Arrivano gli americani

Stefano Cingolani

All'alba del nove dicembre 2011, vent'anni dopo il concepimento del trattato di Maastricht, l'Unione europea cambia in modo drastico. L'accordo raggiunto a Bruxelles non solo scava un fossato tra Berlino e Londra (per la terza volta in cent'anni), ma mette in moto una serie di riallineamenti strategici che saranno di grande importanza.

    All'alba del nove dicembre 2011, vent'anni dopo il concepimento del trattato di Maastricht, l'Unione europea cambia in modo drastico. L'accordo raggiunto a Bruxelles non solo scava un fossato tra Berlino e Londra (per la terza volta in cent'anni), ma mette in moto una serie di riallineamenti strategici che saranno di grande importanza.

    Di nuovo, come nel secolo scorso, tocca all'America varcare l'Atlantico per esorcizzare la fosca previsione di Martin Feldstein, l'economista di Harvard, ex consigliere di Ronald Reagan, il quale temeva che l'euro avrebbe scatenato una guerra in Europa, sia pur combattuta con altri mezzi, una guerra economica, sociale e alla fine anche politica.

    La rotta di David Cameron a Bruxelles ricorda a molti la ritirata di Alan Brooke a Dunkerque. “Il primo ministro non aveva scelta”, dicono ora a Westminster, “non poteva accettare l'arrogante diktat”. La Germania ha soggiogato di nuovo la Francia, anche se il sogno di unire Berlino e Parigi si realizza con la moneta anziché con i Panzer. Albione torna perfida e i galli cantano in coro inni al rinato asse renano. Solo un mese fa francesi e inglesi erano alleati, complici, fratelli, nella campagna di Libia. Adesso, il voltafaccia è repentino, en attendant un novello Philippe Pétain a Vichy. L'Italia legata ai tedeschi per necessità ancor più che per scelta, ha tentato una mediazione. E' Mario Monti questa volta, non Galeazzo Ciano, a predicare la non belligeranza. “Non c'è bisogno di nuovi trattati”, dichiara a Bruxelles nel tentativo di tenere ancora agganciato il governo britannico. Non servirà a molto. Roma sa bene che per sfuggire all'egemonia teutonica deve lasciarsi aperta la porta della City, ma soprattutto giocare sulla sponda americana. Perché Washington non può accettare l'isolamento britannico. Né può lasciar andare alla deriva un partner strategico come l'Italia, lungo trampolino di lancio nel mezzo del Mediterraneo.

    Spesso la storia ripete i propri schemi. Per spiegare il senso della Nato, l'Alleanza atlantica, gli strateghi inglesi nel 1949 confessavano che serviva per tenere dentro l'America, fuori la Russia e giù la Germania. Il Muro non c'è più, ma quella filosofia si ripropone su scala e in campi diversi. David Petraeus lo ha capito per tempo, almeno fin dalla primavera scorsa. Quando il capo della Cia ha cominciato ad esaminare i rapporti piovuti sulla sua scrivania, non ha esitato un momento a passare il corposo dossier al consigliere per la Sicurezza nazionale Thomas Donilon affinché ne parlasse con il presidente. Non c'era più tempo da perdere, il rischio concreto, scrivevano tutte le spie dalle capitali europee, era di perdersi l'Europa, con una reazione a catena scatenata dal crollo dell'euro che avrebbe travolto la stessa economia americana. Già Leon Panetta, il suo predecessore adesso a capo del Pentagono, aveva cercato di spiegare a un'Amministrazione tutta orientata verso il Pacifico, che, se la Cina sarebbe stata una seria preoccupazione nel medio termine, nell'immediato la più grande minaccia alla sicurezza nazionale veniva dal Mediterraneo e per questo l'America non poteva abbandonare l'Europa. Di origine italiana (il padre era nativo di Gerace in provincia di Reggio Calabria), cattolico, in quanto educato in California si può dire che ha il Pacifico nel cuore, ma la sua esperienza al Congresso e poi all'ufficio del Bilancio con Bill Clinton lo ha reso particolarmente sensibile ai problemi di geoeconomia ormai strettamente legati a quelli geopolitici.

    Petraeus ha aggiunto la sua personale esperienza in Afghanistan e in Iraq che lo porta a considerare una priorità assoluta il rivolgimento degli assetti in Nord Africa e medio oriente. Dunque, collasso dei vecchi equilibri, riarmo nucleare iraniano, instabilità economica e politica dell'Europa che, nella teoria della distribuzione del potere occidentale, maturata a partire da Henry Kissinger, resta il doppio baluardo contro la Russia e contro l'imperialismo islamico. Una miscela davvero micidiale. Barack Obama non può più distrarsi o far finta di niente.
    Con il generalissimo si schiera il segretario al Tesoro Tim Geithner. Fin dall'esplodere della crisi greca nella primavera del 2010, ha chiesto all'Unione europea e ai governi dell'Eurolandia di intervenire in modo coordinato, tempestivo e massiccio, insieme al Fondo monetario internazionale. Per mesi ha assistito a reazioni incerte, modeste nella quantità dei mezzi mobilitati e sbagliate nella qualità degli interventi a favore della Grecia (prestiti a breve termine ad alti tassi anziché prestiti a lungo termine con bassi interessi).

    Gli zig zag della Merkel, le sparate inconcludenti di Sarkozy, la paralisi della Bce in attesa del cambio al vertice, tutto ciò ha finito per peggiorare la situazione. Nella primavera scorsa, dunque, Geithner ha alzato di nuovo il livello d'allarme, finché in agosto, quando una folle ondata speculativa s'è abbattuta sulle banche europee partendo da un maledetto twitter secondo il quale la francese Société Générale era sull'orlo del collasso, ha fatto suonare l'allarme rosso. Cinque viaggi in Europa negli ultimi tre mesi danno il senso concreto di quanto il Tesoro sia allarmato. I suoi uomini hanno cominciato a mettere sotto osservazione diretta l'Italia tempestando di cablogrammi l'ambasciatore David Thorne che, per esperienza personale, conosce il paese meglio di tanti altri diplomatici e ha seguito con vigile attenzione la crisi del governo Berlusconi, in stretto contatto con Giorgio Napolitano. Prima del vertice di ieri e dell'altro ieri, Geithner si è mosso ancora: a Francoforte per parlare con Mario Draghi e con il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble, poi a Parigi a colloquio con Nicolas Sarkozy, a Milano giovedì per conoscere Mario Monti, infine a Bruxelles.

    La pressione della Cia e del Tesoro, ha messo in moto una frenetica ed energica diplomazia sulla quale si sofferma in particolare Mario Deaglio, docente di Economia internazionale a Torino. Obama non ha smesso di chiamare la Merkel e Sarkozy, l'ultima telefonata risale a mercoledì scorso. Il vicepresidente Joe Biden è sbarcato lunedì ad Atene per incontra Lucas Papademos l'ex governatore della Banca centrale diventato primo ministro. Hillary Clinton è volata a Bruxelles e ha ripetuto la fiducia nell'Europa, “ma per sapere dove andare abbiamo prima bisogno di un piano dietro il quale si possa stare”, ha ammonito.

    E' questo il tasto sul quale la Casa Bianca non smette di battere: un programma onnicomprensivo che affronti una volta per tutte la crisi dei debiti sovrani, al di là di quel che possono e debbono fare i singoli governi. Politiche di rigore paese per paese non rassicurano i mercati. Essi vogliono un intervento massiccio, coordinato e illimitato a sostegno dei titoli dei paesi in difficoltà, qualcosa che metta con le spalle al muro la speculazione e che dia garanzie a chi presta il denaro accettando tassi di interesse sostenibili (sotto il cinque per cento).

    La forza degli eventi, la sensibilità di figure importanti dell'Amministrazione e la necessità di un riequilibrio strategico rispetto al ciclo orientale, il China First che resta pur sempre la dottrina dominante, tutto ciò spinge Washington a ragionare sulla necessità di sbarcare in forze nel Vecchio continente. Proprio Panetta, vecchio elefante della politica (mosse i primi passi addirittura con Richard Nixon, quando tra i consiglieri del presidente c'erano niente meno che il gatto e la volpe, cioè Donald Rumsfeld e Dick Cheney) ricorda il monito lanciato da Feldstein, economista perennemente candidato al Nobel che finora non lo ha vinto perché gli svedesi gli hanno fatto pagare gli anni trascorsi a consigliare Ronald Reagan. Era il 1997 e il suo articolo su Foreign Affairs avviò un'animata discussione. Monetaristi e keynesiani una volta tanto si trovavano d'accordo: una moneta senza sovrano era un azzardo, anzi una follia. Prevalse una preoccupazione politica: era ancora fresco il sangue versato in Bosnia, la prima guerra interna all'Europa dal Secondo conflitto mondiale, mentre dall'est all'ovest spirava un vento di decomposizione dei vecchi stati nazionali. L'Amministrazione Clinton, che di lì a poco interverrà massicciamente in Kosovo, scelse il benign neglect verso l'unione monetaria a patto di allargare a tappe forzate l'unione politica verso est, fino ai confini con la Russia. Uno scambio chiaro e alla luce del sole del quale discussero non solo tutti i think tank di Washington, ma anche i vertici della Nato. Il dibattito sull'euro in questi anni di crisi finanziaria si è fatto sempre più economicistico. Invece, andrebbe riportato alla sua radice politica senza la quale non si capisce il massiccio lavorio americano.

    Per molti anni quella di Feldstein sembrava una cassandrata, e lo stesso economista aveva ammorbidito le sue posizioni. Oggi, però, il vaticinio si fa verosimile. I conflitti sociali interni ai singoli paesi, il collasso dei governi nazionali, la divisione nella Ue, lo scacco dell'asse franco-tedesco, l'ondata anti germanica che cresce nell'Europa meridionale, la frattura con la Gran Bretagna e i paesi fuori dall'euro, dai nordici alla Polonia, tutto ciò sta cambiando rapidamente la geografia economica e politica continentale.

    Ecco perché gli Stati Uniti non possono più restare sull'altra sponda. Anche le sorti di Obama, sottolinea il New York Times, sono legate alla crisi europea. Paradossalmente, proprio la Merkel e Sarkozy che nel 2008 salutarono la sua elezione e lo accolsero come un eroe alla porta di Brandeburgo e all'Eliseo, giocano un ruolo determinante per la rielezione. Un collasso dell'euro provocherebbe una crisi bancaria mondiale e una recessione questa volta davvero globale a differenza dal 2009, quando andò sotto zero solo il prodotto lordo dei paesi occidentali. “L'Europa ha bisogno di trovare una strada per tornare alla crescita – sostiene Michael Froman, viceconsigliere per la Sicurezza nazionale – Ma nell'immediato la cosa migliore che gli europei possono fare per evitare una ripresa globale, è gestire con successo questa crisi”. La ricetta americana è molto drastica e molto semplice: fornire in tutti i modi più liquidità possibile a paesi come Italia, Spagna, Grecia e Portogallo. Ma anche i repubblicani sono preoccupati.

    David Smick, consulente finanziario del Gop, a una cena a Washington due settimane fa ha avvicinato Karl Rove, lo stratega repubblicano, e gli ha detto che la crisi europea potrebbe rendere necessario un altro piano di salvataggio pubblico simile a quello del 2008-2009. “Che ne pensi se ti dico che, visto quel che accade in Europa, chiunque sarà presidente nel 2013 rischia di non vedere il proprio partito al potere per i prossimi trent'anni?”. Rove, non ha fatto una piega e non ha risposto, racconta un testimone al New York Times. Dunque, a questo punto, il primo obiettivo è salvare l'euro. Al contrario di quel che pensano conservatori cattolici e post trotzkisti secondo i quali l'interesse americano per salvare il dollaro è distruggere la moneta europea. Una tesi che non sta in piedi, perché finora l'euro non è riuscito a diventare una moneta mondiale, la sua penetrazione in Asia è modesta (l'oriente resta un'area ampiamente dollarizzata), quindi non rappresenta una minaccia. Il fatto che valga ancora un terzo più del biglietto verde è frutto di una politica monetaria che alla lunga si è rivelata sbagliata per i paesi europei che esportano merci nel resto del mondo, ma che ha favorito proprio il dollaro il quale ha bisogno di restare relativamente debole e aiutare così il riequilibrio della bilancia estera americana.

    Il secondo obiettivo è trasformare il modello euro-marco dominante in questi dieci anni in un modello euro-dollaro. Cioè una valuta governata per garantire stabilità dei prezzi e crescita sostenibile, come recitano gli obiettivi del Federal Reserve System. E gestita in modo coordinato tra Ue e Usa. L'intervento della Fed mercoledì 30 novembre, insieme alle grandi Banche centrali fuori dalla zona euro, è stato un segnale importante. Una boccata d'ossigeno e soprattutto di dollari. Mettendo in moto il canale dei currency swap, cioè lo scambio di prestiti in valute diverse, ha fornito biglietti verdi alle banche europee rimaste a secco. La Banca centrale americana è disposta a offrire tutto il suo aiuto, triangolando con la Bce e il Fmi che entra in gioco apertamente, proprio come volevano gli americani.

    Lawrence Summers, l'economista di Harvard che come segretario al Tesoro di Bill Clinton aveva dato il via libera all'euro, in un articolo sul Financial Times ha ribadito che solo un intervento su larga scala del Fmi può davvero rassicurare i mercati. Questo coinvolgimento deve riguardare in primo luogo la stessa Italia il più grande e importante dei paesi in difficoltà. Il vantaggio è che il Fmi ha le capacità tecniche e i mezzi finanziari che nessun paese europeo ha e che mancano anche alla Bce. Non solo, ma nel modulare il suo intervento, renderebbe evidente il legame che vincola tutti all'interno di una moneta comune. La dotazione prevista per il Fondo sono 200 miliardi che verranno forniti entro dieci giorni. Non molto, ma quel che conta è affiancare Christine Lagarde a Mario Draghi.

    Gli americani spingono perché l'intera Unione monetaria europea venga ripensata secondo criteri diversi. Possono solo esercitare una moral suasion, tuttavia è ormai evidente che la coppia franco-tedesca sta dividendo e indebolendo l'Europa sul piano politico ed economico. “Ora ci sono due crisi – commenta Wolfgang Münchau vicedirettore del Financial Times – Quella interna all'Unione monetaria, tutt'altro che conclusa e quella all'interno della Ue, destinata ad aggravarsi. Perché mai la Gran Bretagna deve restare in un club che la condanna all'isolamento?”. Una eventualità che l'America cercherà di scongiurare. Nel suo interesse innanzitutto, che in questo caso coincide con l'interesse collettivo. Per salvare l'euro si spacca l'Europa? Una follia.
    Cameron non è Churchill, però nel momento in cui non è in grado di far pesare il proprio parere e incidere sulle scelte comuni, non ha più alcuna ragione di sottoporsi a vincoli imposti dall'esterno. “Repatriate, repatriate”, gridano a Westminster non solo i tory, ma anche i laburisti di Ed Miliband, “riprendiamoci pezzo a pezzo la sovranità perduta”. Certo, per la Gran Bretagna il mercato comune senza dazi e gabelle è ancora un vantaggio. Ma se venissero imposte pesanti tasse sulle transazioni finanziarie, la City ne verrebbe danneggiata irrimediabilmente. Di fronte al neoprotezionismo monetario tanto in voga sulle rive del Reno, anche quel vantaggio verrebbe a cadere.

    Sul piano economico, il Vecchio continente ha davanti a sé due anni di sviluppo zero o con il segno meno; non è una grande prospettiva, mentre gli Usa crescono, magari ancora debolmente. Su quello politico la Ue si è dimostrata divisa e velleitaria nell'affrontare i sommovimenti in Nord Africa e medio oriente. Figuriamoci quel che accadrebbe se si dovesse gestire una crisi su vasta scala. Insomma, l'Europa lasciata a se stessa va alla deriva e tocca all'America salvarla. Anche questa volta non basta fornire dollari e armi, zio Sam deve agire in prima persona come nel 1917 o nel 1942. I nuovi marine saranno uomini d'affari o consiglieri strategici. Ma vuoi vedere che al generale Petraeus toccherà mettersi sulle orme del generale Marshall?