Borghesi contro Parlamento
A leggere la composizione del governo tecnico in carica, e tenendo conto delle spinte mediatiche che hanno premuto per ottenere le dimissioni di quello precedente, si potrebbe dire, con un po' di enfasi, che la borghesia milanese ha preso il potere. In ogni caso, è difficile scartare l'idea che sia stata proprio l'ostilità di certi ambienti accademici, finanziari e giudiziari ambrosiani, se non a determinare, almeno a condizionare l'esito di una situazione politica in equilibrio precario.
A leggere la composizione del governo tecnico in carica, e tenendo conto delle spinte mediatiche che hanno premuto per ottenere le dimissioni di quello precedente, si potrebbe dire, con un po' di enfasi, che la borghesia milanese ha preso il potere. In ogni caso, è difficile scartare l'idea che sia stata proprio l'ostilità di certi ambienti accademici, finanziari e giudiziari ambrosiani, se non a determinare, almeno a condizionare l'esito di una situazione politica in equilibrio precario.
Il ruolo di questo ceto urbano è stato ed è particolarmente rilevante nella vicenda storica italiana, ed è stato prevalentemente improntato a una funzione costruttiva, a una sorta di mediazione tra le varie anime della borghesia, all'interno della quale quella milanese ha spesso espresso la tendenza all'equilibrio. Non è però sempre stato così. In alcune situazioni, particolarmente cruciali nella storia nazionale, la borghesia milanese ha voluto “fare da sé”, si è separata polemicamente dalle tendenze moderate prevalenti promuovendo rotture traumatiche.
Il caso più rilevante, prima di quello attuale, fu l'opposizione serrata alla politica moderata di Giovanni Giolitti, a inizio Novecento, che ebbe nel direttore e proprietario del Corriere della Sera Luigi Albertini il suo antagonista più pericoloso ed efficace. E' facile storcere il naso di fronte a un ardito e quasi paradossale paragone tra il campione dello stile politico burocratico e antiretorico, come fu Giolitti, e l'effervescente imprenditore di Arcore. Eppure, se si fa astrazione da schemi interpretativi abusati, si può esaminare qualche dato di sorprendente convergenza tra i due casi.
Giovanni Giolitti è stato il primo leader politico rilevante ad aver assunto funzioni pubbliche di primo piano senza poter vantare un'ascendenza risorgimentale. Tutti i suoi predecessori avevano partecipato, o nelle file della monarchia sabauda o in quelle del volontariato garibaldino, alle battaglie militari o alle vicende politiche che avevano portato all'unità nazionale. Giolitti, invece, era stato esentato dal servizio militare per ragioni di famiglia e quindi non poteva vantare un pedigree patriottico, tantomeno del tipo eroico di un Cairoli o di un Crispi. Berlusconi, per parte sua, è stato il primo presidente del Consiglio la cui formazione politica, nata con la sua decisione di scendere in campo a partire da un'esperienza imprenditoriale, era estranea al cosiddetto arco costituzionale, costituito dalle formazioni politiche che avevano partecipato alla Resistenza antifascista, che si consideravano detentrici di una sorta di monopolio della rappresentanza. Quando Berlusconi, ancora prima di fondare Forza Italia, prese la sua prima posizione pubblica su temi politici, lo fece per sostenere la candidatura di Gianfranco Fini, ancora presidente del Movimento sociale italiano, al Campidoglio, e questo suscitò diffidenza non solo negli ambienti dell'antifascismo militante, ma anche nella borghesia milanese che si considerava anch'essa custode di quei principi, diventati concretamente la base di una prassi consociativa che sembrava utile a tutti.
Anche Giolitti sembrava alla borghesia milanese, che celebrava da cinquant'anni le sue gloriose Cinque giornate, un parvenu estraneo alla retorica nazionale allora imperante. In particolare l'élite risorgimentale si preoccupava della difesa del nuovo stato dalle insidie della “reazione” cattolica, animata dall'intransigenza vaticana sulla questione romana dopo la breccia di Porta Pia. Non è un caso se l'atteggiamento critico di Luigi Albertini nei confronti del troppo prosaico metodo di governo giolittiano, si trasformò in aperta ostilità nel corso della campagna elettorale del 1913, quando sul Corriere della Sera si condusse una polemica asperrima contro quello che veniva definito “ibrido connubio fra malavita e sacrestia”. La malavita era rappresentata dallo stesso Giolitti, che era stato definito senza troppi complimenti “il ministro della malavita” nel titolo di un fortunato pamphlet di Gaetano Salvemini, la “sacrestia” gli elettori cattolici che, in virtù del cosiddetto “patto Gentiloni” avevano appoggiato i candidati ministeriali quando erano in competizione con candidati dell'estrema, come allora veniva definita l'alleanza tra radicali, repubblicani e socialisti.
Giolitti vinse ancora una volta la competizione elettorale, ma sul Corriere della Sera invece di riconoscere il verdetto si cominciò a parlare di “dittatura parlamentare”. L'antiparlamentarismo è una caratteristica tradizionale della mentalità milanese, in cui convergono impulsi di origine ideologica e culturale distanti e persino contrapposte. La denuncia del “cretinismo parlamentare” della sinistra estrema, che la brandiva contro i “cedimenti” di Filippo Turati, accusato non senza ragioni di filogiolittismo, si confondeva con la contrapposizione tra “paese reale e paese legale” popolarizzata dal “reazionario clericale” don Davide Albertario. A differenza della borghesia torinese, che restava legata alle istituzioni della monarchia parlamentare, quella milanese si è spesso considerata oppressa dai riti parlamentari, e ha trovato nell'ostilità a Giolitti ieri (e a Berlusconi oggi) il collante di queste strane convergenze. Le campagne di questi mesi contro “la casta” e i suoi privilegi sembrano persino contenute e rispettose se confrontate con quelle che si svilupparono, sempre sulle colonne del quotidiano di via Solferino, nei primi decenni del secolo scorso.
L'antiparlamentarismo è un aspetto particolare dello scetticismo snobistico nei confronti della sovranità popolare. L'interpretazione faziosa del consenso popolare raccolto da Berlusconi come effetto di una prevalenza televisiva è talmente noto per commentarlo. Meno nota è la campagna che fu condotta un secolo prima, sempre dagli stessi ambienti, contro la decisione di Giolitti di allargare il suffragio a tutta la popolazione maschile, che ebbe la sua prima applicazione appunto nelle elezioni del 1913. Dare il voto agli analfabeti, com'era la maggior parte degli abitanti delle campagne, era considerato dalle élite postrisorgimentali un cedimento inaccettabile alla demagogia. In realtà quella che si temeva soprattutto era l'influenza dei parroci sull'elettorato rurale, che entrava per la prima volta nella competizione politica e sembrava destinata a mettere in crisi in modo irreversibile un sistema di governo che reggeva su una base sociale ristretta. Giolitti era un conservatore, il più moderato dei moderati, ma era convinto che se non si allargavano le basi sociali dello stato, dando cittadinanza politica ai settori popolari, lo stato stesso non avrebbe potuto reggere. Anche il “patto Gentiloni”, che per la verità Giolitti ha sempre negato di aver sottoscritto o autorizzato, era un artificio utilizzato per rendere meno traumatico l'ingresso delle masse rurali (e cattoliche) nella vita pubblica, così come la neutralità nei conflitti di lavoro, che gli era stata più volte rimproverata dal Corriere della Sera, era lo strumento per cercare di rendere meno traumatica la presenza di un movimento operaio organizzato.
Il blocco storico, per usare un'espressione gramsciana, che Giolitti voleva interpretare (con successo per una prima fase e con contraddizioni laceranti nell'ultima) comprendeva strati sociali, soprattutto gli artigiani e i lavoratori manuali professionali della città e i coltivatori diretti della campagna, che la borghesia milanese considerava inevitabilmente soggetti all'influenza “eversiva” dei rossi e dei neri, come venivano definiti allora i cattolici intransigenti. Anche qui si può trovare qualche assonanza con la situazione attuale, col “blocco” berlusconiano in cui agli artigiani e ai commercianti si può aggiungere il cosiddetto “popolo delle partite Iva”. Si tratta di un ceto medio-basso la cui integrazione in un sistema di consenso viene vista con diffidenza da settori della grande borghesia, i cui organi di stampa non trascurano di accusarli metodicamente di infedeltà fiscale. D'altra parte un fenomeno di rigetto simile si era verificato nei confronti del “blocco” craxiano, aperto a settori di imprenditoria dell'immagine sprezzantemente definita la “Milano da bere”.
La borghesia milanese è soprattutto diffidente nei confronti delle presenze sociali che non si possono inquadrare in schemi mentali o in strutture organizzative stabili, tende a reiterare modelli statici di relazioni sociali e fatica a gestire fenomeni innovativi o anomici. Visse con sconcerto, negli anni Ottanta, la nascita dei fondi di investimento, delle radio e delle televisioni private, delle agenzie di intermediazione della mano d'opera, che nascevano in assenza di regolamentazione e ai limiti al di fuori delle regolamentazioni. Egualmente all'inizio del secolo scorso visse con allarme la nascita di movimenti sociali e culturali autonomi del movimento dei lavoratori, che usciva dallo schema post mazziniano delle società umanitarie e di mutuo soccorso. Queste preoccupazioni per la creazione di blocchi interclassisti innovativi come quelli giolittiano, craxiano e berlusconiano, paradossalmente, si saldano talora proprio con espressioni anti istituzionali, come l'antiparlamentarismo.
Il caso più classico è stato il colpo di mano antiparlamentare delle “radiose giornate di maggio” del 1915 che favorirono l'entrata dell'Italia nella Prima guerra mondiale alla quale la maggioranza giolittiana della Camera era contraria. Il Corriere di Albertini pubblicò, nello stesso giorno in cui veniva pronunciato, l'incendiario discorso di Gabriele D'Annunzio a Quarto, in cui il neutralista Giolitti veniva chiamato “il mestatore di Dronero”, reo di voler tarpare le ali alla gioventù italiana, assetata di gloria. Eguale risalto fu dato al comizio dannunziano di Roma del 12 maggio 1915 in cui si incitava la folla a linciare “quel vecchio boia ladrone, le cui calcagna di fuggiasco sanno le vie di Berlino”, concludendo con un appello aperto alla violenza squadrista: “I più maneschi di voi saranno della città e della salute pubblica benemeritissimi”. In quelle stesse ore nella casa romana di Giolitti, circondata dai cavalli di Frisia della polizia per evitare assalti degli interventisti, venivano recapitati i biglietti da visita di 300 deputati, la maggioranza parlamentare che confermava il suo orientamento neutralista.
L'antigiolittismo aveva vinto con la piazza e con il sostegno mediatico della borghesia milanese contro la democrazia parlamentare, che non si sarebbe riavuta dalla disfatta, fino al 1946. Il colpo di mano degli interventisti fu “corretto” dal punto di vista istituzionale. Antonio Salandra, capo del governo in quel momento, dopo un colloquio con Giolitti, prese atto della maggioranza parlamentare contraria alla scelta dell'intervento e presentò a Vittorio Emanuele III le dimissioni del gabinetto. Il re respinse le dimissioni, rinviò Calandra alla Camera, assumendosi così personalmente la responsabilità del patto segreto firmato a Londra per l'entrata in guerra dell'Italia. Giolitti, per senso di responsabilità e per evitare una crisi della monarchia, rinunciò a opporsi e così il governo ottenne una specie di fiducia coatta.
Albertini applaudì, lieto di aver saldato un fronte interventista nel quale i nazionalisti di Filippo Corridoni convergevano con i democratici di Salvemini e i socialisti dissidenti di Benito Mussolini.
La borghesia milanese aveva voluto fare da sé, separarsi dal blocco moderato maggioritario nell'elettorato e in Parlamento e aveva vinto, ma la vittoria fu pagata a caro prezzo.
La guerra, tanto tenacemente perseguita, mise in moto una dinamica sociale e politica nuova, caratterizzata dalla violenza, che nel Dopoguerra si scatenò prima nel cosiddetto Biennio rosso, poi nella reazione squadristica del movimento fascista, che in quella fase il liberale e liberista Albertini appoggiò. Non aveva tollerato l'apertura cauta di Giolitti ai ceti emergenti e ai settori di massa della popolazione, assistette sgomento alla battaglia campale che si scatenò tra loro, nell'impotenza paralizzata di uno stato la cui autorità era stata minata in modo irreversibile dal colpo di mano del 1915, costruito sulla demonizzazione etica ed estetica di Giolitti e del giolittismo. Dopo l'assassinio di Giacomo Matteotti, Albertini si dissociò dal fascismo, che ormai, però, poteva fare a meno di lui e della borghesia milanese e fu costretto dal tribunale a cedere le quote di proprietà del suo giornale e ad abbandonarne la direzione.
Fortunatamente, la situazione attuale non presenta rischi né di guerra né di dittatura, e la sospensione dell'alternanza democratica è destinata a concludersi in tempi abbastanza veloci. E' più difficile prevedere quale sarà l'esito della tendenza antiparlamentare che si sta diffondendo e che mette in luce una debolezza strutturale del sistema istituzionale. Debolezza della quale, in questa occasione, la borghesia milanese ha approfittato. Ma questa stessa borghesia, se intende confermare un suo ruolo dirigente, prima o poi dovrà collaborare a riformare il sistema istituzionale: se vuole evitare pericoli, non solo economici, che finirebbero col travolgere anche lei.
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