Giovani precari e operai-boutique stanno già scardinando i sindacati

Stefano Cingolani

La Cgil ieri ha preso di petto il governo Monti: “Niente bluff. Se vuole un accordo parli chiaro”. Questa volta il messaggio è stato addirittura “cinguettato”, in omaggio alla modernità. Tecnologie a parte, l'ultima danza attorno al totem dell'articolo 18 riapre un dilemma non nuovo e mai risolto: il sindacato chi rappresenta? I lavoratori garantiti e i pensionati, si diceva un tempo. Davvero?

    La Cgil ieri ha preso di petto il governo Monti: “Niente bluff. Se vuole un accordo parli chiaro”. Questa volta il messaggio è stato addirittura “cinguettato”, in omaggio alla modernità. Tecnologie a parte, l’ultima danza attorno al totem dell’articolo 18 riapre un dilemma non nuovo e mai risolto: il sindacato chi rappresenta? I lavoratori garantiti e i pensionati, si diceva un tempo. Davvero? Forse le pensioni d’anzianità erano indifendibili, certo non sono state difese. Quanto alla classe operaia che doveva andare in paradiso, è una minoranza chiusa in poche isole assediate. La linea di montaggio si sta estinguendo, in pratica è rimasta solo nell’auto e negli elettrodomestici. Con essa tramonta l’operaio comune, quello inquadrato in terza categoria, che sa fare tutto e niente. Certo, resta sempre Faussone, il personaggio della “Chiave a stella” di Primo Levi, archetipo dello specialista giramondo o di quella che i marxisti chiamavano l’aristocrazia operaia. Tuttavia, è una figura professionale limitata.

    Gli operai nell’Italia del Duemila sono diffusi nel territorio, in piccole, spesso microaziende, vere e proprie fabbriche boutique, frutto di una contaminazione tra i vecchi artigiani e i nuovi tecnici in camice bianco delle imprese farmaceutiche o quelli che, con tuta da astronauta, manipolano i chip. Per avere un’immagine aggiornata bisogna andare alla Technogym, alla Brembo, alla Sgs di Agrate Brianza. Oppure nei distretti delle scarpe, a Civitanova Marche o sulla riviera del Brenta. Non c’è il bengodi, ma si vede un diverso rapporto con il lavoro. La catena di montaggio o il suo succedaneo si trovano altrove, nei servizi di massa, nella logistica, tra i magazzinieri delle aziende di trasporto. Il lavoratore manuale, tutto sudore e muscoli, resta soprattutto nell’edilizia, per lo più è romeno o dell’est europeo. Esistono ancora i braccianti, tuttavia anch’essi non hanno niente a che fare con quelli di Giuseppe Di Vittorio. Sul Tavoliere bruciato dal sole, nella pianura Pontina, nel salernitano o nella piana di Catania ai piedi dell’Etna, ci sono da una parte i raccoglitori stagionali, soprattutto africani, dall’altra i salariati che guidano le macchine o sono specializzati in operazioni delicate dentro serre che sembrano fabbriche.

    Questo lavoratore di tipo nuovo non sente il bisogno di un sindacato antagonista, come spiegano le analisi di Mediobanca sul quarto capitalismo. Vuol essere rappresentato da un sindacato di mestiere. Chiede garanzie e diritti, ma sa che il modo migliore è farsi valere nel rapporto quotidiano. L’obiettivo finale è mettersi in proprio perché i suoi valori non sono così lontani da quelli del datore di lavoro. Una volta salvato il posto, è pronto a faticare di più con orari flessibili. A un solo patto: una paga migliore.
    L’Istat racconta che la recessione ha depresso salari e stipendi. Le retribuzioni contrattuali mostrano un ventaglio che va (lordo tabellare annuo) dai 15 mila per la qualifica più bassa ai 26 mila per i quadri. La busta paga effettiva comprende straordinari, festivi, notturno. Quando la produzione tira, è pratica corrente l’aumento fuori busta, per sfuggire alle forbici affilate e spietate del fisco. Nei tempi buoni, rappresenta anche il 50 per cento in più.

    Dunque, una stima realistica arriva a 30 mila euro all’anno, secondo il Censis. Con la crisi proprio la parte variabile è crollata, mentre la fissa si è ridotta per i lavoratori finiti nel limbo della cassa integrazione. In ogni caso, i salari italiani sono inferiori a quelli tedeschi. E’ uno squilibrio che alla lunga non regge, non c’è solo il debito pubblico a fare la differenza. Un metalmeccanico italiano costa in media 22 euro l’ora, in Germania supera i 31 euro (i francesi sono a 26,7, gli inglesi a 23,3). E da noi fisco e contributi pesano di più sia sugli imprenditori sia sui dipendenti. Quanto alla produttività, nelle aziende medie che esportano è grosso modo uguale, mentre cala nei grandi gruppi e nei servizi. Se il sindacato vuol tornare a contare davvero, al di là dei riti concertatori, dovrebbe ripartire proprio da qui.
    Stefano Cingolani