Affondati dalle manovre
Piangeva Antonio Scialoja, ministro delle Finanze del governo La Marmora, nell'annunciare alle Camere, il primo maggio 1866, che la convertibilità della lira in oro e argento veniva sospesa per introdurre un corso forzoso di tutti i biglietti. Nemmeno quel brillante professore napoletano forgiato alla temperie risorgimentale seppe trattenere le lacrime; al pari, un secolo e mezzo dopo, di Elsa Fornero, adusa a ben altre battaglie, ben più accademiche.
Piangeva Antonio Scialoja, ministro delle Finanze del governo La Marmora, nell'annunciare alle Camere, il primo maggio 1866, che la convertibilità della lira in oro e argento veniva sospesa per introdurre un corso forzoso di tutti i biglietti. Nemmeno quel brillante professore napoletano forgiato alla temperie risorgimentale seppe trattenere le lacrime; al pari, un secolo e mezzo dopo, di Elsa Fornero, adusa a ben altre battaglie, ben più accademiche. Con Scialoja piangeva l'Italia intera: nel 1865 l'erario aveva dovuto spedire all'estero 85 milioni di lire per pagare gli interessi e il capitale investito dagli stranieri ammontava a un miliardo e 170 milioni. Il paese era in default, non restava che alzare il ponte levatoio e stampare moneta. Due anni dopo, il generale Luigi Menabrea impose pure la tassa sul macinato. La storia si ripete?
Riccardo Paternò, docente all'Università Federico II di Napoli, calcola che dal 2000 al 2010, il decennio dell'euro, la crescita cumulata del pil è stata di circa l'8,5 per cento in Germania, l'11,9 in Francia, il 23,3 in Spagna, il 15,9 in Gran Bretagna e il 17,9 negli Stati Uniti. In Italia del 2,6 per cento. Nello stesso periodo, diciannove sono state le manovre di consolidamento fiscale effettuate in Italia, e circa 550 i miliardi di euro di aggiustamento. Dal 1992 al 2007, e dunque dalla famosa manovra Amato di circa 45 milioni di euro, all'anno che precede la crisi, l'Italia ha perso circa 16 punti di prodotto lordo rispetto alla media dell'Europa a 15, e 34 rispetto agli Usa. Ma non per questo ha ridotto l'indebitamento pubblico, rimasto tra il 110 e il 120 per cento del pil. Meno crescita, stesso fardello. “E' evidente – conclude il professore – che il mix degli ultimi vent'anni, fatto di tagli un po' casuali, incrementi della pressione fiscale e mancate riforme strutturali, è lo specchio di una politica fiscale sostanzialmente disastrosa”.
Ogni ministro ha portato con sé le proprie idee, ma anche stilemi, comportamenti, simboli. E parole pesanti come pietre. Senza mai arrivare alla meta, cioè ridurre il debito e rilanciare lo sviluppo. L'euro, moneta troppo forte e rigida, l'impossibilità di scappatoie come la svalutazione, e poi la grande crisi del 2008, hanno reso tutto più difficile. L'unica certezza è che ogni manovratore è stato prima o poi travolto dalle sue stesse manovre.
Correva l'estate 2001, c'era ancora la lira sia pur per pochi mesi e l'11 settembre era solo una ipotesi nelle carte della Cia. Silvio Berlusconi il 13 maggio aveva stravinto le elezioni politiche firmando, davanti a Bruno Vespa, un contratto con gli italiani: meno tasse per tutti. Al comando dell'economia, Giulio Tremonti. Quando ai primi di luglio il ministro legge i titoli dei quotidiani, sobbalza perché, a suo dire, non descrivono correttamente la pesante situazione dei conti pubblici. Il ministro chiama una troupe del Tg1 nel suo studio poi, con lavagna e pennarello, annuncia agli italiani un buco di 25.500 miliardi di lire, una vera voragine lasciata “dalla premiata coppia Amato-Visco”. Scoppia la solita querelle sulla forma: perché prima in tv e poi in Parlamento, dicono gli onorevoli, mentre protesta anche “la triplice” (Cgil, Cisl e Uil non erano divise). Giuliano Amato e Vincenzo Visco scrivono sui giornali, citando la Banca d'Italia, che l'ammanco ammonta in realtà a 5.500 miliardi. In ottobre, i conti pubblici migliorano, le entrate superano le uscite (interessi compresi). Intanto, l'attacco di al Qaida alle Torri gemelle sconvolge l'economia mondiale. E di ridurre le imposte non si parla più. Anzi, se ne continua a parlare ancora, ma resta un flatus voci.
Tremonti si dimette stretto tra Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini che reclamano “collegialità” nella gestione della politica economica. In più, è in disaccordo aperto con la Banca d'Italia guidata da Antonio Fazio. Dopo un interim berlusconiano, il 16 luglio 2004 arriva Domenico Siniscalco. Il 27 luglio, Francesco Giavazzi scrive sul Corriere della Sera che il professore torinese ha presentato “la Finanziaria più dura dal '93. Siniscalco dopo Amato”. E argomenta: “Dei 24 miliardi di interventi previsti dal Dpef, una metà (le dismissioni immobiliari e il possibile trasferimento all'Inps di una quota del trattamento di fine rapporto) non ha effetti permanenti sul bilancio; il resto si dividerebbe tra pensioni di invalidità (risparmi per circa 3 miliardi) e 5-7 miliardi di inasprimenti fiscali, dalle partite Iva alle tasse su benzina e sigarette. Non solo non c'è spazio per la riforma fiscale, ma per riequilibrare i conti non si può non agire anche sulle entrate”.
Il professore bocconiano si pone la domanda che ha sempre rappresentato il refrain di ogni governo: “Come coniugare crescita e rigore?”. E offre la sua risposta: “La scarsa concorrenza nei servizi è alla radice del differenziale di inflazione tra Italia ed Europa, e si traduce in un maggior costo per le imprese almeno pari all'onere dell'imposta sulla produzione (Irap). Se non si apre il mercato bancario alla concorrenza internazionale, se non si eliminano gli albi professionali, se non si liberalizzano le licenze, il rigore finanziario forse riuscirà a controllare i conti, ma non a far ripartire l'economia. Da alcuni anni i Dpef contengono più capitoli sulle liberalizzazioni di un manuale di antitrust: il problema è che sono auspici privi di mordente. La sfida di Siniscalco è tradurli in norme del disegno di legge collegato alla Finanziaria, cioè renderli parte integrante della manovra di aggiustamento dei conti pubblici. Questo, io penso, sarebbe stata la maggior novità di un Dpef scritto da Monti”. Ironia della politica, con Mario Monti a capo del governo vengono rinviate proprio le privatizzazioni.
Ma Siniscalco dura minga! Il 22 settembre 2005 si dimette e non firma la Finanziaria. Se ne va perché vorrebbe la testa di Fazio, dopo l'esito della guerra per banche; ma il governo è diviso. E tuttavia, il vero casus belli è sempre lo stesso. Il ministro propone di contenere al due per cento annuo l'aumento (sic!) delle spese ministeriali. Apriti cielo. Il presidente della Camera Casini protesta per primo, con una lettera formale. La Lega, poi, lancia all'attacco il solito Roberto Calderoli. Altro che “fuoco amico”. Sono in ballo anche capitoli strutturali come le pensioni. “Non esiste”, taglia corto Maroni, ministro del Welfare. “Non possiamo fare gli interessi dei ragionieri”, dicono i leghisti. Al Tesoro torna Tremonti. Ma siamo già in campagna elettorale e gli tocca solo un po' di manutenzione. Nonostante l'avanzo primario (cioè al netto degli interessi) si sia ridotto, il debito pubblico sul prodotto lordo scende al 104 per cento.
La risicata vittoria di Romano Prodi nel 2006, alla guida della coalizione più spostata a sinistra nella storia della Repubblica (quindi destinata a vita breve) porta al Tesoro un tecnico, economista di vaglia e caratura internazionale oltre che europeista d'antan: Tommaso Padoa-Schioppa. Accanto a lui torna Visco. I due non vanno proprio d'amore e d'accordo. Il conflitto latente emerge quando spunta un nuovo tesoretto. Si tratta di 7-8 miliardi di euro, dei quali, però, non è certa la paternità. Potrebbe essere un semplice artificio contabile. Più probabile che si tratti ancora della lunga scia del gettito fiscale. Ai 4 miliardi maturati ad agosto, se ne aggiungono altri 3-4 tra tasse e contributi. Non solo. La cifra dovrebbe garantire una Finanziaria indolore, ma soprattutto, per il centrosinistra, un certo appeal elettorale.
Visco, che aveva sempre fatto il lavoro sporco dell'inasprimento fiscale, è il più deciso a concedere alleggerimenti d'imposta: Ici, agevolazioni per le aziende, bonus per le famiglie numerose che sostituirebbe gli assegni famigliari. Il viceministro si scontra con TPS come lo chiamano in Francia, cauto nell'utilizzo di queste nuove risorse: per prima cosa perché non è convinto che si tratti di entrate strutturali, cioè permanenti. E poi perché teme l'assalto alla diligenza da parte dei suoi colleghi. Infine, vede avvicinarsi le nubi nere di una recessione mondiale, in arrivo dagli Usa. Insomma, Padoa-Schioppa preferirebbe destinare almeno metà del tesoretto a ridurre il debito in attesa che il quadro si chiarisca. Visco, che è un tecnico ma soprattutto un uomo di partito, avverte l'urgenza di riconquistare un po' di consensi. Si giungerà al voto prima del previsto, nel 2008, e sarà un tracollo per il centrosinistra.
E' l'eredità che TPS lascia al successore. Racconta egli stesso: “Dopo una visita al collega Gordon Brown nel luglio 2006, fu avviata una collaborazione per acquisire all'Italia il metodo della spending review sperimentato con successo in Gran Bretagna. Seguì una missione a Roma del Fondo monetario internazionale. La legge finanziaria per il 2007 istituì la commissione tecnica per la Finanza Pubblica. Grazie a questa, per la prima volta è stato documentato come sia possibile ottenere simultaneamente economie di spesa e miglioramenti del servizio pubblico in materia di scuola, sicurezza, ricerca, giustizia, organizzazione periferica dello stato centrale, e via dicendo. Al ministro succeduto nel maggio 2008 sono state consegnate le basi tecniche e conoscitive per un'azione fondata sul principio dell'allineamento progressivo alle realtà migliori nella riqualificazione della spesa pubblica”.
Tremonti prende il testimone e s'impegna a metter mano alla spesa con il fervore di un Quintino Sella. Intanto, scoppia la grande crisi finanziaria che richiede interventi immediati “senza macelleria sociale” come ripete polemicamente il ministro dell'Economia. Per istruire le pratiche settore per settore, ci vogliono anni. Dunque, la falce passa su tutti grosso modo alla stessa altezza. E per la prima volta nel 2010 la spesa corrente comincia a ridursi. Breve illusione. L'accumulo del malessere contro Tremonti cresce e il ministro si chiude nel fortilizio di Via XX Settembre che sembra una caserma con piazza d'armi inclusa. Guido Crosetto, sottosegretario alla Difesa ed ex coordinatore di Forza Italia per il Piemonte, spara a pallettoni sulla Stampa: non si può andare avanti sempre a forza di “tagli lineari alla spesa, quando il problema invece è eliminare le cose che producono spesa”. E aggiunge una sentenza che diventerà uno slogan: “Tremonti ha tenuto in vita il paese, ma mettendolo in coma farmacologico, senza capire che l'economia reale andava aiutata”. E' il giugno scorso e tutto già vacilla.
Sullo stesso quotidiano torinese, tocca a Luca Ricolfi, fustigatore di sprechi e compulsatore di conti, spezzare una lancia a favore di Tremonti: “E' ingenuo, per non dire demagogico, suggerire l'idea che oggi la politica abbia di fronte a sé due vere alternative: tagli lineari e tagli selettivi. L'opzione non esiste – scrive – Immaginiamo che, per miracolo, i dossier siano già sul tavolo del governo. Che il governo sappia con precisione dove colpire. C'è la lista degli enti inutili da sopprimere e quella degli enti da rafforzare. C'è la lista dei ministeri da far dimagrire, e quella dei ministeri da rifinanziare. C'è la lista degli atenei da chiudere e quella degli atenei da potenziare. C'è la lista dei tribunali da accorpare. C'è la lista degli ospedali inefficienti e pericolosi da chiudere. C'è la lista delle agevolazioni ed esenzioni da sopprimere. Ci sono stime accurate dei tassi di spreco di ogni regione, provincia, comune, e un piano decennale che prevede progressive riduzioni dei trasferimenti per gli enti che dissipano denaro pubblico, ma anche progressivi aumenti delle dotazioni per gli enti virtuosi.
Che cosa credete che succederebbe? Ogni categoria, ente, territorio colpito mobiliterebbe sindacati, associazioni di categoria, tribunali, televisioni, quotidiani per salvare se stesso, naturalmente invocando l'assoluta indispensabilità delle funzioni che esso svolge, naturalmente nell'esclusivo interesse della comunità”. E' sucesso e sta succedendo proprio così con il governo dei tecnici nel quale siede un esperto tosatore come Piero Giarda, tra coloro i quali meglio conoscono i misteri della spesa corrente, già al governo con Prodi e al quale lo stesso Tremonti aveva affidato la guida di una corposa e dotta commissione.
In realtà, Ricolfi ha torto: tra tagli lineari e tagli selettivi, l'esito concreto è che non si taglia proprio nulla. Nelle loro relazioni sulla manovra illustrate alle commissioni Bilancio di Camera e Senato, Ignazio Visco, governatore della Banca d'Italia e Luigi Giampaolino, presidente della Corte dei conti, confermano tutti gli aspetti negativi delle ultime manovre di finanza pubblica, quelle del governo Berlusconi ma anche la prima del governo Monti: rilevanti e pericolosi effetti recessivi; troppo squilibrate sul lato delle entrate, mentre le riduzioni di spesa sono poche; dulcis in fundo, scarsa attenzione alla crescita.
Secondo Visco, in assenza di veri e propri choc riformatori, l'effetto recessivo potrebbe in realtà superare l'un per cento. E appare difficile che la pressione fiscale, già in salita verso il 44,5 per cento si contenga “intorno al 45”. Come le altre, la manovra dei tecnici “si concentra per circa due terzi sulle entrate”. E non fa nulla per rimuovere un grave ostacolo allo sviluppo, il cosiddetto cuneo fiscale, che “in Italia supera la media degli altri paesi dell'area euro di 5,5 punti percentuali”. La Corte dei conti la pensa allo stesso modo: “I tagli strutturali della spesa, se si escludono quelli di grande rilievo del sistema pensionistico, sono insufficienti. Si misura qui la difficoltà del passaggio dal metodo dei tagli lineari a criteri di selezione della spesa pubblica più accorti e mirati. Un passaggio che va perseguito con impegno, rafforzando le iniziative di implementazione degli indirizzi di spending review”.
Insomma, la riduzione del deficit programmata fino al 2014, certifica la magistratura contabile, “sarebbe conseguita solo per l'aumento delle entrate (circa 120 miliardi), nonostante un ulteriore aumento della spesa (più 45 miliardi)”. Chiaro? Un ulteriore aumento. Come sempre da quando, nel 1979, venne introdotta la prima legge finanziaria, il cui scopo secondo il suo ideatore, Beniamino Andreatta, economista di scuola tridentina, era di fissare un limite invalicabile all'indebitamento annuo (art. 1 sul saldo netto da finanziare). Vuoi vedere che toccherà rivalutare Tremonti, il quale, immerso nelle sudate carte, sta preparando un libro per la rentrée, qualcosa come “La paura e la speranza”, ma forse con più paura e meno speranza.
In quel drammatico primo maggio 1866 si accese un gran dibattito al quale parteciparono i pezzi da novanta a cominciare da Francesco Ferrara, l'economista del Risorgimento, padre della scuola liberale. La Banca Nazionale era stata costretta a finanziare il Tesoro mentre veniva lanciato un prestito forzoso. Insomma, un vero e proprio salvataggio monetario. Doveva essere temporaneo, durò fino al 1881. Un anno dopo, la Camera avviò una inchiesta parlamentare. Davanti alla commissione, chi se la prendeva con la banca dei fratelli Péreire o con i Rothschild che pure possedevano buona parte della rendita del Regno, chi, come Ferrara, con Berlino. A tutti rispose Giovanni Lanza: “Se anche non ci fosse stata la guerra, l'Italia si avviava necessariamente al corso forzoso perché negli anni 1861-66 abbiamo ricorso al credito per sovvenire ai bisogni dell'erario per una somma non minore di 3 miliardi, che ci è costata 4,5 miliardi”. I nemici, dunque, quelli ancor più micidiali, s'annidano sempre in casa.
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