Il Pd, i Labour e il blairismo 2.0

Claudio Cerasa

La spesa pubblica? Suvvia: iniziamo a tagliarla come si deve. Le riforme? Ammettiamolo: sono l'unico modo per tirare fuori dai pasticci un paese in difficoltà. Le tasse? Non prendiamoci in giro: esistono modi migliori per rimettere a posto i conti degli stati in crisi. Qualche giorno fa un gagliardissimo think tank inglese (Policy Network) gestito da uno dei volti simbolo della migliore tradizione del laburismo (Peter Mandelson) ha pubblicato un gustoso dossier di cinque pagine che non è passato inosservato all'interno dell'universo del centrosinistra britannico.

    La spesa pubblica? Suvvia: iniziamo a tagliarla come si deve. Le riforme? Ammettiamolo: sono l'unico modo per tirare fuori dai pasticci un paese in difficoltà. Le tasse? Non prendiamoci in giro: esistono modi migliori per rimettere a posto i conti degli stati in crisi. Qualche giorno fa un gagliardissimo think tank inglese (Policy Network) gestito da uno dei volti simbolo della migliore tradizione del laburismo (Peter Mandelson) ha pubblicato un gustoso dossier di cinque pagine che non è passato inosservato all'interno dell'universo del centrosinistra britannico.

    Il documento, scritto da quattro politologi inglesi (Graeme Cooke, Adam Lent, Anthony Painter, Hopi Sen), è nato con l'idea di offrire ai laburisti un punto di partenza per affrontare un problema con cui ultimamente, in questi mesi di Borse impazzite, di mercati in crisi, di debiti a rischio e di rendimenti alle stelle, si stanno ritrovando a fare i conti tutti i grandi progressisti d'Europa: da Ed Miliband ad Alfredo Pérez Rubalcaba, da François Hollande fino naturalmente a Pier Luigi Bersani. Il problema in questione riguarda la necessità che il centrosinistra europeo faccia al più presto uno sforzo per ricalibrare la propria identità in maniera tale da abbandonare le vecchie ideologie novecentesche e diventare competitivo anche nell'era della nuova grande crisi economica internazionale.

    Detto in estrema sintesi: ragazzi, ma esiste o no un modo per evitare che l'identità dei progressisti rimanga schiacciata sotto il rullo compressore della diabolica signorina spread? In Italia, lo avrete notato, complice l'appoggio del Pd al governo Monti, la questione della ridefinizione dell'identità del centrosinistra è tornata nuovamente a essere tema di grande attualità, e da qualche settimana a questa parte non passa giorno senza che Pier Luigi Bersani si produca in eroiche acrobazie per provare a tenere insieme le due anime del suo partito (entrate in conflitto proprio sul tema del giusto profilo da dare al Pd in questa fase storica, diciamo così, decisamente delicata): riformisti e anti riformisti, blairiani e anti blairiani, sindacalisti e anti sindacalisti, europeisti e anti europeisti, mercatisti e anti mercatisti, liberisti e anti liberisti. Tutti contro tutti: con l'impressione però che più si vada avanti con il tempo e più la dialettica tra le due anime del partito assomigli sempre meno a una dialettica e sempre più a una frattura praticamente insanabile.

    E allora, che si fa? Come se ne esce? Il think tank di Mandelson ha provato a offrire una risposta con questo paper che ci sentiamo di consigliare vivamente al segretario del Pd. Titolo del paper: “In the black Labour”. Sottotitolo: “Why fiscal conservatism and social justice go hand-in-hand” (“Perché conservatorismo fiscale e giustizia sociale vanno a braccetto”). Tesi: dimostrare ai progressisti europei che oggi, come non mai, è necessario puntare su un nuovo modello di stato senza avere paura di affrontare alcuni storici tabù del centrosinistra (vedi alla voce tasse, vedi alla voce riforme, vedi alla voce spesa pubblica) e senza avere paura di uscire trasformati dall'immersione in questo nuovo contesto culturale. Naturalmente, il paper si rivolge, sì, al leader dei Labour (Ed Miliband) e al suo responsabile economico (Ed Balls, che volendo essere molto generosi col Pd potrebbe essere definito lo Stefano Fassina di Miliband, ma appunto bisognerebbe essere molto generosi), ma a leggerlo bene sembra essere fatto apposta per offrire anche al Pd una possibile nuova, e forse ultimativa, terza via da seguire per tenere insieme i cocci del riformismo italiano.

    La premessa del paper è che oggi come oggi senza una nuova e rivoluzionaria agenda economica è impossibile per le sinistre europee essere competitive rispetto ai conservatori – “Without economic credibility, it becomes almost impossible to convince the public of any other aspect of your policy agenda”. E proprio partendo da questa premessa il documento offre alcuni spunti di riflessione interessanti per capire perché in questo nuovo contesto storico (caratterizzato dall'idea di una “Social democracy with less money”) un nuovo modello di stato sociale (o meglio: “an enterprising state”: uno stato imprenditore) è diventato improvvisamente più che necessario.

    Primo punto, la spesa pubblica: “Le nuove condizioni che si sono venute a creare impongono che in futuro i Labour, per raggiungere i loro obiettivi, dovranno guardare con più attenzione alle riforme prima ancora che alla spesa pubblica”. Secondo punto, le tasse: “Il centrosinistra deve capire che gli obiettivi delle politiche progressiste si devono inserire all'interno di una cornice politica che tenga conto dell'idea che le risorse sono limitate, che la priorità chiara ora sono le riforme e che da oggi in poi i soldi devono arrivare non con nuove tasse ma con le giuste riforme capaci di garantire una sana crescita”.

    Terzo punto, la giustizia sociale: “Non esiste modo migliore e più durevole per garantire l'equità se non quello di puntare sulle giuste riforme che possano aiutarci a sconfiggere tutte le ingiustizie sociali”. “Vedete – hanno scritto in un articolo sul Guardian a inizio dicembre due degli autori del paper, Anthony Painter e Hopi Sen – sappiamo bene qual è l'obiezione che ci potrebbe essere mossa: ma siete matti? Voi state chiedendo ai Labour di sposare alcune policy dei conservatori. Questa è un'obiezione che avrebbe avuto senso in un contesto pre crisi, ma in una fase storica come questa, caratterizzata da un processo di ‘zero-budgeting', bisogna ammettere che qualsiasi politica redistributiva basata sulla redistribuzione delle risorse non può avere senso perché, molto semplicemente, le risorse da distribuire non ci sono più, e di questo dobbiamo rendercene conto anche a costo di dire di ‘sì' ad alcune delle tradizionali politiche del conservatorismo fiscale”.

    Al contrario di quello che si potrebbe credere, però, il leader dei Labour, Ed Miliband, pur essendo stato eletto con una piattaforma distante anni luce dal laburismo blairiano di cui si è fatto interprete invece durante l'ultima battaglia congressuale il fratello David, ha scelto di non respingere al mittente l'agenda Mandelson (che del blairisimo, tra l'altro, è stato uno degli architetti). E invece che limitarsi a dire, come avrebbe fatto qualcuno in Italia, che le idee di Mandelson sono idee minoritarie che a malapena rappresentano il due per cento del partito ha accettato di prendere in considerazione i suggerimenti di Policy Network e ha così iniziato a rilasciare una serie di interviste (lui, ma soprattutto Ed Balls) per dimostrare che il Labour è tornato a essere alla ricerca di un'altra Terza via utile a favorire la nascita di un nuovo modello di stato sociale: “A plan for more responsible capitalism”, come lo ha definito recentemente lo stesso Ed Miliband.

    E l'Italia? E Bersani? E il Pd? Che c'entrano con questa storia? C'entrano, c'entrano. Come Miliband, infatti, Bersani sa bene che in questa fase storica il suo compito deve essere quello non di dividere ma di tenere insieme le varie anime del suo partito, e dunque i blairiani e gli anti blairiani, i montiani e i non montiani, i Pietro Ichino e i Cesare Damiano, gli Enrico Morando e gli Stefano Fassina, le Susanna Camusso e gli Enrico Letta. Finora, però, anche a giudicare da come il Pd si è espresso recentemente in relazione ad alcuni temi importanti come la riforma delle pensioni e l'abolizione dell'articolo 18, è evidente che il tentativo di sintesi portato avanti dalla leadership del partito è un tentativo che non ha dato i suoi frutti; e in questo senso non risulta difficile constatare che i Labour italiani (immersi nella contraddittoria esperienza del governo Monti) oggi siano indirizzati su due percorsi che più che convergenti sembrano essere sempre più marcatamente divergenti: quasi come se nel Pd ci fossero due partiti all'interno dello stesso partito.

    Eppure un modo per uscirne in teoria ci sarebbe. Basterebbe dare un'occhiata a quello che succede in Inghilterra – dove lo scontro tra riformisti e anti riformisti e blairiani e anti blairiani è persino più forte di quello che si registra in questi giorni in Italia. Lì un tentativo di trovare una nuova sintesi i Labour lo stanno facendo. E lo stanno facendo con una nuova piattaforma programmatica che contempla il fatto che affrontare la crisi con le stesse ideologie dello scorso decennio oggi può essere suicida. In Inghilterra lo hanno capito. E l'impressione è che senza una nuova agenda economica – e senza una nuova spinta per indirizzare il Pd sui binari di una nuova Terza via – i laburisti italiani, così come sono, rischiano davvero di essere destinati a non avere una lunghissima vita.

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.