Anche il Fmi inizia ad avere dubbi sulla bontà del rigorismo

Alberto Brambilla

L'idea che rigore e crescita non siano in contraddizione sembra passata di moda anche al Fondo monetario internazionale. L'urgenza perde forza e avanza il pensiero che un rapido consolidamento fiscale sia più dannoso che utile. La novità non sarebbe entusiasmante se non venisse dal capo economista dello stesso Fmi, il francese Olivier Blanchard.

    L'idea che rigore e crescita non siano in contraddizione sembra passata di moda anche al Fondo monetario internazionale. L'urgenza perde forza e avanza il pensiero che un rapido consolidamento fiscale sia più dannoso che utile. La novità non sarebbe entusiasmante se non venisse dal capo economista dello stesso Fmi, il francese Olivier Blanchard.

    Spiegando che il 2011 si chiude male e il 2012 si aprirà peggio, Blanchard non fa mea culpa per le manovre che il Fondo ha suggerito e caldeggiato in Europa, ma punta il dito sulla sudditanza degli stati nei confronti degli “investitori schizofrenici” che “reagiscono positivamente alla notizia del consolidamento, ma negativamente in seguito, quando questo porta a minore crescita”. Perché “nella misura in cui sentono di dover rispondere ai mercati, i governi possono essere indotti a consolidare troppo rapidamente, anche dal ristretto punto di vista della sostenibilità del debito”. Insomma, rientrare in fretta è pericoloso. Adesso anche gli economisti dell'istituzione con sede a Washington stanno formulando nuove stime per dimostrare come gli effetti congiunti di manovre restrittive e minore crescita “portino alla fine a un aumento e non a una riduzione negli spread di rischio sui bond governativi”. Teoria evidente sugli effetti sul pil della manovra da 25 miliardi del governo italiano: tasse e riduzione di spesa per rispettare in parte le indicazioni della Banca centrale europea e gli auspici della Germania di Angela Merkel. Paradossale che Blanchard citi proprio la cancelliera – che ha spesso chiesto misure urgenti – per spiegare la necessità di un lento raggiungimento degli obiettivi di bilancio: “Un sostanziale consolidamento fiscale è necessario – spiega – e i livelli di debito devono scendere. Ma dovrebbe essere, nelle parole di Angela Merkel, una maratona anziché uno sprint. Serviranno più di due decenni per tornare a prudenti livelli di debito”.

    Le parole di Blanchard sono l'apice di un dibattito che continua da settembre, quando il Fondo ha pubblicato lo studio “Painful Medicine” (medicina amara) dove si afferma che per ogni punto di pil risparmiato dai governi gli stipendi al netto dell'inflazione scendono in media di 0,6 punti e il tasso di disoccupazione aumenta di mezzo punto nei due anni successivi. Esempio della fallibilità di questo approccio è la Grecia, dove Fmi, Bce e Commissione hanno delineato i piani di risanamento. Piani che stanno dando risultati scarsi, secondo l'ultimo monitoraggio del Fmi. Tra perdita di competitività, salari in calo, disoccupazione in aumento e una crescita prevista ancora più debole, spicca anche l'ammissione che il piano del 21 luglio per l'aumento degli aiuti europei “non funzionerà”.

    Un Fondo “deluso dall'austerità”, per dirla come il Nobel Paul Krugman, o che si riscopre invece più “americano” e lassista, come spiega al Foglio Franco Bruni, docente di Politica monetaria all'Università Bocconi? “Dovrebbe essere più indipendente dagli Stati Uniti, dove la concezione è che si esca dalla crisi spendendo di più – dice l'economista della Bocconi – Loro crescono di poco e possono permetterselo ma così il mondo si ritrova sotto la spinta dell'indisciplina macroeconomica che loro stessi guidano”. L'arrivo di Christine Lagarde a direttore operativo è solo una conferma: “Rappresenta l'Europa più tollerante – dice Bruni – non quella del rigore, la stessa che in Francia sta giocando contro il processo di integrazione europea favorendo invece un sistema bancario opaco compromesso con gli strumenti tossici statunitensi”.

    • Alberto Brambilla
    • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.