Una regina senza Prussia

Andrea Affaticati

All'indomani della nascita dell'Europa a due (o tre) velocità con lo spettacolare – e criticatissimo – smarcamento di Londra dalla disciplina teutonica, la germanizzazione dell'Europa è diventata un dato di fatto. Tanto che anche l'ex ministro degli Esteri e vice del cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder, il verde Joschka Fischer, esprimeva profonda perplessità: “I mercati dettano l'agenda.

    All'indomani della nascita dell'Europa a due (o tre) velocità con lo spettacolare – e criticatissimo – smarcamento di Londra dalla disciplina teutonica, la germanizzazione dell'Europa è diventata un dato di fatto. Tanto che anche l'ex ministro degli Esteri e vice del cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder, il verde Joschka Fischer, esprimeva profonda perplessità: “I mercati dettano l'agenda. Berlino, con Parigi al seguito, dice ciò che bisogna fare. Questo è malsano, profondamente malsano”. Fischer si fermava qui nel giudizio. Molti altri sono andati indietro nel tempo per comprendere il presente e la psicologia di questo paese, nel quale l'etica della disciplina, ancora prima della paura dell'inflazione, è inviolabile. I più si sono fermati sulla soglia del XX secolo. Ma è necessario fare un passo ancora più indietro per trovare la radice dell'animo e dell'etica tedesca. Un passo di tre secoli.

    Il 24 gennaio del 1712, nasceva Federico II, Federico il Grande, come lo chiamano in Germania, entrato nella storia come l'unico monarca illuminato tedesco eppure molto controverso. Basta leggere il titolo di una doppia intervista della Zeit – fatta in occasione del tricentenario dalla nascita – a due dei più grandi studiosi di Federico II, il polacco Adam Krzeminski e il canadese Christopher Clark: “Geniale? Omosessuale? Nazista?”. Certo seppe trasformare le terre avute in eredità e quelle che conquistò in una micidiale macchina da guerra, ebbe il fegato di sfidare le più potenti teste coronate del tempo, gli Asburgo, i Borboni di Francia, i Romanov. Ma non, come dice al Foglio Brunhilde Wehinger, docente all'Università di Potsdam, “per diventare un eroe tedesco, voleva essere un monarca europeo, e anche per questo si esprimeva principalmente in francese”. Thomas Mann, nel suo saggio del 1915 – “Federico e la grande coalizione” (intendendo per grande coalizione l'alleanza di Austria, Francia e Russia, contro di lui) – cita le parole del monarca, per sottolineare quanto fosse disposto a giocarsi il tutto per tutto: “auf Gedeih und Verderb”, o prosperità o annientamento.

    Le celebrazioni per l'anniversario interesseranno prevalentemente quel poco di ex Prussia che è rimasta alla Germania, cioè il Brandeburgo. A Potsdam, nel castello di Sans-Souci, la dimora che Federico fece costruire – “in stile rococò” precisa Wehinger “per sottolineare la vocazione europea” – e dove amava incontrare Voltaire, il veneziano Francesco Algarotti, il matematico e astronomo Pierre-Louis Moreau de Maupertuis e tanti altri, si aprirà il 28 aprile (e resterà fino al 28 ottobre) la mostra “Friederisiko”. Un titolo non proprio riuscito, ma che punta dritto a quel suo bisogno ossessivo di rischiare sempre il tutto per tutto, incapace com'era di concepire il compromesso. Si parla di Prussia e il resto del mondo pensa alle armate del Kaiser – la stampa britannica scrive che un tempo i tedeschi facevano le guerre con le armi, oggi con la finanza – e meno al senso di rigore, di rispetto delle regole, di eguaglianza di tutti di fronte alla legge. Si parla di virtù prussiane senza tenere conto, come dice al Foglio lo storico Michael Stürmer: “Che come paese siamo più eterogenei di voi italiani”. La Baviera non sa che farsene di Federico II, e nemmeno del rigore prussiano. Al massimo riconosce al vecchio Fritz il merito di aver introdotto la patata.

    Quanto di prussiano c'è oggi nella cancelliera Angela Merkel? “A rendere possibile la politica della ‘Deutschland-Vergrößerung' (ingrandimento della Germania) di Merkel è la sua indole: silenziosa, modesta, il suo muoversi a passo felpato, il suo essere una patriota senza pathos, motivo per cui non si coglie subito il tratto nazionalista della sua politica. Ma che dopo soli sessantasei anni dalla fine della guerra abbia il coraggio di perseguire nell'Eurozona un progetto di dominazione tedesca è prova di grande superficialità storica”. Non sono parole di un inglese o di un francese, ma di Dirk Kurbjuweit, giornalista dello Spiegel, che la conosce e segue da anni. Affermazioni simili sollevano, senza bisogno di pregiudizi, interrogativi, che i tedeschi per primi si pongono. Ma Stürmer ribatte di nuovo: “La Prussia non esiste più da tempo”. L'hanno cancellata dalle carte geografiche gli alleati nel 1947. “Per quanto, a ben vedere, è scomparsa ben prima”. Nel 1871 con l'incoronazione di Federico Guglielmo I a Kaiser. In quell'occasione Bismarck disse: “Oggi celebriamo i funerali della Prussia”. Quel Kaiser, nonostante avesse armato l'esercito contro il resto dell'Europa, non aveva nulla del rigore, delle passioni culturali, del senso dello stato che caratterizzava Federico II. Il quale era, secondo Krzeminski, un “historisches Gesamtkunstwerk”, un'opera d'arte storica totale, che riuniva in sé il politico, l'artista, l'intellettuale. Che aveva creato uno stato che era al contempo uno stato di polizia e di cultura, dove ognuno, come amava dire Federico II, “poteva vivere secondo il suo credo e il suo piacere”, riferendosi in primo luogo alla libertà religiosa, per quanto anche nel suo regno gli ebrei non godessero degli stessi diritti dei protestanti, dei cattolici, degli ugonotti. Forse il mistero di Federico, e il mistero dei tedeschi tutti, è questo portare, per convinzione, tutto all'estremo. Forse c'è del vero nell'affermazione “Merkel sta insegnando all'Europa intera le virtù prussiane”, scritta da un giornale tedesco. Il quotidiano economico Handelsblatt qualche giorno fa pubblicava i dieci comandamenti dell'Eurozona. Eccone alcuni: “Non vivere al di sopra delle tue possibilità”. “Non impedire la giusta punizione”. “Rispetta le generazioni future”. “Non desiderare il denaro altrui”. Un decalogo ironico, ma fino a un certo punto.

    Nel 2001, l'attuale presidente del Bundestag, Norbert Lammert, in occasione di una doppia ricorrenza, il 125esimo anniversario della nascita del cancelliere tedesco Konrad Adenauer e del 300esimo della fondazione del regno di Prussia (il 18 gennaio 1701, il padre di Federico si autoincoronò, a Königsberg, re della Prussia) ricordò che il cancelliere, pur avendo anche servito nell'impero prussiano, aveva mantenuto sempre un atteggiamento assai critico verso quel passato. Eppure, sottolineava Lammert allora, per quel suo modo di porsi, per quel senso della disciplina e a volte per quella sua mancanza di riguardo, Adenauer incarnava agli occhi di molti, dentro e fuori la Germania, la figura dell'ultimo grande prussiano. E lui stesso, alla fine, si era come arreso ammettendo che sì, “a conti fatti siamo tutti prussiani”. Quel senso di disciplina e di sordità alle richieste altrui è all'origine delle critiche feroci nei confronti di Merkel.

    Non sarà giusto, come dice lo storico Clark, scomodare sempre il passato per spiegare il presente, ma l'analisi di Businessweek che proprio dal passato parte – perché “è impossibile capire Merkel senza conoscere il suo passato e quello della Germania” – risulta in diverse parti molto acuta. Soprattutto quando ricorda che il suo credo economico è ordoliberista: è una teoria elaborata negli anni Trenta da Walter Eucken, docente all'Università di Friburgo, che auspica e autorizza l'intervento dello stato come garante di uno sviluppo del mercato libero secondo le regole di pari diritti, di rispetto delle regole e di equità sociale. Merkel – ricordava il settimanale americano – a febbraio, in un discorso tenuto alla fondazione, Stiftung Ordnungspolitik (già il famoso ordine) di Friburgo, rimpiangeva il fatto che non vi fosse un Walter Eucken in ogni stato del mondo. Eppure, questo senso del rigore non impedisce poi – ed è questa un'altra peculiarità tedesca, che ogni volta stupisce e spiazza, da Federico II a oggi – di applaudire chi al rigore sa unire il guizzo della fantasia.

    Federico II voleva essere un monarca europeo. E la Germania di oggi cosa vuole essere? “E' impossibile non provare una certa simpatia per Angela Merkel – scriveva Philip Stephens sul Financial Times alla vigilia dell'ultimo vertice europeo – Qualsiasi cosa faccia non va mai bene. C'è chi la critica di stare a guardare mentre l'euro va in fiamme, chi di imporre condizioni teutoniche per la sua sopravvivenza”. Il problema, scrive Stephens, è “che la Germania è troppo grande per l'Europa. Di fronte a questa potenza, la Francia non può che rassegnarsi al ruolo di ‘follower' e stringere alleanze più strette con Roma, Madrid e Varsavia”. La Germania è davvero troppo grande per l'Europa? No, rispondono secchi i tedeschi. Klaus-Dieter Frankenberger, uno dei direttori editoriali della Frankfurter Allgemeine, in un recente editoriale, pur deplorando l'infelice uscita del capogruppo parlamentare Cdu Volker Kauder – “ora tutta l'Europa parla tedesco” – sottolineava al tempo stesso che “nessuna persona seria può criticare il fatto che il governo federale chieda, in cambio del contributo tedesco, una disciplina di bilancio e una politica economica ragionevole. Merkel non deve certo scusarsi per questo”. E non c'entra nulla la sete di egemonia. “Perché una cosa la Germania non è di sicuro: un'egemone, recalcitrante o convinta che dir si voglia”. In una recente intervista con il Foglio, l'ex direttore dell'Istituto culturale italiano a Berlino, Angelo Bolaffi, affermava: “Se c'è una cosa che la Germania non vuole è quella di essere accerchiata da paesi che la temono”. Per questo, quando il ministro degli Esteri polacco, Radoslaw Tomasz Sikorski, dichiara che l'inattività della Germania gli pare più pericolosa della sua potenza, molti applaudono. Un'affermazione così segna un successo enorme dell'Unione europea, nel senso degli intenti dei padri fondatori – una frase così, anche soltanto vent'anni fa, era impensabile (quando cadde il Muro, Giulio Andreotti disse che amava talmente tanto la Germania da preferirne due piuttosto che una).

    E siamo di nuovo alla storia. Per il trecentesimo anniversario dalla nascita di Federico il grande, Spiegel ha scelto per la copertina un ritratto del monarca con il sottotitolo “Trionfo e tragedia di un re prussiano”. Quando nel 1940 arriva al trono, Federico ha 28 anni di terrore alle spalle. La sua indole sin da piccolo lo aveva spinto verso la musica, la letteratura, le arti. La disciplina da caserma lo inorridiva. Il padre, Friedrich Wilhelm I, il re soldato che aveva trasformato i suoi domini (ai tempi ancora appezzamenti sparsi tra il Brandeburgo e la Polonia) in una caserma, l'aveva costretto a sottomettersi al suo volere. La lezione più brutale gliela inflisse dopo il fallito tentativo di fuga a diciotto anni, costringendolo ad assistere alla decapitazione del suo amico Katte con il quale l'aveva progettata. Così, quando infine il padre muore e Federico sale al trono, ci si aspetta che si dedichi alle sue passioni. E in effetti coltiva la musica, la poesia, e non solo. Voltaire l'aveva soprannominato “le roi philosophe”. Federico si era cimentato nella stesura di un “Anti Machiavelli”, dove tra l'altro affermava: “Mi assumo la difesa dell'umanità contro quell'essere disumano [Machiavelli] che vuole distruggerla; antepongo la ragione e la giustizia alla truffa e al vizio”. Idee illuminate che non gli impediscono di invadere, sei mesi dopo l'ascesa al trono, la Slesia. Si dice che Maria Teresa d'Austria nemmeno lo chiamasse per nome, per lei era il “cattivo” e basta. Il cancelliere Kaunitz escogita il piano di un'alleanza alla quale si aggiunge la Russia.

    Nonostante avesse contro gran parte dell'Europa, Federico II non retrocede. Mann scrive: “Ancora una volta sentì che la Prussia doveva affermarsi; aveva la guerra nel sangue, lui intendeva la guerra quando gli altri pensavano solo a minuetti diplomatici”. E così nel 1756 attacca la Sassonia. Inizia quella guerra dei sette anni che rischia di diventare una disfatta totale per la Prussia. Ed è solo la morte di Elisabetta di Russia, con l'avvento al trono del figlio, lo zar Pietro III, a scongiurare all'ultimo momento il peggio. Federico II, per quanto stanco e indebolito nel fisico, non ha finito di stupire. “Dopo quei terribili sette anni, era diventato ancora più cattivo e cinico – scrive Mann – Ma ciò nonostante, pur disprezzando profondamente il popolino, si adopera ostinatamente a rimediare alla disgrazia che aveva causato, a risanare l'agricoltura, le finanze dello stato, a far nascere i primi conglomerati industriali. Un comportamento apparentemente assurdo se non si comprende che il senso del dovere era per lui un'ossessione, che lui stesso era giusto uno strumento di un volere superiore. Che il suo zelo era gelida, infelice passione”.

    Alla domanda della Zeit sulla continuità tra la teoria che la Prussia si sia formata come stato europeo molto prima di diventare uno stato tedesco e i giorni nostri, lo storico Clark conferma che ci sono molte similitudini, ma aggiunge: “Federico il Grande non può essere un consigliere per Angela Merkel, la Prussia non è un modello per la nuova Europa. E' sbagliato come fanno molti, spesso del tutto ignari della storia, prendere a esempio le cosiddette virtù prussiane, come la puntualità e lo zelo, per spiegare il qui e ora”.

    Meglio allora ricordare le parole di Jean Monnet, uno dei padri fondatori dell'Europa unita che con lungimiranza aveva previsto che l'Europa si sarebbe venuta a formare lentamente, “attraverso una serie di crisi”.