Viaggio tra outlet che crescono, stranieri che aprono e negozi che brontolano

Cristina Giudici

Se commercianti e artigiani toscani hanno già fatto i conti sulla deregulation degli orari dei negozi approvata dal governo, che liberalizza le aperture per qualsiasi esercizio commerciale – 1.500 negozi a rischio, 6.400 lavoratori in meno, hanno stimato – anche al nord i cosiddetti “piccoli” si attestano sulla stessa linea di pensiero.

    Se commercianti e artigiani toscani hanno già fatto i conti sulla deregulation degli orari dei negozi approvata dal governo, che liberalizza le aperture per qualsiasi esercizio commerciale – 1.500 negozi a rischio, 6.400 lavoratori in meno, hanno stimato – anche al nord i cosiddetti “piccoli” si attestano sulla stessa linea di pensiero. Nessuno ha fatto ancora di conto, ma secondo il presidente della Confcommercio di Genova, Paolo Odone, vale la stima che per un centro commerciale aperto si avrà un posto di lavoro in più, ma a discapito di due in meno nei negozi della piccola distribuzione: “La Liguria ha un tessuto territoriale e commerciale fragile. I borghi si svuotano, i negozi chiudono. Genova in 30 anni ha perso 250 mila abitanti, il centro cade pezzi”. L’incubo di Odone – e dei commercianti al dettaglio rappresentati dalle organizzazioni di categoria territoriali, non solo in Liguria ma anche nel basso Piemonte e nell’area di confine della Lombardia – ha un nome simbolo preciso e a dire il vero da undici anni: si chiama Serravalle Designer Outlet, il primo e più grande centro discount di griffe nazionali e straniere sorto in Italia, una mecca per i forzati dello shopping: 4 milioni di visitatori all’anno (oltre 30 da quando è nato), 38.700 metri quadrati di superficie di vendita distribuita su 183 negozi, 726 milioni di euro di fatturato nel 2011.

    Insomma l’outlet più grande d’Europa. Si trova all’uscita di Serravalle Scrivia sull’autostrada che collega Milano con la Liguria, territorio piemontese. Ma il terremoto liberalizzatore ha fatto sentire, a poco a poco, il suo influsso su un territorio assai vasto. La nuova onda di liberalizzazione del governo Monti, darà dunque ulteriore spinta al cambiamento dei piccoli esercizi, più che dei “grandi” protagonisti di una deregulation che è già nei fatti. “In effetti per noi con la liberalizzazione non cambia molto”, spiega Renata Bricola, direttrice di Serravalle, “perché apparteniamo a un comune turistico e già oggi lo teniamo aperto 361 giorni su 365 (in base alla legge Bersani, ndr), ma capisco le preoccupazioni dei piccoli imprenditori che ci considerano una minaccia”, spiega al Foglio con diplomazia, anche se ci tiene a sottolineare che grazie alla città dell’abbigliamento sul raccordo autostradale (amato anche dagli stranieri, oltre che dai milanesi con seconda casa in Liguria) sono aumentate le presenze negli alberghi e nei campi da golf del territorio circostante (si ritiene che l’outlet di Serravalle Scrivia attiri clienti nel raggio di 200 km).

    In dieci anni, il criterio dei “mall” è stato imitato, e non solo al nord, e ha mutato le regole, secondo gli esperti facendo crescere l’economia del territorio. Creando però problemi, anche di natura “culturale”. Ad esempio il governatore piemontese  Roberto Cota, fedele al credo leghista del prodotto a chilometro zero per difendere borghi e piccoli centri, ha già annunciato che farà ricorso e impugnerà davanti alla Corte costituzionale l’articolo 31 della manovra Monti. “La manovra interviene su una materia che è di  competenza regionale”, ha dichiarato. “L’apertura indiscriminata, praticamente senza regole, non porta benefici per i consumi e, in compenso, causa grossissimi problemi ai piccoli esercizi già duramente colpiti dalla crisi”. La pensa così anche Andrea Gallo, direttore della Confcommercio di Vicenza, che ha sposato il “modello Klagenfurt”: cioè centri commerciali sì, ma creati nel centro della città. “Il provvedimento di Monti non aiuta l’economia, non aumenta i consumi, è socialmente dannoso perché svuota i centri cittadini e va anche contro le conquiste dei lavoratori perché abolisce i giorni di riposo”, spiega al Foglio.

    Il presidente dell’Ascom di Padova, Fernando Zilio, ha affidato una sorta di sermone cinematografico a un comunicato stampa, per dire che per lui la deregulation dello shopping è una bufala culturale: “Il mito del sempre aperto, consacrato dai film americani ambientati a New York dove il negozietto gestito dal coreano di turno aperto alle 3 di notte è funzionale alla sparatoria che metterà il protagonista nella condizione di diventare un supereroe”. E così è andato a vedere gli orari di apertura di tutti i grandi magazzini europei: “A Londra Harrods apre dal lunedì al sabato dalle 10 alle 20 e la domenica dalle 12 alle 18. A Parigi, alla Ville Lumiére, i negozi aprono dalle 9 alle 19 e i grandi centri commerciali allungano l’orario fino alle 20 o, al massimo, alle 22”. Non pago della sua lista, ha controllato anche cosa accade sulle liberiste coste della California: “In Rodeo Drive che tutti hanno imparato a conoscere grazie a Julia Roberts in versione Pretty Woman, si apre alle 10 e si chiude alle 18”.

    Se è vero che gli indici dei consumi non sono proporzionali agli orari, come sostengono le associazioni di categoria, chi ci guadagna allora da una maggiore libertà di apertura, grandi centri commerciali a parte? Senza dubbio i nuovi esercizi aperti dagli immigrati, che almeno in Lombardia hanno aumentato imprese e attività commerciali: sono circa 61.500, di cui settemila intestate ai cinesi. Non è casuale che proprio a Milano sia nata Extrabanca (l’azionariato comprende Fondazione Cariplo e Generali), una banca che guarda, anche se non esclusivamente, a commercianti e piccoli imprenditori stranieri e che ha liberalizzato pure l’orario degli sportelli per fornire servizi e crediti a questi clienti. “La unicità e forte distintività della banca si evince anche dai suoi orari” ci dicono, “è aperta con orario continuato dal lunedì al sabato dalle ore 9 alle ore 19. A dicembre addirittura è rimasta aperta anche per due domeniche. Tale orario è fortemente vantaggioso e di utilità e supporto a tutti gli esercenti commerciali e lavoratori che possono trovare la filiale aperta in momenti prolungati”. A fine 2011, il 15 per cento della clientela è “small business”, prevalentemente attività di ristorazione, piccole società di import ed export, grossisti, artigiani, negozi. E il 50 per cento di questa clientela è stata aiutata per l’avviamento da zero di attività o per la loro crescita.

    Ma in aree urbane a forte immigrazione di fronte a questi fenomeni il dubbio, non solo dei commercianti, riguarda la distinzione tra attività legali e abusive. Torna dunque anche il problema “culturale” di accettare maggiori libertà: “Mia madre diceva che per ogni negozio spento, c’è un pezzo di città che svanisce”, chiosa Giovanna Mavellia, segretario generale della Confcommercio lombarda. “In Lombardia dal 2007 abbiamo una legge che cerca di favorire il pluralismo e per proteggere i piccoli abbiamo dato loro facoltà di rimanere aperti la domenica. Ora però molti saranno costretti a chiudere”.