Nello scandalo di Wulff c'è il senso tutto tedesco per il baratro
“La Germania con la sua smania ossessiva per il lavoro ha scacciato tutti gli altri paesi dai loro paradisi. I vicini a est non vogliono altro che sognare, meditare, palpitare, pregare e di tanto in tanto farsi un grappino. Gli inglesi invece si dedicano al commercio giusto per poter smettere di lavorare il venerdì e dedicarsi poi allo sport.
“La Germania con la sua smania ossessiva per il lavoro ha scacciato tutti gli altri paesi dai loro paradisi. I vicini a est non vogliono altro che sognare, meditare, palpitare, pregare e di tanto in tanto farsi un grappino. Gli inglesi invece si dedicano al commercio giusto per poter smettere di lavorare il venerdì e dedicarsi poi allo sport. Infine ci sono i francesi, che le loro cospicue disponibilità finanziarie intendono usarle, vista la poca propensione a figliare, soprattutto per godersi lusso e ozio, e andare poi, dopo venti, trent’anni di lavoro, in pensione”.
Il sociologo Max Schleier tenne a Monaco nel 1916 una conferenza in cui parlò in questo modo degli europei, che non erano ancora colleghi – anzi – ma erano uguali a oggi. Allora, come oggi, la domanda era: perché la Germania è diventata così antipatica, e non soltanto per via della guerra? Le accuse erano arrivate già prima. Secondo Schleier, all’origine di questa animosità c’era la “Arbeitswut” teutonica, parola composta da Arbeit, lavoro, e Wut, che significa ira ma anche smania. Quella smania ossessiva di operosità aveva dato già allora una sensazione di soffocamento ai vicini. I tempi sono cambiati, e i tedeschi non danno più l’idea di un esercito di operose formiche. Ma i dati attuali sull’occupazione – fantastici – li rendono ancora una volta i più virtuosi, e quindi odiosi: Berlino ha annunciato il dato più basso della disoccupazione dall’unificazione (anche se il capo della federazione nazionale dei sindacati, Michael Sommer, si è affrettato a sottolineare che di questi 40 e passa milioni di occupati, più di 8 milioni ricevono un salario insufficiente per vivere in modo decoroso).
La “Arbeitswut” è un tratto tipicamente tedesco, ma da dove arriva? A spiegarlo ci prova un libro appena uscito. Un volume che ha richiesto parecchio lavoro, dunque difficile pensare a un instant book finalizzato ad aiutare il resto di un’Europa sempre più perplessa e a volte irritata dai diktat di Angela Merkel, a comprendere “Die deutsche Seele”, l’animo tedesco (ed. Knaus). Autori di questo manuale sono gli scrittori Thea Dorn e Richard Wagner (il cognome di quest’ultimo lascia supporre una parentela con il compositore, che scandagliò l’animo tedesco con “Tannhäuser”, “L’Anello del Nibelungo”, “Tristano e Isotta”, “Parsifal”, ma si tratta soltanto di un’omonimia). Dorn e Wagner hanno reso più facile la consultazione scrivendo un dizionario con le parole chiave ordinate poi alfabeticamente. Si parte con l’“Abendbrot”, la cena, il pasto più frugale della giornata; si finisce con “Zerrissenheit”, la lacerazione dell’anima, ma anche del paese. Tra questi due estremi ci sono l“Abgrund”, l’abisso, la “German Angst”, la paura tedesca, la “Kulturnation”, la nazione della cultura, la “Schadenfreude”, il piacere che si prova se a qualcuno gli va storta qualcosa, la “Sehnsucht”, lo struggimento per un luogo o una persona, ma anche la più prosaica “Wurst”, il salame, e il “Kitsch”.
E l’Arbeitswut? Gli autori rimandano a Lutero, che gioca un ruolo rilevante in molti tratti dell’animo tedesco. Lutero insegnava che: “La vita non è riposo, ma trasformazione del buono in meglio”; e ancora “Solo chi lavora non ha tempo per peccare”. Allora l’età media non era certo quella dei nostri tempi, eppure nel salmo 90 della sua Bibbia riformata, il monaco si immaginava una vita lunga 70 anni, e se andava bene addirittura 80 anni. Una vita che, soltanto se frutto “di lavoro e fatica”, poteva considerarsi “squisita”.
Forse anche allora non tutti concordavano, certo è che a guardare i pensionati tedeschi di oggi si capisce che sanno molto bene come impiegare (per esempio a Palma di Maiorca) in modo altrettanto “squisito” il loro tempo. La riforma degli ammortizzatori sociali voluta da Gerhard Schröder, invece, mirava proprio a riaccendere tra gli allora oltre 5 milioni di disoccupati almeno un certo fervore per l’operosità, anziché affidarsi esclusivamente alla generosità delle casse dello stato. Lutero mette le basi dell’etica del lavoro, ma soprattutto, ed è questa la vera rivoluzione, secondo gli autori, usa nella sua Bibbia per il lavoro un termine che fino ad allora in questo contesto non era mai apparso. “Beruf” sta per mestiere, ma deriva da “Berufung” cioè vocazione. Dio, così spiega Lutero, non chiede a tutto il suo gregge di seguire il suo esempio, ognuno invece è tenuto ad accettare e prodigarsi per il “Beruf” che gli è stato assegnato. E se il Beruf diventa una specie di Berufung, vocazione, allora è forse più facile dedicarvisi anima e corpo. Anche perché, solo lavorando, questo il messaggio del Super Io teutonico, ci si può godere il riposo serale, il “Feierabend”, letteralmente “sera di festa”. Altro termine indicativo dell’animo tedesco.
Il concetto di “festa” va a sua volta declinato con una certa accuratezza. Non è che uno, finito il sgobbare, si dà alla pazza gioia, va al bowling o si scatena sulla pista da ballo. Ancora nel 1993, l’allora cancelliere Helmut Kohl, di fronte alla voglia dei suoi concittadini di essere un po’ meno luterani e un po’ più mediterranei, se ne uscì con una frase diventata famosa: “Una nazione industrializzata che vuole continuare ad avere successo, cioè un futuro, non può trasformarsi in un parco di divertimento collettivo”. Insomma anche Kohl, per quanto cattolico, faceva appello all’etica del lavoro protestante. A dire il vero, un po’ era anche costretto a richiamare i suoi concittadini all’ordine. I paesaggi in fiore che lui stesso aveva promesso grazie all’unificazione faticavano a sbocciare.
Ma c’è modo e modo di usare il tempo libero. Prendiamo la risposta che il filosofo Adorno diede una volta alla domanda su quali fossero i suoi hobby: “Non ho hobby. Quello di cui mi occupo quando non lavoro lo considero talmente serio che la sola idea che si tratti di un ‘hobby’ con il quale ammazzare il tempo mi pare scioccante”. Il “Feierabend” dunque non sarebbe secondo Adorno, ma nemmeno secondo Hannah Arendt (basta rileggere il suo “Vita activa”), fatto per stravaccarsi davanti al televisore. Se già la città non permette momenti di raccoglimento come quelli riprodotti da Ludwig Richter nel quadro “Preghiera della sera”, nemmeno giustifica vizio e dissolutezza, come già negli anni Trenta offriva la Berlino della perdizione.
Il riposo è fatto per meditare, per acculturarsi. Gli autori del manuale sull’animo tedesco dedicano un capitolo alle parole “Ernst” (serio) e “Unterhaltung” (intrattenimento) e spiegano che ancora oggi le relazioni si basano non ultimo sul tipo di musica ascoltata, classica o leggera, o sul tipo di libri letti, anche qui impegnativi o d’intrattenimento. Non è la Germania il paese che si è autonominato “Kulturnation”? Il termine risale all’epoca della Rivoluzione francese, quando i regnanti tedeschi, minacciati da Napoleone, non avevano però nessun concetto di stato da invocare per incitare i sudditi a difendere le terre tedesche. “Cosa bisognava difendere?” annotano gli autori. “La Prussia, con la sua ossessione per l’ordine o il giuseppismo asburgico?”. Si decise di mettere da parte la politica e usare la cultura tedesca come collante. Una cultura forgiata da Lutero, che con la traduzione della Bibbia diede ai tedeschi una lingua, ma anche da Richard Wagner, il quale, scardinando l’impianto dell’opera lirica tradizionale, cioè italiana, perseguiva un obiettivo di purezza.
Cioè di “Reinheit”, parola meno nota di “Ordnung”, ma con implicazione psicologiche quasi più decisive. Il diktat di una purezza di fondo, e non solo di superficie, permea tutti gli ambiti della vita. A iniziare dalla lingua, dove le parole non possono essere semplici contenitori vuoti: da cui deriva il purismo linguistico, il ricorso, quando possibile, a termini tedeschi e non latini (“Augenblick”, al posto di “Moment”).
Alla lingua si affiancano i fatti. Proprio la concezione di “Reinheit” può spiegare la burrasca nella quale si trova il capo di stato Christian Wulff, per un prestito di tre anni fa, quando era governatore, chiesto a una coppia di amici imprenditori, anziché a una banca, ottenuto ovviamente a un tasso agevolato. Wulff si è mostrato maldestro nella gestione della vicenda: le ultime indiscrezioni raccontano che ha minacciato il direttore del Bild Zeitung di non concedergli mai più un’intervista, se pubblicava la storia. Minaccia inutile ovviamente. Ma perché Wulff ha finito per stringersi da sé il cappio al collo? E perché la stampa non gli dà tregua? In mancanza di spiegazioni più terra a terra (complotti, sgambetto indiretto a Merkel che l’ha voluto lì) si può scomodare la radicata diffidenza del tedesco per tutto quello che è solo apparenza. Il “furore per l’ordine e la pulizia” di Lutero era stato provocato dall’assoluta avversione per qualsivoglia scorciatoia, facile escamotage per emendarsi dalle colpe: fu il commercio delle indulgenze a spingerlo a rompere con Roma, ad affiggere le sue 95 tesi. Forse Wulff, consapevole della pretesa di immacolatezza di un capo di stato (ironia vuole che fu proprio la Bild a definirlo “immacolato” il giorno della sua elezione), ha agito scompostamente perché il suo Super Io così gli ha comandato. Temeva, teme di finire nell’“Abgrund”, nel baratro. Soprattutto quello interiore. Già Georg Büchner nel suo “Woyzeck” (1879) sentenziava: “Ogni essere umano è un baratro”. Per Thomas Mann non era sufficiente, e nelle sue “Considerazioni di un impolitico” definiva tutto ciò che è tedesco “un baratro”. E’ però solo scomponendo la parola in “Ab-Grund” che si capisce fino in fondo, i fantasmi che la parola risveglia: “Grund” significa fondo ma anche motivo, mentre il prefisso “Ab” può stare per aberrazione. “I tedeschi oscillano continuamente tra la paura (la German Angst) di essere troppo grandi o tropo piccoli” spiegavano Dorn e Wagner in una recente intervista. “Anelano a diventare supercosmopoliti, cantano l’Inno alla gioia, dove tutti i popoli sono fratelli, oppure si ritirano offesi, perché convinti di essere incompresi, nella loro “Innerlichkeit”, interiorità”. Ma, ragionano i due autori, “non è che tra questi due estremi ci sia una via di mezzo. Non solo ‘Abgrund’, ma anche ‘Grund’? Trovare questo fondo, e questa ragione, è lo scopo del nostro viaggio nell’animo tedesco”.
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