Un vero artista del pregiudizio

Giuliano Ferrara

Non starò a raccontare come e perché ce le siamo date di santa ragione tutta la vita, da quando ero un cucciolo e lui già un adulto cattivo con l'età dei miei genitori, e ce le siamo date da fegatosi, da irascibili, da fieri nemici assoluti su tutto, la politica, il terrorismo, la storia, il Partito comunista, gli azionisti, il fascismo, l'antifascismo, le rispettive ossessioni come Berlusconi, come Craxi, come la corruzione e la questione dell'etica, ma anche il giornalismo, la sua incerta e un po' sozza morale, la corrività, l'indulgenza e la condiscendenza inguaribili della sua lobby editoriale di Repubblica e dell'Espresso.

    Non starò a raccontare come e perché ce le siamo date di santa ragione tutta la vita, da quando ero un cucciolo e lui già un adulto cattivo con l'età dei miei genitori, e ce le siamo date da fegatosi, da irascibili, da fieri nemici assoluti su tutto, la politica, il terrorismo, la storia, il Partito comunista, gli azionisti, il fascismo, l'antifascismo, le rispettive ossessioni come Berlusconi, come Craxi, come la corruzione e la questione dell'etica, ma anche il giornalismo, la sua incerta e un po' sozza morale, la corrività, l'indulgenza e la condiscendenza inguaribili della sua lobby editoriale di Repubblica e dell'Espresso.

    Non starò a raccontare quanto ci siamo conosciuti nel profondo e amati, sapendoci puttane e gentiluomini, senza pretendere alcuna forma di rispetto, senza ipocrisia, con una violenza affettiva spesso devastante e, da parte mia, con un'ammirazione stilistica senza confini, espansa, vasta e mobile come le moltitudini di Whitman. Quel Giorgio Bocca che ora è morto a novantuno anni era un capitano, non il mio capitano, ma un capitano dello scellerato dovere di scrivere, di guadagnarsi il pane e molto companatico con le vite degli altri, con il maltrattamento della patria sempre evocata e sempre rozzamente servita, con la manipolazione e la dissimulazione oneste (ma fino a un certo punto), e con la secchezza scabrosa di un modo di battere a macchina furiosamente, una successione sillabica come un presto, prestissimo, che era come parlare a un vecchio registratore Geloso con la sorveglianza di qualche libro letto, di un codice sempre tradito, di una passione piena di narcisismo e di ignominiosa voluttà di vivere, imporsi, trionfare costi quel che costi, in tutta fretta.

    Bocca era un grande artista del pregiudizio. In questo mi era e ci era a suo modo maestro. Era un lucido beone, una razza che ho sempre apprezzato e invidiato, uno che non aveva mai paura di sputtanare e di essere sputtanato, un filibustiere con una deontologia da chirurgo, di quelli che se possono salvano e se non possono ammazzano, ma che sanno sempre di che si tratta quando ci siano di mezzo il sangue e il sentimento della vita umana fragile, imperfetta. Esibiva il pregiudizio, ne faceva una specie di potente e acuminato ferro del mestiere, un arnese di scasso della realtà, e la sapeva mettere in vetrina, la realtà che acciuffava come una preda, con furia animalesca, sessuale, per come la vedeva lui, e lui solo, e per come pensava dovessero vederla gli altri, i lettori comuni nella loro identità sbiadita ma necessaria, i lettori di nomenclatura, i politici, gli editori, i ricchi, i compagni e i nemici, i traditori e i leali, i fedelissimi e gli ambigui.

    La sua lingua letteraria scoppiava di umanità provinciale, balzacchiana se ce n'era una, e il partito preso era il sale del suo magistero, non ebbe mai cedimenti significativi per la compunzione tipica di tanti suoi allievi, anche i più bravi come Lerner, anche i più malconci come il piccolissimo emulo Maltese. Sapeva che i ghiacciai di montagna vanno su e giù, che le balle sull'effetto serra servivano a qualche lobby ma non alla scienza. Sapeva che lo sviluppo, una serie di boom e di crisi, è fatto di iniquità, di squilibrio, e che l'economia si governa da sé, con il suo proprio senso del potere e dell'avidità di guadagno, ma il tutto illuminato dalla cultura, dall'amore per il proprio tempo, dalla coscienza del finito, del contingente. Sapeva che la guerra è uno scempio, e come in un teatro di scempio la praticò, in un impasto impuro di ferocia e di leggerezza. Ma la vittoria giustificava ogni mezzo, e per giustificare la sofferenza dell'altro c'erano a disposizione la sofferenza e il rischio propri.

    Scrivere come si dovrebbe parlare,
    per lui che parlava in modo così poco fiorito e così poco televisivo, era la sua condanna e la sua grande arte. Coltivava il gusto dell'invettiva, che non mancava mai in ogni sua inchiesta, e tirava a lucido una forma di sincerità che rasentava la confessione del delitto, ci fosse o no il delitto, magari alla ricerca di un castigo. Come quando confessò che le cose da lui dette e scritte sul terrorismo italiano, al limite della complicità partigiana, erano sì una memoria della Repubblica che avrebbe potuto essere e non fu, della democrazia azionista tradita dai grandi partiti popolari, del paludamento ideologico togliattiano e degasperiano capace di schiacciare i sogni inquieti ferventi e folli della minoranza intransigente dei piemontesi d'assalto, ma poi quegli scritti a favore dei più forti erano anche una resipiscenza reticente, un esercizio di prudenza di fronte al pericolo, alla minaccia. Seppe dirsi debole, ed era stato anche troppo forte con le armi e il potere militare in pugno. Ingiusto sempre, da fascista e da antifascista, ma celebrante di straordinario rango dell'impossibilità della giustizia, decrittatore dei segreti di una storia incompiuta, fratricida, senza pietà per le semplificazioni prive di dubbi, sebbene fino in fondo attaccato, morbosamente attaccato, alla mitobiografia della sua gioventù.

    Nel bel ritratto che gli ha dedicato Fabrizio Ravelli su Repubblica ci sono le sue perle, prima fra tutte la dichiarazione di appartenenza e di partigianeria congenita del giornalista che fa bella la stampa del suo editore, il cronista che non è mai “indipendente”: "Allora, quando giravo l'Italia per le mie inchieste, mi ero quasi convinto di essere uno che incuteva paura ai potenti, che poteva dirgli in faccia quel che pensava di loro. La megalomania dei giornalisti è quasi sopportabile nella sua ingenuità. La verità è che ero il giornalista di Enrico Mattei, del potentissimo Eni con cui i padroni del vapore dovevano fare i conti". E poi quel segreto del suo innamoramento per la chiacchiera dei quotidiani e dei settimanali, così strano in certi tipi che dovrebbero fare mentre gli altri insegnano: diceva che tutto sta in uno speciale “orecchio per i suoni del creato”, e il segreto è quello “di chi ha occhio per la caccia, dello schermidore che sa parare e tirare".

    I suoi libri di storia furono tutti scritti
    da orecchiante, ma fu lui a raccogliere la testimonianza sbrigativa e onesta di Longo sul rapporto fra Togliatti e l'epopea resistenziale: “Capì l'importanza della resistenza quando fucilammo Mussolini a Dongo”, cioè quando era finita, questa era la dichiarazione resa all'autore dal vecchio “partigia” stalinista suo conterraneo che era succeduto al Migliore nella guida di quel partito castigo e spauracchio che fu il Pci. Da moralista, pamphlettista e autobiografo lo spunto superficiale era spesso brillante, la via sinuosa e traditrice degli argomenti e delle storie si faceva leggere, non era mai pomposo, mai altezzoso, e la sua era una cultura dell'anima piena di errori, di distrazioni, Bocca aveva sempre qualcosa di imperdonabile che riscattava con una vena di perfidia generosissima, con una specie di appassionata indifferenza, roba da contrafforte gesuitico della stimabile e tutta d'un pezzo città di Cuneo. Ora che a questo eccezionale imperdonabile dobbiamo perdonare tutto perché è morto stecchito, esposto alle bolsaggini che s'immaginano frammiste a qualche segno di vera amicizia, ora è spiacevole non averlo vivo con tutte le sue caccole psicologiche, con tutti i suoi morbi professionali, con tutte le sue bevute e le sue sparate, per continuare a leggerlo e farci a botte.
     

    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.