In un paese povero di carattere, Bocca ne aveva in sovrabbondanza

Nicoletta Tiliacos

Per capire l'importanza di Giorgio Bocca, dice il critico Alfonso Berardinelli, “propongo di distinguere il Bocca politico da quello ‘sociale', almeno per quanto riguarda gli ultimi vent'anni. Sebbene da tempo apparisse formalmente indignato in ogni articolo che scriveva, Bocca manifestava semplicemente una specie di rigetto, di noia profonda per il commento alla politica italiana, nel quale emergevano a tratti certe sue considerazioni cosmiche, planetarie.

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    Per capire l'importanza di Giorgio Bocca, dice il critico Alfonso Berardinelli, “propongo di distinguere il Bocca politico da quello ‘sociale', almeno per quanto riguarda gli ultimi vent'anni. Sebbene da tempo apparisse formalmente indignato in ogni articolo che scriveva, Bocca manifestava semplicemente una specie di rigetto, di noia profonda per il commento alla politica italiana, nel quale emergevano a tratti certe sue considerazioni cosmiche, planetarie. Mentre il Bocca tra l'autobiografia e il reportage, soprattutto in tempi remoti – la scoperta dell'Italia e penso anche a certi viaggi americani – era il vero giornalista. La mia simpatia per Bocca è anche una simpatia in opposizione all'altro giornalista faro italiano, Eugenio Scalfari. Il quale ha sempre fatto prediche politiche, con la preoccupazione di essere l'interlocutore e il direttore di coscienza della classe politica, e in una sorta di autoidolatria si è trasformato in un filosofo (è impegnato cioè nell'attività intellettuale più dubbia che si veda praticare oggi in Italia). Bocca no. E' rimasto ‘rasoterra'. Lo vediamo quando parla del Po, del passato, della sua vita. E', tra i giornalisti italiani, quello da cui si impara di più, se non altro come atteggiamento. Le sue posizioni particolari possono essere discutibili, come quelle di tutti. Però è innegabile che Bocca fosse un giornalista naturale, con un istinto perfino un po' grossolano, che nel giornalismo è come il sale nel pane, che è quello del fiuto per chi ha i soldi e per chi non ce li ha, per chi ha il potere e per chi non ce l'ha. Bocca poteva essere spaventato dal potere e anche attratto da chi aveva i soldi, ma aveva il polso di come è fatta l'Italia. E pesava in questo un fondo di moralismo piemontese da montanaro, più che da torinese. Di uno che della classe dirigente sente di non fare veramente parte, e sa che un giornalista è uno che racconta quel che osserva, non uno che dirige la politica”.
    Un'altra caratteristica importante di Bocca, secondo Berardinelli, “è la sensazione che dava di parlare di quello di cui aveva respirato l'aria, come un vero alpinista. Aveva il gusto di andare alle cose semplici e preferiva correre il rischio della brutalità piuttosto che indulgere nella sublimazione ipocrita. Da qui nasceva probabilmente la sua simpatia iniziale per la Lega”. In un'intervista di appena un anno fa (ora sul sito di Repubblica), Bocca rivendica quella scelta: “Ero filoleghista – dice – perché grazie ai barbari era stato fatto fuori il bipartitismo Dc-Pci, che era morto e sepolto”. Dell'ultimo Bocca, Berardinelli apprezza soprattutto alcune cose, “tra le sue più belle, scritte sull'Italia di oggi, e in particolare sulla rovina del Po. Non il Po simbolo leghista, ma il fiume, il suo ambiente, il corso d'acqua che tocca le regioni che ha più amato”.

    Lo storico Ernesto Galli della Loggia definisce Bocca “il più grande cronista dell'Italia repubblicana. Lo penso a cominciare dalla prima sua cosa che lessi, quel ‘Miracolo all'italiana' in cui Bocca descriveva i Natali opulenti della Milano tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio dei Sessanta. Era uno strepitoso cronista in presa diretta, capace di raccontare le cose che vedeva nella maniera più secca e più efficace. Ma non so se si possa davvero definire Bocca cronista italiano. Ha sempre avuto un punto di vista molto settentrionale e, con il tempo, sempre più milanese e meno piemontese. Sempre meno sensibile alle ragioni dell'unità d'Italia – qualcosa che invece i piemontesi hanno nel sangue – e sempre più protestatario, anti romano, anti meridionale. Scrisse su Napoli cose di viscerale parzialità”. L'antimeridionalismo insistito e aspro lo ha accompagnato fino all'ultimo. “Durante i miei viaggi – dice Bocca in una videointervista realizzata l'anno passato per Feltrinelli Real cinema, intitolata “La neve e il fuoco” – c'era sempre questo contrasto tra paesaggi meravigliosi e gente orrenda, un'umanità repellente”).

    Galli della Loggia aggiunge a questo proposito che “non per nulla, Bocca è stato tra coloro che, almeno all'inizio, ha simpatizzato con la Lega. Si è fatto molto assorbire da Milano, dal suo ambiente sociale”. Del Bocca storico e divulgatore, Galli della Loggia ha sperimentato la furia polemica all'epoca dell'uscita del suo libro sulla morte della patria e sul significato dell'8 settembre del 1943: “E' stato, semplificando un po', una specie di Montanelli della sinistra, anche lui polemista ragguardevole e temibile, capace di mordere e ferire. Parlando da sinistra, Bocca ha avuto più modo di esercitare questa attività, mentre Montanelli, costretto a militare sul lato moderato, non ha avuto quella vastità di bersagli che aveva a disposizione Bocca. Le cose migliori di Bocca storico sono quelle sulla guerra partigiana, quando racconta della vita in montagna, del rapporto con i comunisti. Lì ha saputo anche essere anticonformista. Non lo è stato affatto, invece, sul versante dell'interpretazione del significato del fascismo nella storia d'Italia. Non è riuscito, non ha voluto ripensare il proprio giudizio storico su quel periodo, perché lo ha schiacciato sul giudizio politico-morale. E sì che in quello che è forse il suo libro più bello, ‘Il provinciale', dove racconta la storia della propria vita, dimostra di essere ben consapevole di certi aspetti. Era il fascismo che aveva consentito a lui, giovane piccolo borghese di Cuneo, di andare a fare le gare di nuoto nazionali a Taranto, dandogli così l'occasione di uscire dalla sua dimensione. Bocca aveva tutti gli elementi autobiografici per capire l'elemento di modernizzazione contenuto nel fascismo, e quindi quale fosse la radice del consenso che riscosse anche negli strati giovanili e popolari. Eppure non riuscì mai a elaborarlo. Da qui anche la sua furibonda incomprensione della storiografia degli ultimi anni che ha rimeditato il giudizio storico sul ventennio – e sottolineo storico, non politico-morale – e sulla Resistenza. La quale, per Bocca, rimase nel suo complesso un tabù. E poi – aggiunge Galli della Loggia – il suo scontento progressivo e sempre più malmostoso per l'Italia degli ultimi due decenni, mi pare che lo abbia sempre più fatto rifugiare in una specia di ‘deprecatio' moralistica che dall'Italia si è estesa al turbocapitalismo e al mondo intero. Un mondo che per lui faceva schifo in senso letterale: sporco, puzzolente, inquinato”.
    La giornalista Miriam Mafai pensa che Bocca “sia stato il più grande giornalista italiano perché si è sempre avvicinato alla realtà senza pregiudizi. Si è messo per primo di fronte al fenomeno del cosiddetto ‘miracolo italiano' con spregiudicatezza, senza farsi incantare da tesi politiche e da dottrine sociologiche. E' andato a vedere, e per questo è stato in grado di dare lezioni anche a una sinistra che capì in ritardo che cosa fosse quel fenomeno. Ricordo anche il contributo che ha dato nel corso della vicenda del terrorismo, che ha raccontato prima di altri, anche lì con occhio libero, senza atteggiamenti di simpatia e solidarietà. Non è mai stato corrivo, il che non gli ha impedito di guardare ai terroristi come uomini”.

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