Senza segreti, senza indizi

“Siamo stati giocati”. Il colpo fatale alla guerra dei droni di Obama

Daniele Raineri

C'è stato un primo momento in cui la “guerra segreta di Obama” – come i giornalisti informati e ben imboccati l'hanno definita –, ovvero la campagna di spionaggio dall'alto e di bombardamenti di precisione condotta con i droni è sembrata la soluzione perfetta. Questo che si chiude è stato l'anno del culmine del successo nella guerra ai nemici dell'America.

    C'è stato un primo momento in cui la “guerra segreta di Obama” – come i giornalisti informati e ben imboccati l'hanno definita –, ovvero la campagna di spionaggio dall'alto e di bombardamenti di precisione condotta con i droni è sembrata la soluzione perfetta. Questo che si chiude è stato l'anno del culmine del successo nella guerra ai nemici dell'America: un drone speciale ha tenuto sotto osservazione il rifugio di Osama bin Laden nella città guarnigione di Abbottabad, tra le colline dolci del Pakistan orientale, prima dell'intervento dei Navy Seal; un altro ha eliminato il capo americano di al Qaida nello Yemen, Anwar al Awlaki, su un altipiano altrimenti irragiungibile a nord della capitale; un terzo ha inchiodato il convoglio di Muammar Gheddafi in fuga da Sirte, lasciandolo in pasto ai ribelli. I droni osservano, colpiscono, risparmiano le perdite di soldati americani, sono precisi e impersonali: stanno all'incrocio ideale tra la superiorità tecnologica americana e la guerra discreta che si richiede a un'Amministrazione democratica, tanto che – come raccontava ieri un servizio di Paolo Mastrolilli sulla Stampa, che riprende un pezzo di Greg Miller sul Washington Post del giorno prima – “la flotta è stata aumentata a 775 droni”, “sono state aperte almeno sei basi all'estero”, “gli stessi parlamentari democratici sono restii a criticare Obama su questa guerra segreta”. “I droni sono l'arma perfetta per la democrazia – commentava ieri Ta-Nehisi Coates sull'Atlantic – ci si guadagna tutto il credito politico per i raid contro i nemici della nazione e non si prendono le critiche per le perdite di soldati”.

    C'è però il secondo momento ed è ora: vengono a galla le debolezze della strategia. La più grave è che il sistema poggia su una rete di intelligence perfide appartenenti a paesi alleati che tanto alleati non sono. Ieri il Wall Street Journal aveva in prima uno scoop micidiale: il governo yemenita nel maggio 2010 ha convinto gli americani a bombardare una casa dicendo loro che si trattava di un rifugio di al Qaida. Invece ci dormiva Jabir Sharwani, vice governatore della provincia di Mareb e rivale politico del presidente Ali Abdullah Saleh. “Siamo stati giocati”, ammettono le fonti altolocate del Wsj, usati per eliminare un avversario locale. Nello Yemen ricordano perfettamente quel bombardamento che scatenò una rivolta tribale durata settimane e portò a un congelamento durato quasi un anno degli attacchi dei droni. La sommossa danneggiò la delicata politica americana nell'area.
    L'Algeria ha appena negato a Francia e Stati Uniti il permesso di usare i droni contro le basi di al Qaida nel Maghreb, tagliando le gambe in partenza alla campagna: gli aerei senza pilota non sarebbero partiti dall'Algeria, ma dalla vicina Libia, dove il nuovo governo di Tripoli ha trovato un accordo con Washington e Parigi.
    La falla più grande s'è evidentemente aperta in Pakistan. All'inizio di dicembre il governo ha costretto gli americani a evacuare la base segreta di Shamsi, nel Balochistan, da dove i droni decollavano per l'incessante offensiva contro i terroristi di al Qaida che infestano le aree tribali al confine con l'Afghanistan, una regione inaccessibile persino alle truppe pachistane, perché è sotto la tutela dei talebani pachistani. Dopo la strage di Shalala del 26 novembre scorso, in cui gli elicotteri Nato hanno ucciso per errore 24 soldati del Pakistan sul confine, i droni non hanno più il tacito permesso di sorvolo – e devono partire dalle basi in Afghanistan. In questo momento i voli sono congelati, non era mai successo per un intervallo così lungo. Gli americani – secondo il New York Times – hanno negoziato un accordo avaro di collaborazione nel caso ci fosse la possibilità di colpire terroristi di altissimo profilo, ma la campagna che doveva smantellare al Qaida è finita. “Il periodo post 11 settembre s'è chiuso”, commenta una delle fonti del Nyt. Fuori dalla pista di Shamsi non ci ha fatto caso nessuno.

    La “guerra segreta” ha mostrato i suoi limiti anche in Iran. Gli ingegneri di Teheran sono riusciti a ingannare la cosiddetta “Bestia di Kandahar”, uno dei modelli di drone più evoluto, invisibile ai radar e capace di analizzare l'aria alla ricerca di tracce chimiche o radioattive. Gli hanno fatto credere di essere sulla via del ritorno verso l'Afghanistan e l'hanno fatto atterrare su una loro pista. Sulla Bestia faceva perno la campagna di sorveglianza americana sul programma atomico iraniano, perché i satelliti non bastano. Dal giorno della cattura, dice il Pentagono, i voli clandestini sull'Iran sono fermi.

    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)