Pirandelli & Piritolli

Pietrangelo Buttafuoco

I piritolli – che sono dei Pierini profumati – alzano il ditino e fanno la letteratura. Se la fanno tutti all’estero, a New York preferibilmente, vanno tutti a Zuccotti Park il sabato sera, vestono alla Saviano, si fanno la foto con Philip Roth e non ci tornano in questo Spielberg della letteratura qual è l’Italia (con tante scuse per l’apostrofo qui mancante) perché anche se non c’è più Berlusconi, c’è pur sempre tutta quell’umanità caimana che non consente loro di prendere un alloro.

    I piritolli – che sono dei Pierini profumati – alzano il ditino e fanno la letteratura. Se la fanno tutti all’estero, a New York preferibilmente, vanno tutti a Zuccotti Park il sabato sera, vestono alla Saviano, si fanno la foto con Philip Roth e non ci tornano in questo Spielberg della letteratura qual è l’Italia (con tante scuse per l’apostrofo qui mancante) perché anche se non c’è più Berlusconi, c’è pur sempre tutta quell’umanità caimana che non consente loro di prendere un alloro. In questa patria ingrata, infatti, si vendono solo i libri di Francesco D’Avenia che fa rete sì, ma con l’Opus Dei.

    I piritolli – che sono pur sempre pezzi di cuore – telefonano a casa nel frattempo che mammà sta facendo la chiama per la tombolata e giusto a lei che se ne sta coi ceci secchi in mano, finalmente compresi, dicono: “Beata te che te ne stai a casa, a far la tombola, con tutti i nostri cari. E io, invece, sono buttato qui: all’America!”. Il piritollo – il cui invitto faro è il geniale Saviano che se ne sta all’America – ovviamente se la gode e si eccita di sé e dei suoi simili. E’ con loro che scatena il circuito autoreferenziale. Quello con cui, tra piritolli, si autoalimentano nel giro delle citazioni, delle interviste e dei cocktail. E poiché solo in Italia gli uccelli non volano, ma scappano, il piritollo che se ne scappa, non vola, piuttosto galleggia beato nell’apnea del successo. Altro non sono i piritolli, che palafitticoli, ovvio: stanno un piede nell’acqua del mondo liquido della comunicazione, l’altro sulla terraferma della carriera e capita che diventino tagliagarretti tra di loro, intriganti, rivali, babbaloni eccitati dall’idea di darsi un tono internazionale e però gonfiati dalla compiacente retorica nazionale. I danni prodotti dalle terze pagine dei giornali, dalla Repubblica al Corriere della Sera, noi stessi del Foglio, fino alla Stampa, sono inenarrabili. Sono state assecondate certe scimmiette di società come neanche nello zoo di Caterina di Russia ma sarà che solo in Italia – dove neppure gli uccelli volano ma, proprio, scappano – amiamo farci mettere in riga da chi comanda e parla in un’altra lingua o, peggio che mai, fa caricatura di sé stesso costumando in altri costumi e, peggio che mai, in altro provincialismo.

    E siccome sono solo piritolli, i piritolli, sono per fortuna innocui. Non hanno quella torva malinconia degli Oreste Scalzone, non sono della risma di un Cesare Battisti, il terrorista riparato in Brasile, non sono esuli, non sono latitanti, fanno – insomma – comitiva e vestono, parlano e mangiano tutti a uno stesso modo, cercando – ad ogni modo – un loro perché. Sono i fuoriusciti nel bel mondo, “stanno all’America”, ma con il ticket saldato presso il banco MilleMiglia Alitalia. Non senza farsi dare un appartamento a sbafo.

    Il piritollo – gagà del pensiero, indignato con la convinzione che ormai essere antagonista serve a ottenere vantaggi – è solo un esecutore rispetto ai creatori di tic, di stile e di divismo. E deve esserci qualcosa nell’acqua che vanno a bere da quelle parti se ogni volta che si fanno vivi – via Twitter, per carità, o via Skipe – somigliano sempre di più a una caricatura di vita cosmopolita che esiste solo nella loro testa.

    Il piritollo – irresistibile figura del paesaggio borghese – indossa camicie bianche di Brooks Brothers  e beve Cosmopolitan, manco a dirlo. E’ il drink di “Sex and the City” che è a base di vodka e succo di granatina. Ed è anche in virtù del bicchierino che sublimano l’arte del tradurre. Non certo i classici o le paginate che saccheggiano dai siti on line per spacciarli poi in Italia come farina propria. Ma le vie della commedia sono infinite, dopo aver esaurito il bagaglio popolare – da Renato Carosone a Renzo Arbore (“Tu vuò fa’ l’americano”), dal “Fumo di Londra” di Alberto Sordi al “Pane e cioccolata” di Nino Manfredi (farsi biondi in Svizzera) – dopo aver fatto i conti con la vera letteratura – da Alberto Arbasino al Piero Chiara del “Cappotto di Astrakan” con l’abbaglio di Parigi – sono gli intellettuali, oggi, a farsi carico dell’obbligo comico della macchietta.

    Il piritollo ha la consapevolezza di essere fuori sincrono con l’allegro vociare del tinello di casa e si sente a proprio agio solo nell’affollarsi tra i vanitosi “prominenti”, quelli che non riescono a far sapere agli americani cosa sia l’Italia ma, allo stesso tempo, raccontano oggi un’America, così come ieri una Parigi, una Londra, una Lisbona (come nello smagliante esempio di Antonio Tabucchi) che fa gruppetto a sé stante, anzi, vetrina, fiera delle vanità e se solo il piritollo sapesse decifrare i segnali del futuro dovrebbe almeno leggersi Vanity Fair, giusto l’edizione italiana dove Kilye Minogue dice a Luca Bianchini che è Shanghai l’unico luogo in cui in questo momento tutto sembra tempestivo e possibile.

    E’ quasi un autoeducarsi e rivaleggiare con il proprio marchio d’origine la ubris del piritollo per cui se ci si deve fare una foto promozionale – come Federico Rampini, per il suo libro – si dismette la facies paesana, fosse pure una cravatta Facis e un abito Lebole, e si assume la posa di chi si porta il mondo in tasca. Rampini, infatti, con tutto l’Oriente che s’è lasciato alle spalle, veste come un guru, s’identifica con ciò che si tiene in testa e se l’imprinting può averglielo dato Tiziano Terzani, avvolto sempre di più (buonanima) nelle tuniche tardo-tibetane, i piritolli sono tali piritolli da non aver saputo cercarsi un vero padre nobile, quel Ruggero Orlando in gessato whisky & soda, sempre brillo al punto di costringere i cameramen a dei virtuosismi di ripresa in diagonale per poi farlo risultare in asse.

    Un grandissimo, Orlando, depositario della cronaca da New York, un mito vero che sfuggì alla fase estrema, patetica, quella di un Sandro Paternostro, perso nell’amorazzo con una maggiorata per farsi maschera, portandosi avanti in scena senza più corrispondere agli stilemi dell’affettato, del simpatico o del carino. Niente a che vedere con quell’Orlando che – di necessità necessario, eccessivo, bofonchiando – gracidando il suo inconfondibile “qui da New York”, faceva urlare di ebbrezza panica Carmelo Bene, altro che Roberto Benigni con Sofia Loren agli Oscar.

    Il piritollo, in quanto pirito, ossia peto, dunque bisognoso di sucapiriti, ovvero il pubblico di chi si mette dietro di lui aspirandone gli effluvi mentali, è depositario di verità. A distanza di tutto il Sessantotto fa sorridere quel Gianni Minà transitato a Cuba. Forse quella del cronista all’Avana era già una cosa un po’ diversa, un ricovero della militanza, mera archeologia rispetto alle retrovie risorgimentali di questi evasi da notte la cui unica aspirazione è di farsi ergastolani restando nel giro giusto.
    Ecco i piritolli, incontrano appunto Roth e pensano di essere diventati Roth, fanno una passeggiata a Park Avenue e nell’incrociare Woody Allen e Martin Scorsese surrogano i film che non sanno fare, i libri che non sanno scrivere, la letteratura che non sanno vivere. Così come quando alzano il gomito e credono di essere diventati Hemingway. Ma questa del tasso d’alcol è storia sempre gettonata. Non perché la fissazione sia peggio della malattia ma possiamo sorvolare sul mitico Twitter di Gianni Riotta dedicato a Chris Hitchens, ricordando quella sera, dopo aver bevuto, l’appoggiarsi sulla spalla, sulla di lui spalla di Riotta medesimo?

    Il piritollo non delude mai in tema di piritollaggine, in realtà sono mediocrità, certo, nessuno di loro è Giuseppe Prezzolini, non sono figure comparabili con Italo Calvino che tentò la strada di Parigi ma neppure hanno la praticità di un Furio Colombo che lo seppe fare il mestiere suo restando “all’America”.
    Tutta quella cialtroneria del giornalismo italiano che si compendia nel far l’occhietto come per dire, “Voi non lo sapete ma sono stato in America” è solo un prolungamento del provincialismo. Anche i cantanti lo fanno di andare in America a cercare maggior gloria e miglior gettone. Lo ha fatto Raffaella Carrà. Pupo è un mito nel globo. E così anche Cristiano Malgioglio. Lo fanno con rara professionalità, senza la presunzione del piritollo.

    Saper vestire di parole il mondo è cosa ben diversa dal vivere all’estero e pensare di essere titolato a parlare, forte di quella specie di cattedra che è la condizione del fuoriuscito e se proprio si deve fare un’indagine positivista, ebbene, anche in Inghilterra deve esserci qualcosa nell’aria o nell’acqua che bevono gli italiani quando vanno lì se poi, tornando, l’effetto è proprio strano: o si vestono da cretini come Antonio Caprarica, il giornalista Rai, o fanno spirito di patata, come Beppe Severgnini con la sua mascella snodata.

    Il piritollo traduce se stesso e pratica l’imitazione. Quella delle scimmie sapienti, quella dei cretini cognitivi che mettono il contrappunto al mondo cercando di farsi largo tra i “literati” di New York. Siccome non ci manca ignoranza ce lo siamo letti il saggio di Edgar Allan Poe (edito dallo Iulm, a cura di Gabriele Miccichè e Giovanni Puglisi), e la parola “literati”, derivata da un inglese formale, tanto vicina al latino da risultare bru bru, è perfetta per i fuoriusciti.

    Literati e piritolli, dunque. Si prenda ad esempio il film “Midnight in Paris”, ecco: solo il protagonista si meraviglia del miracolo di trovarsi in compagnia di Hemingway, Picasso, Dalí e Buñuel. E avrebbe certamente voluto farsi fotografare insieme a loro per poi twittare lo scatto: “A Parigi, con Francis e Zelda”. Ma quei grandi, non essendo piritolli, non sapevano di star costruendo la cultura degli anni Venti, non riconoscevano il miracolo di trovarsi tutti insieme nello stesso luogo e tempo. Nel momento in cui un gruppo di traino, un’avanguardia, capisce di essere stata storicizzata ha compiuto la propria parabola. Diventa triste. Diventa nostalgia. Le foto che i piritolli scattano con le star internazionali nelle loro mezzanotti a New York non replicano il canovaccio di Woody Allen, tuttalpiù producono l’effetto di una gita al museo delle cere.

    Al Barney Greengrass se si ha fortuna e se si è accompagnati da Antonio Monda che ormai è in grado di mobilitare gite organizzate, si può incontrare Roth, in un attico Robert De Niro e, fino a poco tempo fa, prima del suicidio, anche David Foster Wallace. Twittare la propria foto con una di queste statue del museo delle cere conferma l’appartenenza alla cosca vincente, quella della parte giusta. E poiché il colpaccio l’ha messo a segno Roberto Saviano twittandosi in compagnia di Roth, con fare tipicamente “literato” (non osiamo dire piritollo), i due – di cui non si capisce chi è la statua, chi il parvenu – hanno dedicato lo scatto al proprio specchio, al gioco narciso del ritrovarsi chiusi nella bolla dell’ombelico, perché usare quella parola in particolare, la parola “mafia”, non ha certo alzato lo scatto allo scatto mentale, piuttosto alla genericità folkloristica. Di qualunque formato sia la pasta criminale – sia linguine, spaghetti, ditali, tagliolini, anellini – hanno detto mafia come se avessero detto “Maccarroni”.

    E’ il solito sugo di carne italo-americano costituito di pomodoro con dentro ogni parte possibile di animale e con ogni bestia cucinabile e non necessariamente commestibile. Una pappa da gustare nel brunch, da Isabella’s (nome sminchiato con gusto piritollo), dietro il museo di Scienze naturali, da ingoiare come un pastone per maiali, così come una mafia generica, buttata dentro senza identità, senza diversità, senza senso da far inorridire nella messa in posa Falcone e Borsellino, Sciascia e Bufalino. E sono statue di solido marmo queste, indigeste forse per questi dreamer attardati e nostalgici solo del proprio Ego. Un Ego literato e piritollo, va da sé.

    Piritolli a parte, il caso Saviano, specie nella condizione nuova di fuoriuscito, è un fantastico caso di isterismo pubblico mantenuto da una formidabile organizzazione di buona stampa. Ha solo un precedente nella memoria contemporanea ed è quello di Arturo Toscanini. “L’ammirazione per Toscanini”, scriveva Giuseppe Prezzolini, “va troppo al di là dei limiti di sopportazione. La protesta sorge spontaneamente”. E se Saviano piritollo non è, anzi, ci campa coi piritolli, Toscanini piritollo lo fu ma ebbe il buon gusto di non scrivere nemmeno una nota di musica propria. “Avrebbe fatto la figura”, citiamo ancora Prezzolini, “di certi eccellenti interpreti che si misero a scrivere e ripetere male quello che avevano sentito da altri creatori” Avrebbe, insomma, fatto un sugo di carne rimasuglia.

    Detto ciò, salvate Pirandello. In tutto questo twittare, al famoso scatto con didascalia apostrofata (qual’è, un errore blu) Saviano s’è giustificato dicendo che l’errore era poca cosa, una pirandellata più che una piritollata perché, appunto, l’autore di “Uno, nessuno e centomila” scriveva così. Riotta per soccorrerlo l’ha danneggiato, aveva capito trattarsi di un Saviano doc proprio per via dell’errore, “altrimenti l’ufficio stampa glielo avrebbe corretto”.

    Detto questo salvate anche Saviano. E siccome al genio si perdona il difetto, siccome perfino Albert Einstein dimenticava di indossare le calze nel frattempo che scopriva la relatività, ogni errore diventa una preziosità, un simpatico incedere nei solchi tracciati dalla grammatica che è comunque un pentagramma, un tracciato musicale dove mettere a dimora la parola, l’invenzione e il genio.

    Ma detto ciò, salvate Pirandello, salvatelo da Saviano e da Riotta che non può rischiare di finire nella spazzatura del luogo comune dopo aver ecceduto col suo destino: aver fatta grande la letteratura e diventare poi un aggettivo. Tutto quel cercare il paradigma pirandelliano nelle astruserie quando lui, l’autore delle “Maschere nude”, era chiaro e semplice come un colpo di zappa sferrato sulla zolla.

    E detto per detto, salvate Pirandello dai piritolli. Lo strafalcione, capita a tutti, ma non se ne fa pirito, piuttosto si chiede venia perché una botola dove cadere attende tutti, anche Stendhal copiava mentre faceva la “Certosa di Parma” ma se si fosse fermato al plagio e non al genio sarebbe stato un Garimberti. Sarebbe stato solo un piritollo, con tanta buona stampa. E tanti tweet.

    • Pietrangelo Buttafuoco
    • Nato a Catania – originario di Leonforte e di Nissoria – è di Agira. Scrive per il Foglio.