Tre studi smentiscono la morìa dei negozi lamentata dai commercianti

Michele Arnese

Gli allarmi si rincorrono. “E’ a rischio il modello italiano di pluralismo distributivo”, ha detto il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli. “Qui chiuderanno almeno 1.500 negozi”, ha già calcolato in Toscana la Confesercenti. “Proseguirà la desertificazione delle botteghe iniziata con le lenzuolate dell’ex ministro Bersani”, è uno dei refrain più ascoltati tra piccoli e medi negozianti in questi giorni.

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    Gli allarmi si rincorrono. “E’ a rischio il modello italiano di pluralismo distributivo”, ha detto il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli. “Qui chiuderanno almeno 1.500 negozi”, ha già calcolato in Toscana la Confesercenti. “Proseguirà la desertificazione delle botteghe iniziata con le lenzuolate dell’ex ministro Bersani”, è uno dei refrain più ascoltati tra piccoli e medi negozianti in questi giorni.

    Gli allarmi si accavallano soprattutto dopo l’ulteriore liberalizzazione approvata dal governo Monti, che ha esteso dal primo gennaio la libertà di fissare orari di apertura e chiusura dei negozi e ha stabilito la possibilità di essere aperti anche nei giorni festivi e la domenica, non più soltanto nelle città d’arte e turistiche.
    Ma è proprio vero che così proseguirà la morìa dei piccoli e medi negozi a beneficio della grande distribuzione? I dati, finora, non assecondano questa teoria. Si prenda ad esempio “l’Annuario statistico italiano 2011”, il ponderoso rapporto dell’Istat distribuito pochi giorni fa. Pagina 437, tabella sugli esercizi commerciali al dettaglio in sede fissa per regione. I numeri parlano chiaro: negli ultimi tre anni, nonostante la recessione, i possibili effetti delle lenzuolate dell’ex ministro delle Attività produttive Bersani e l’avanzare dei centri commerciali, i negozi non solo non sono diminuiti ma sono addirittura aumentati. Gli esercizi commerciali nel 2008 erano 775.421 e sono diventati 776.365 alla fine del 2010.

    Incredibile ma vero. I dati elaborati dall’Istituto nazionale di statistica presieduto da Enrico Giovannini si basano sulle informazioni che arrivano dalle Camere di commercio e che affluiscono al ministero dello Sviluppo economico. Il dicastero ora retto da Corrado Passera ogni anno stila un rapporto di centinaia di pagine sul sistema distributivo. “L’analisi economico strutturale del commercio italiano” dell’ultimo studio ministeriale conferma: “Contrariamente alle aspettative”, si legge, “si registra un’evoluzione positiva della numerosità dei punti vendita attivi che nel 2010 si incrementano di oltre 3.600 unità, pari allo 0,5 per cento dello stock complessivo, costituito sia dalle sedi di impresa che dalle unità locali”. Questo non significa che il commercio non abbia risentito della scarsa crescita e dei consumi asfittici: infatti tra il 2006 e il 2008 i negozi al dettaglio in sede fissa erano diminuiti di circa tremila unità all’anno.

    “Pur essendo il 2010 ancora nel morso della crisi – scrivono i ricercatori del rapporto del ministero dello Sviluppo economico che studiano da decenni il settore distributivo – alcuni settori tra cui il commercio hanno invece dimostrato una notevole vitalità del sistema imprenditoriale di riferimento, registrando dinamiche di ampliamento della propria base”. Come mai? Gli autori dell’analisi economico-strutturale sottolineano “il consistente aumento delle unità locali, che risultano le vere protagoniste nelle crescite di nuove aperture ed evidenziano l’evoluzione del settore verso un universo caratterizzato da un numero sempre maggiore di imprese plurilocalizzate”. In altri termini, diminuiscono le aziende al dettaglio che hanno un solo esercizio commerciale e crescono quelle che hanno più negozi che fanno riferimento a un’unica sede di impresa.

    In una parte del rapporto governativo realizzata proprio in collaborazione con la Confcommercio si spiegano anche le dinamiche regionali: gli incrementi più significativi si sono registrati nel Lazio, con una crescita di 1.371 unità, tra nuove imprese e altre “unità locali”. Solo una regione ha fatto segnare un decremento: le Marche.

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