Patrioti della nostra dolce incuria
Che il 2011 sia stato l’anno del nostro risveglio patriottico, come hanno detto Giorgio Napolitano, Giuliano Amato e chissà quanti altri, credo che sia un’iperbole retorica di circostanza più che un dato di fatto. Una cosa seria e profonda come il risveglio del sentimento di appartenenza nazionale non arriva così puntualmente agli appuntamenti con il calendario. Improvvisamente, tutti a cantare l’inno di Mameli facendo finta di sapere che cosa è stato il Risorgimento.
Che il 2011 sia stato l’anno del nostro risveglio patriottico, come hanno detto Giorgio Napolitano, Giuliano Amato e chissà quanti altri, credo che sia un’iperbole retorica di circostanza più che un dato di fatto. Una cosa seria e profonda come il risveglio del sentimento di appartenenza nazionale non arriva così puntualmente agli appuntamenti con il calendario. Improvvisamente, tutti a cantare l’inno di Mameli facendo finta di sapere che cosa è stato il Risorgimento: ma la maggioranza di chi l’altro giorno ha visto in tv il film di Mario Martone sul nostro Ottocento rivoluzionario riusciva a malapena a distinguere chi era Mazzini.
Le cerimonie per l’anniversario e le emozioni che le accompagnano vanno anche rispettate, ma sono forma, non sostanza, e parlando in termini di psicologia per principianti c’è una differenza fra emozione e volontà, fra un brivido e un proposito, fra un proposito e la sua attuazione. Quella bella frase del principe di Salina nel “Gattopardo”, secondo cui “i siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti”, potrebbe essere estesa a tutti gli italiani: perfezione a parte, siamo immodificabili, i nostri peccati e difetti sono ciò che nella penisola rende la vita moralmente esasperante e inaccettabile, ma esteticamente dolce, cosa che qualunque protestante del nord d’Europa nota subito.
Siamo il paese della bellezza e dell’incuria: sogniamo che la bellezza non venga distrutta, come avviene, dall’incuria: cioè siamo cattolicamente pagani, come se qualcosa di divino o di provvidenziale dovesse salvarci. Nella nostra proverbiale incredulità, noi italiani siamo uomini di fede a cui le opere non piacciono e sembrano irrilevanti. Il nostro è il paese e il popolo dell’espressione, non dell’azione. Anche la politica, che dovrebbe essere azione per eccellenza, la viviamo e ci seduce come modo di esprimerci, come autorappresentazione, teatro e spettacolo ininterrotto. Questa vocazione collettiva ha raggiunto il punto più basso della tollerabilità, via tv, con il berlusconismo e l’antiberlusconismo, fenomeni stilistici inscindibili più che complementari.
Berlusconi per quasi vent’anni è riuscito a modellare la sinistra a propria immagine: l’ha ipnotizzata costringendola a pronunciare ossessivamente il suo nome (la parola più usata dagli italiani) facendosi odiare in modo paranoico al di là del dovuto. E la paranoia distrugge e divora le idee politiche, le trasforma in armi improprie, sassi e bastoni, “vaffanculo!” e “arrestatelo!”, come può avvenire soltanto nel paese della Commedia dell’Arte, in cui non ci sono personaggi ma maschere e teste di legno su cui picchiare. Certo, dando un’occhiata alle nostre quotazioni sui mercati internazionali ci siamo allarmati tutti. Il nostro narcisismo è stato scosso. E, come sempre è avvenuto, quando qualcuno o qualcosa ci offende, ci inalberiamo seriamente, ma la cosa dura poco, come ogni manifestazione reattiva. Che si mostri patriottica quell’ottima e preparata persona che è il presidente Napolitano, è più che comprensibile, anzi doveroso per un’alta carica dello Stato. Solo che lo Stato non è affidabile come fonte di pensiero e di conoscenza: deve fingere che il bicchiere della propria autorevolezza sia sempre pieno e perciò compensare con la retorica, onesta o disonesta, il vuoto creato dalla mancanza di buon governo.
Lo Stato: il nostro problema è lo Stato. Ci sarebbe necessario, in linea di principio, come correzione al Mercato, ma il nostro Stato è poco credibile, è debole, corrotto, parassitario, vampiresco e occupato, in ogni fase della nostra storia e nei modi più creativamente diversi, dalla voracità animale dei partiti.
I partiti: il nostro problema sono i partiti, la loro litigiosità, la loro miope “coerenza” con se stessi, il loro paralizzante spirito di parte. Ma lo spirito di parte da noi distrugge il senso dello Stato e il senso patriottico di appartenenza. Lo Stato dovrebbe gestire, governare, mediare, moderare le divisioni e le diversità sociali e territoriali. Anche la Spagna, il Regno Unito, gli Stati Uniti, la Russia hanno questi problemi. Ma loro hanno, sono una patria. Noi no. La nostra storia è troppo lunga e complessa, una storia di divisioni e di asservimenti secolari, e perciò la subiamo ignorandola. Siamo bambini decrepiti, smemorati e istintivi anche nella capziosità e sofisticheria.
Ecco, la nostra storia: il problema è la nostra storia. Le accelerazioni storiche, le rivoluzioni identitarie, indipendentiste o di classe, hanno bisogno di droghe ideologiche e di uomini risoluti. Il Risorgimento è stato l’invenzione, la costruzione di un’identità culturale italiana più volenterosa che effettiva, un’identità fondata sul bisogno di liberarci dal dominio straniero e alimentata da una prassi insurrezionale, estremistica, cospirativa, terroristica, che aveva bisogno di creare i suoi eroi e i suoi martiri, di diffondere un orgoglio nazionale ispirato dalle tombe e dalle glorie di un passato ormai remoto, reso inoperante dalla modernità borghese. Foscolo e Mazzini, Garibaldi e De Sanctis hanno fatto questo. Ma Dante come vate dell’Italia ottocentesca è un’invenzione anacronistica. Dopo secoli, gli abitanti della penisola non erano più gli stessi.
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