Chiose attorno a ottime proposte (non austere) per rilanciare la crescita

Ernesto Felli

L’immobilismo della politica economica italiana costringe da un pezzo i commentatori economici a infarcire le loro osservazioni di reiterazioni e ovvietà. Da questo punto di vista, si tratta di una consolidata tradizione di “prediche inutili”, che ha come maestro Luigi Einaudi (1956), appunto. Poiché chi scrive appartiene alla categoria e non è esente dall’inevitabile ripetitività, astenersi dal commentare le prediche altrui e limitarsi alle proprie sarebbe salutare. Tuttavia, come nell’alpinismo classico, ci sono ripetizioni ma anche “prime”, più o meno solitarie.

    L’immobilismo della politica economica italiana costringe da un pezzo i commentatori economici a infarcire le loro osservazioni di reiterazioni e ovvietà. Da questo punto di vista, si tratta di una consolidata tradizione di “prediche inutili”, che ha come maestro Luigi Einaudi (1956), appunto. Poiché chi scrive appartiene alla categoria e non è esente dall’inevitabile ripetitività, astenersi dal commentare le prediche altrui e limitarsi alle proprie sarebbe salutare. Tuttavia, come nell’alpinismo classico, ci sono ripetizioni ma anche “prime”, più o meno solitarie. Ad esempio, l’idea di tagliare i sussidi alle imprese, ripetuta ieri sul Corriere della Sera da Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, è un pallino di chi scrive. E’ stata lanciata la prima volta su questo giornale nel dicembre 2004, con le seguenti parole: “L’eliminazione dei contributi alle imprese, distorsivi di una corretta allocazione dei capitali, sarebbe benvenuta non solo per problemi di bilancio”.

    Nel corso di questi anni, insieme a Giovanni Tria, l’idea è stata rilanciata con una frequenza persino più elevata delle oscillazioni del ciclo economico dalla colonna del “Diario di due economisti”. In quel lontano articolo, il taglio dei sussidi alle imprese era visto come uno dei mezzi per rendere sostenibile nel breve periodo il taglio delle tasse. Non il principale, che invece avrebbe dovuto essere l’eliminazione graduale delle pensioni di anzianità. Ciò che è sorprendente è che, a distanza di tanti anni, le pensioni di anzianità siano state finalmente superate con la manovra del nuovo governo, mentre i sussidi alle imprese graniticamente resistono. Nel 2004 questi sussidi, chiamati pudicamente “contributi alla produzione” nel conto economico consolidato delle amministrazioni pubbliche, ammontavano a poco meno di 15 miliardi di euro. Nel 2011 dovrebbero aggirarsi tra i 18 e i 20 miliardi, con un incremento del 20 per cento. In realtà, si tratta grosso modo della stessa percentuale di pil (1,1 per cento).

    Tuttavia, ciò che è rimarchevole è proprio questa invarianza, visto che l’anno passato il complesso della spesa corrente al netto degli interessi è diminuita in rapporto al pil, e alcune voci non proprio marginali come i redditi da lavoro dipendente sono state ridotte persino in valore assoluto. Insomma, i sussidi alle imprese sono un vero tabù, una “variabile indipendente” più degli stessi salari.

    Alesina e Giavazzi propongono un patto in base al quale le imprese rinunciano a questi sussidi in cambio di sgravi delle “tasse sul lavoro”. Nel patto ci dovrebbe essere anche lo spazio per un “contratto unico”, che contrasti il dualismo del mercato del lavoro, e per un atteggiamento cooperativo da parte del sindacato, che aumenti la flessibilità nella gestione del lavoro. Si tratta di una proposta come altre e, anche se i termini dello scambio sono un po’ fumosi, rientra tra le concepibili politiche pro crescita di cui il paese ha urgente bisogno. Se tutti i sussidi alle imprese, sia quelli correnti sia quelli in conto capitale, fossero eliminati, le risorse risparmiate potrebbero effettivamente finanziare sostanziosi tagli delle tasse (circa due punti percentuali di pil), senza effetti sul bilancio pubblico. Ma non si può fare la riforma del fisco e del mercato del lavoro, il tutto all’insegna dell’equità, con il taglio dei sussidi alle imprese. Intanto, l’esatto ammontare di tali sussidi è controverso.

    Quelli che possono essere tagliati in funzione pro crescita e senza bisogno d’alcun patto, perché sono trasferimenti di modesta entità distribuiti a pioggia a tutti i settori industriali, sono secondo le mie stime meno di 10 miliardi. Poi, non vedo il motivo di vincolare una politica pro crescita che incida sul prelievo fiscale a questa retorica del patto, dello scambio tra le parti sociali. Ma forse il motivo delle mie perplessità è più profondo. Quando Alesina e Giavazzi parlano di tagliare le tasse sul lavoro pensano ai contributi sociali, io penso alle imposte sui redditi personali. E’ questa strada alternativa che, semmai, avrebbe bisogno di un patto. Di un patto antievasione: la riduzione delle tasse in cambio dell’aumento della “compliance”, e tolleranza zero per chi non lo rispetta. Ma il “patto” non riguarderebbe le solite “parti sociali”, che poi vuol dire sindacati e organizzazioni degli imprenditori, ma tutti i cittadini. Se, come tutti concordano, le aspettative e la fiducia sono i fattori essenziali su cui incidere in questa difficile situazione, la strada maestra dovrebbe essere questa.