Compleanno minimo
Prima la morale, poi la storia. La morale, tradotta dal gergo lombardo da bar: che gli scemi stiano a casa loro, ovvero non scommettere mai quando sei troppo sicuro di vincere. La storia: quando si seppe che Umberto (Eco, secondo la familiarità gaglioffa del bar boccette dopo mezzanotte) stava per pubblicare un romanzo, fu facile scommettere che sarebbe stato non un fallimento, ma un mezzo fallimento, un episodio ininfluente nella sua prodigiosa carriera di saggista.
Prima la morale, poi la storia. La morale, tradotta dal gergo lombardo da bar: che gli scemi stiano a casa loro, ovvero non scommettere mai quando sei troppo sicuro di vincere. La storia: quando si seppe che Umberto (Eco, secondo la familiarità gaglioffa del bar boccette dopo mezzanotte) stava per pubblicare un romanzo, fu facile scommettere che sarebbe stato non un fallimento, ma un mezzo fallimento, un episodio ininfluente nella sua prodigiosa carriera di saggista. Da che letteratura era letteratura, era sempre stato così: quando un critico letterario o un filosofo si era provato nell’arte del racconto ne erano uscite prove scialbe, che il pubblico aveva ignorato e che la critica aveva lodato cortesemente per il rispetto dovuto alla statura intellettuale dell’esordiente narratore. Che Umberto Eco, non critico né storico della letteratura secondo il metro convenzionale, ma semiologo insigne, sapesse tutto del mestiere e delle furbizie e dei trucchi del narratore, soprattutto del narratore di grande successo popolare, nessuno aveva dubbi. Chi, anche se non lo aveva mai letto, non era pronto a evocare da “Diario minimo” (1963) la figura di Franti del libro “Cuore” non come mascalzone giovanile, ma come anarchico in erba? Chi non sapeva, per averlo sentito dire al bar, che Umberto Eco era in grado di compilare, solo attingendo dalla sua memoria e dalla biblioteca di casa un’esauriente e divertente antologia della letteratura popolare come l’Almanacco Bompiani del 1972, intitolato appunto “Cent’anni dopo. Il ritorno dell’intreccio”?
Soprattutto coloro che avevano seguito i suoi studi di teoria della narratività, da “Opera aperta” (1962) alla più compiuta sistemazione della collaborazione tra autore e lettore nella costituzione del testo, pubblicata solo l’anno prima (“Lector in fabula”, 1979), non potevano che fare previsioni meste sul risultato di un romanzo ordito da un semiologo. Era sempre andata così: quella collaborazione tra autore (ex destinatore) e lettore (ex destinatario), analizzata in modo così convincente dal professor Eco, per essere eccellente non poteva che realizzarsi all’insaputa dei due attori. L’opera di chi era in grado di osservarsi dall’alto, sia come scrittore sia come lettore ideale, non poteva che dimostrarsi artificiosa.
Per gli “scemi minga bon de sta a cà soa”, gli scemi che credevano all’onnipotenza dell’ispirazione, un intellettuale che, tra Tommaso e Agostino, aveva optato per l’estetica della Scolastica; un fondatore della semiologia, implacabile con i tranelli del sentimentalismo (non aveva detto che bisognava avere il cuore di pietra per non scoppiare a ridere, leggendo le disgrazie di “Love Story”, 1970?), non poteva avere scritto al massimo che un romanzo saggio, secondo una linea che scendeva dagli illuministi. Non aveva inventato nulla, tra l’altro. I cultori di gialli conoscevano l’Aristotele investigatore di Margaret Doody (1978) e la lunga serie delle inchieste del giudice Dee, ispirate ad antichi romanzi cinesi, già polizieschi nella concezione. Come potevano sospettare che un romanzo intitolato “Il nome della rosa”, ambientato in un monastero medievale, giustificato dalla scomparsa di una parte della “Poetica” di Aristotele, abbondantemente corredato di passi in latino, bisognoso secondo l’autore stesso di un libretto di istruzioni per la lettura, sarebbe diventato un grande best seller e long seller internazionale, a sua volta capostipite e modello insuperato di un genere?
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