettavano i sessant'anni per accudire un famigliare anziano o disabile adesso dovranno aspettare altri due anni. La scelta: lasciare il lavoro rinunciando alla pensione oppure pagare una badante? E' vero che nel resto d'Europa l'età pensionabile è altrettanto alta ma i servizi a sostegno delle famiglie sono ben altra cosa”. Così una lettrice di Torino ribadiva ieri sul Corriere della Sera l'esistenza di un problema finora molto agitato, ogni volta che in Italia si è parlato di aumentare l'età della pensione per le donne.
Leggi Com'era la vecchiaia prima dell'invenzione delle pensioni?
“Le lavoratrici che aspettavano i sessant'anni per accudire un famigliare anziano o disabile adesso dovranno aspettare altri due anni. La scelta: lasciare il lavoro rinunciando alla pensione oppure pagare una badante? E' vero che nel resto d'Europa l'età pensionabile è altrettanto alta ma i servizi a sostegno delle famiglie sono ben altra cosa”. Così una lettrice di Torino ribadiva ieri sul Corriere della Sera l'esistenza di un problema finora molto agitato, ogni volta che in Italia si è parlato di aumentare l'età della pensione per le donne. Quel problema permane. Non l'hanno dissipato le decisioni del tecnogoverno solo per il fatto che “ce le chiede l'Europa” (e chissà che cosa ne pensano le promotrici della manifestazione “Se non ora quando”, riconvocata per l'11 dicembre dopo quella oceanica del febbraio scorso). Ha scritto Franca Fossati su Europa che “i temi sono sempre quelli. Welfare, lavoro, rappresentanza. Declinati al presente vogliono dire, per esempio, che se si aumenta l'età pensionabile per le donne vanno aumentati anche gli asili nido, i congedi di paternità e i servizi per gli anziani”.
Il fatto è che il cosiddetto “lavoro di cura” riveste in Italia modalità uniche nel mondo occidentale. Ce l'ha appena ricordato il rapporto del Censis. La famiglia (tradotto: le donne) continua a essere punto di forza del nostro modello perché capace di integrare, se non sostituire, le prestazioni altrove affidate al welfare. Ma questa caratteristica non nasce solo dalle carenze dello stato sociale e dalla banale necessità di fare di necessità virtù. Se la prospettiva emancipazionista sul modello “facciamo come i maschi” ha issato a lungo la bandiera del rifiuto di un lavoro casalingo non pagato e svalutato, oggi almeno una parte della riflessione femminista italiana propone uno sguardo diverso, che chiede però, innazitutto, che sia dato valore diverso alla “cura del vivere”. Così si intitola il documento (pubblicato da Leggendaria e dal sito donnealtri.it) sul quale Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Elettra Deiana, Laura Gallucci, Letizia Paolozzi, Bianca Pomeranzi, Bia Sarasini, Rosetta Stella, Stefania Vulterini chiamano a discutere chi voglia approfondire il tema di quel “di più” che le donne mettono nel lavoro di accudimento, e che non è solo retaggio di soggezione. La cura diventa “il” tema politico e “paradigma di interesse generale, garante della qualità dei rapporti e dei legami”. Le autrici ricordano che “la cura non piaceva alle ragazze, non dava identità. C'era la paura/il rifiuto di trovarsi di fronte a un'idea di cura ‘come destino'. Il desiderio era spostarsi… non devi negarti o annegarti nell'abnegazione amorosa. Ammesso che sia amorosa e non obbligata”. E allora “si diceva che sarebbe finito, che doveva finire. Se ci fossero stati, se ci fossero, servizi sociali e asili nido sufficienti. Quasi si vedesse il lavoro di cura solo come un fatto oggettivo, lavori da eseguire o far eseguire. Quasi che la cura fosse questione da risolvere tra un buon welfare pubblico – sempre più un miraggio, in questi tempi di crisi – o la monetizzazione del mercato.
Ma sul serio sarebbe tutto risolto? Noi pensiamo che nell'altalena delle donne tra lavoro e vita c'è qualcosa in più. Un resto che socializzazione totale, servizi organizzati, personale a pagamento non bastano a cancellare. Non che siano inutili. Il punto è c'è un resto – a cui attribuiamo il nome di cura – che né il welfare statale né il mercato possono dare. Un collante, una garanzia affinché il mondo non si regga solo sulle relazioni di potere, ricchezza, sfruttamento, ma restituisca senso alla fragilità, al limite, alla responsabilità. Purché si distingua tra ‘cura' e ‘lavoro di cura'. Purché si rifiuti la visione della cura come lavoro residuale. O servile”. C'è bisogno di un rovesciamento radicale nell'idea di cura, che parta dal suo riconoscimento. E' da capire (a occhio c'è da essere pessimisti) se la riforma delle pensioni annunciata andrà in quella direzione.
Leggi Com'era la vecchiaia prima dell'invenzione delle pensioni?
Il Foglio sportivo - in corpore sano