Il pelo nel voto islamista

Daniele Raineri

La storia di Yousseni è un po' complicata, perché lui è omosessuale e l'omosessualità al Cairo è una faccenda che passa ogni giorno di nascosto sotto forche caudine multiple: c'è il machismo arabo – che è una posa su cui molto si potrebbe scrivere e si potrebbe pure smontare in fretta, ma proprio per questo fa la faccia feroce – c'è l'ostilità da metropoli africana, c'è soprattutto il codice di comportamento stabilito dall'islam che tutto sorveglia e tutto punisce.

    La storia di Yousseni è un po' complicata, perché lui è omosessuale e l'omosessualità al Cairo è una faccenda che passa ogni giorno di nascosto sotto forche caudine multiple: c'è il machismo arabo – che è una posa su cui molto si potrebbe scrivere e si potrebbe pure smontare in fretta, ma proprio per questo fa la faccia feroce – c'è l'ostilità da metropoli africana, c'è soprattutto il codice di comportamento stabilito dall'islam che tutto sorveglia e tutto punisce. E infatti non è Yousseni a volere parlare di sé direttamente, ma il suo compagno, che è uno studente americano e accetta giocoforza le cautele di questo tipo di vita. Come ogni palazzo egiziano, anche in quello dove l'americano ha un appartamento in affitto c'è un bawab alla porta, un custode, e ci sono regole condominiali che impediscono ai maschi locali di arrivare dopo una certa ora e di fermarsi per la notte, perché c'è da difendere il buon nome delle donne e anche i singoli edifici possiedono una loro moralità. Così ospita Yousseni di giorno, che passa a trovarlo spesso e volentieri e i due sono considerati grandi amici.

    A gennaio lo studente americano torna negli Stati Uniti, ma è lui a essere furioso con l'egiziano, e non viceversa, perché alle elezioni della scorsa settimana ha dato il voto al Partito della luce, Hizb an Nour, il movimento politico dei salafiti. “E' un voto suicida e non se ne rende conto. Partito della luce si fanno chiamare: sono gli alfieri del radicalismo islamico più primitivo e brutale. Quelli ce l'hanno a morte con gli omosessuali, ci considerano un abominio da sradicare. Sta consegnando il suo paese nelle mani di un partito di maniaci che non vedono l'ora di entrare dentro le case degli egiziani a farsi i fatti loro, che annunciano a caratteri cubitali che renderanno la sua vita ancora più difficile di quanto è già. Un giorno penseremo con nostalgia all'Egitto di oggi come a un'Età dell'oro”.

    Yousseni conosce le conseguenze del voto ma non ascolta ragioni, viene da una famiglia che vive fuori dal Cairo ed è rispettata per il suo senso religioso profondo, ha promesso loro che avrebbe dato la preferenza ai salafiti e poi l'ha fatto sul serio, il segreto della cabina elettorale è diverso dal segreto della camera da letto del Cairo. L'americano è lineare, fa tutto facile: quelli ci odiano, non devono avere il tuo voto. La richiesta della famiglia – che ovviamente non sa nulla di amici studenti nella capitale e di bawab maliziosi – e il potere della tradizione musulmana prevalgono però sulla libertà privata, sulle convinzioni politiche, persino sull'istinto di conservazione.

    Così, con i suoi Yousseni nascosti nella massa, o anche a farla, la massa, in Egitto le elezioni sono partite da una settimana: si votano 9 governatorati per volta in tre turni diversi, per non mettere troppo alla frusta una macchina organizzativa che è ridicolmente sgangherata. Lo è tanto che persino il presidente dell'Alta commissione elettorale annunciando i risultati in diretta tv s'è interrotto a metà e ha detto: “Ho troppo sonno arretrato, guardateveli su Internet”. In totale sono 27 governatorati; i due turni rimanenti arriveranno nelle prossime quattro settimane, e in mezzo ci sono anche i ballottaggi tra i candidati dei singoli collegi – quelli del primo turno ci sono stati ieri, anche se l'affluenza è stata bassa, forse molti elettori pensavano di avere già finito. E questo vale soltanto per l'Assemblea del popolo, l'equivalente della nostra Camera. Poi si ricomincia daccapo, per votare la Shura, il Senato. Come tutti sanno, già il primo turno ha dato un'indicazione: i salafiti, “gli alfieri dell'islam più brutale”, hanno quasi il 25 per cento, un quarto dei voti. I Fratelli musulmani (o meglio: il loro paravento politico, il Partito della libertà e della giustizia, ma per comodità si assume che coincidano) hanno ottenuto un po' meno del 40 per cento atteso, il 36; il Blocco egiziano sponsorizzato dal magnate Naguib Sawiris il 15 per cento. Ad Alessandria, la seconda città del paese, i salafiti hanno più di mezzo milione di elettori, e la Fratellanza quasi 600 mila.
    A questo primo turno hanno votato le zone del paese più moderne e aperte, dove l'influenza islamista si fa sentire di meno: nei prossimi due turni, quando anche il peso lieve del quartiere elegante di Zamalek non ci sarà più e si farà sentire invece il peso massiccio delle aree rurali, dove la Fratellanza vende carne a un quinto del suo costo reale per ingraziarsi gli elettori, la percentuale del voto musulmano sarà ancora più alta.

    Yousseni il salafita con il senso di colpa politico abita in una capitale a maggioranza islamista ma in contraddizione con se stessa. Al Cairo la crisi economica picchia duro: non si fa mai la fila nei negozi e non importa quello che vendono, cartolerie, telefonia, abbigliamento, dalla strada i neon interni illuminano un vuoto dopo l'altro e le sagome dei proprietari sulla porta. Eppure quando si entra in alcuni posticini dove vendono birra e whisky senza insegne luminose – così impone la legge – ci sono sempre almeno un paio di clienti davanti e c'è da attendere mentre il banchista prima avvolge le lattine in fogli di giornale come fossero uova e poi le infila in sacchetti di plastica neri, perché l'alcol si acquista e si beve ma non si deve vedere in strada – come se tutti non sapessero perfettamente cosa c'è nei sacchetti neri. Non è tutto così lineare.

    Da lontano c'è chi commenta: ecco il monoblocco islamista che si prenderà il 65 per cento del Parlamento, la somma algebrica di Fratelli musulmani e salafiti. Tanto la differenza tra i due gruppi starebbe soltanto nella lunghezza delle barbe, curate per i primi e lasciate incolte e selvagge, alla Mangiafuoco, per i secondi. In realtà i partiti sono contrapposti, alle elezioni – venti ballottaggi su 41 ieri erano tra un candidato del Partito della libertà e della giustizia e uno del partito salafita – e dopo.

    “Ragionate”. Parla un Fratello musulmano, settore giovani, che però non vuole il nome pubblicato perché l'organizzazione prima e il partito poi hanno una disciplina meticolosa quando si tratta di rapporti con i media (e a volte non basta, devono smentirsi nel giro di 24 ore. Il giorno delle elezioni hanno detto che il governo lo sceglierà il Parlamento – quindi loro e non i militari – ma il giorno dopo hanno ritrattato per non andare subito allo scontro diretto contro il Consiglio dei generali. Mercoledì scorso hanno detto allo Spiegel che le studentesse devono essere velate, per poi ritrattare precipitosamente, si sarebbe trattato di un errore di traduzione: intendevano dire che sarebbe una discriminazione ingiusta se le donne con il velo non potessero entrare in facoltà soltanto perché indossano il velo).

    Dice al Foglio il Fratello musulmano: “Sono 83 anni che la Fratellanza aspetta questo momento. Ottant'anni di vicende e fasi alterne, di estremismo e moderazione, Nasser, Sadat e Mubarak, un po' di partecipazione alla vita politica e tanta repressione nelle prigioni. Prima delle elezioni farsa del 2010 avevamo 88 parlamentari, dopo nemmeno uno. E adesso che ci sono le prime elezioni libere, arrivano i salafiti, con partiti fondati soltanto dieci mesi fa”. Un battito di ciglia rispetto alla storia della Fratellanza. “E invece ci hanno soffiato quasi il 25 per cento del totale dei voti. E stanno mandando all'aria tutta la nostra strategia di comunicazione e la disciplina che ci siamo imposti per essere credibili come forza di governo: abbiamo messo nelle liste anche candidati copti, il vicepresidente del partito è un cristiano copto, ma ora tutti dicono: arriva il Parlamento dei salafiti. E ci trattano pure come se fossimo dei venduti, con una visione debole dell'islam, che mettono la politica prima della vera fede”. Fratelli musulmani e salafiti erano uniti in un unico cartello elettorale fino a due mesi fa: poi l'unione s'è rotta, forse per questi dissensi forse perché i salafiti hanno capito che a correre da soli ci avrebbero guadagnato.

    La marcia dei salafiti non piace alla Fratellanza. Mercoledì scorso il segretario del partito, Saad el Katatny, ha definito “un'invenzione dei media” la notizia che sarebbe pronta un'alleanza con il partito Nour per formare “un governo islamista”. “Voi media dovreste essere più attenti con le vostre parole perché spargete falsità”. Come primo commento dopo le elezioni è stato gelido. In alcuni casi i candidati dei Fratelli – scrive il New York Times – hanno rotto un silenzio di mesi proprio per cominciare a fare dichiarazioni contro i salafiti. Dina Zakaria, una portavoce del partito, li ha irrisi perché proibiscono alle donne di avere ruoli rilevanti e perché rifiutano di stampare i loro volti sui cartelloni elettorali. “Noi non abbiamo posizioni stagnanti”, dice Zakaria, insistendo che la Fratellanza favorisce una comprensione in evoluzione dell'islam che appoggia il diritto delle donne a scegliersi i propri ruoli – ai comizi, le donne (le Sorelle musulmane?) talvolta sottolineano il punto raccontando che anche Moametto arruolò donne per combattere.

    Il programma politico della Fratellanza musulmana è lungo 45 pagine ed è chiaro: adesione piena e senza ambiguità ai principi democratici della rappresentanza politica e del rinnovo periodico del potere con elezioni, piena dignità davanti alla legge di tutti gli egiziani, nessuna discriminazione per sesso, religione o razza, quindi non contro le donne o contro la minoranza cristiana. Due priorità: la sicurezza e l'economia. Nelle numerose interviste con i media stranieri, continuano ad assicurare che il programma è scritto su carta, è verificabile nel tempo ed è fatto per essere rispettato.

    I salafiti hanno annunciato anche loro che non vogliono formare un'alleanza di governo con i Fratelli musulmani e li criticano duramente, perché lasciano spazio a troppe libertà con l'idea che la legge islamica contenga soltanto dei meri principi a cui ispirarsi e non invece delle prescrizioni secche e obbligatorie. Da Alessandria lo sceicco Abdel Monem al Shahat dice: “Cittadinanza ristretta in base alla sharia, libertà ristretta dalla sharia, uguaglianza ristretta in base alla sharia. La sharia è obbligatoria, non soltanto i principi, come la libertà e la giustizia e tutto il resto”.
    Per questo, mentre la Fratellanza prosegue sulla sua linea di pragmatismo opaco – “il nostro primo pensiero è l'economia, non cambiare i costumi degli egiziani”, ha detto il leader – i salafiti invece stanno già scoprendo le carte senza ritegno. Venerdì il loro candidato presidenziale, Hazem Abou Ismail, è andato in televisione a spiegare il suo programma: separazione tra uomini e donne sul luogo di lavoro, chiusura di quei “parchi oscuri” e di quelle strade dove le coppie non sposate vanno “a baciarsi e abbracciarsi”, chiusura della banche perché il Corano proibisce i prestiti, qualsiasi tasso d'interesse è da considerarsi usurario.

    “Tra quattro anni sarete d'accordo con quello che ho fatto”, ha detto. Scrive un egiziano su Twitter: “Non preoccupiamoci per il turismo. Fra quattro anni il paese sarà un enorme museo a cielo aperto”. “I salafiti vogliono avere questo confronto adesso e i Fratelli musulmani non vogliono”, dice Shadi Hamid, ricercatore al Brookings Doha Center, che è un progetto in Qatar della Brookings Institution americana. “La Fratellanza non è interessata a parlare di sharia adesso perché ha altre priorità che sono molto più importanti. Ma i salafiti insisteranno a voler mettere la religione al centro del confronto e sarà molto difficile per i Fratelli sottrarsi”.
    Amr al Baddagh è uno dei candidati di punta della Fratellanza, 53 anni, entrato nell'organizzazione mentre era studente in America – “un paradosso no?” – anche lui ha come tutti il suo periodo passato in galera sotto Mubarak. La polo italiana, l'iPhone, le poltrone stile impero: parla con il Foglio nella sua casa ampia del Cairo, in mezzo a tutti i segni del benessere. “La prima differenza tra noi e i salafiti sta nella velocità con cui loro vogliono rendere la società compatibile con la legge islamica; loro vogliono tutto e subito, noi pensiamo che sarà un processo che prenderà naturalmente tutto il tempo che sarà necessario”. Quindi è soltanto una questione di tempi, entrambi avete in mente lo stesso islam politico? “No, è anche una questione di riferimenti. Noi abbiamo avuto il tempo di studiare l'islam, di confrontarci, di elaborare per decenni. Loro no. Loro prendono un pezzo del Corano e lo mettono al centro dell'interpretazione, senza vedere tutto il resto. In questo sono immaturi e primitivi, ma è un problema di interpretazione. Non è che noi abbiamo la verità e loro no, è che noi siamo più avanti nella comprensione della realtà e del ruolo dell'islam e della politica.

    Per esempio, il loro rifiuto della democrazia, l'idea che non si possa obbedire a un corpo eletto perché l'obbedienza è dovuta soltanto a Dio, è un'idea povera, restrittiva, estratta male dalla fede e dai testi religiosi: in verità non c'è niente di più islamico che il principio della consultazione collettiva, anzi, l'idea che ci sia il dominio di uno solo – come avveniva sotto il regime di Mubarak – è quanto di più lontano possa esserci dall'islam. L'idea stessa che la religione si possa imporre. La religione non si può imporre: per questo noi consideriamo le minacce ai cristiani, che fanno parte del tessuto sociale dell'Egitto, un'altra di quelle cose che non potrebbero essere più lontane dalla fede. Se io attaccassi un copto, sarei un cattivo musulmano. Nel 1928, quando nacquero i Fratelli musulmani, all'atto di fondazione parteciparono anche un centinaio di copti, su settemila presenti e oggi lo stesso vicepresidente del partito Libertà e Giustizia è un cristiano copto”. Compagni che sbagliano, i tempi e l'interpretazione. “E anche le priorità: in questo momento ci sono due cose che importano, la sicurezza e l'economia. Abbiamo decine di comitati che stanno elaborando riforme credibili, per cose come la lotta contro la corruzione, rimettere in moto la manifattura e l'industria, alzare il nostro livello di autosufficienza alimentare.

    Nessuno sta pensando a come introdurre il taglio delle mani ai ladri”. Al Baddagh prosegue, illustrando il parallelo con l'esperienza turca – “la chiamerei esperienza, non modello, perché ogni paese è diverso e quello che succede ad Ankara non è replicabile qui” – un paese musulmano povero, con inaccettabili ingerenze dei militari in politica, che in dieci anni è diventato florido senza possedere il petrolio e ha ridimensionato bruscamente il potere dei generali.

    Spiega che i paesi occidentali stanno già prendendo contatti con loro – l'ambasciatore britannico ha incontrato i Fratelli domenica, il dipartimento di stato lo ha fatto ufficialmente un paio di volte – e che il partito è consapevole che i rapporti con il mondo esterno sono fondamentali. E i rapporti con Hamas, se diverrete governo, quali saranno? “Hamas non è un movimento terrorista, ma un legittimo movimento di resitenza all'occupazione israeliana. L'Egitto oggi è un paese debole, per colpa di regimi dissennati che lo hanno guidato male. Ma se fosse un paese forte, aiuterebbe non soltanto Hamas ma tutti i palestinesi con la propria piena potenza”.

    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)