L'ozio della politica

Stefano Di Michele

Perché imparare altra cosa che non sia premere bottoni, girar manopole, abbassar leve, applicar dadi e viti?” – si trova, il quesito, posto tra le pagine di “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury, là dove erano i pompieri ad avvampare libri – così come oggi libri e giornali avvampano nelle loro cronache i politici. Con vanità illimitata e giustificata, un po’ tra il drammone genere “L’asso nella manica”pur se Stella & Rizzo d’indubbia bravura e di ammirevole tigna, non reggono onestamente il confronto, a gloria della categoria tutta, con Jack Lemmon e Walter Matthau.

    Perché imparare altra cosa che non sia premere bottoni, girar manopole, abbassar leve, applicar dadi e viti?” – si trova, il quesito, posto tra le pagine di “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury, là dove erano i pompieri ad avvampare libri – così come oggi libri e giornali avvampano nelle loro cronache i politici. Con vanità illimitata e giustificata (ah, il cronista che tutto scrive! ah, il giornalista che niente tace! è la stampa, bellezza!), un po’ tra il drammone genere “L’asso nella manica” – e nella galleria mineraria del vitalizio ti tengo per le palle il politico, sfanculato e sfaccendato e sfigato; e un po’ comica da “Prima pagina” – pur se Stella & Rizzo (di Casta e non Diva, miserabile piuttosto, prima inventori e poi ripetutamente cantori, e sempre di Casta parlano e di Casta li interrogano, come a certi che fecero il botto canterino d’estate e sempre, a decenni di distanza, “luglio col bene che ti voglio” devono intonare) d’indubbia bravura e di ammirevole tigna, non reggono onestamente il confronto, a gloria della categoria tutta, con Jack Lemmon e Walter Matthau. Ma ecco, dunque, del premere bottoni ogni eletto sempre s’è lagnato – e che noia! e che barba! e che ozio! – e sempre s’è adeguato – che sono qui per premere bottoni? era lì proprio per premere bottoni – e le manopole e le leve e le viti sono appositamente evocate a conforto e a rinforzo: come se ci fosse più gratificazione e possibilità in una qualsiasi immaginaria autofficina, piuttosto che dentro quell’immensa Aula sotto il fregio di Aristide Sartorio, culi e tette ed equini frementi, e certe facce appese in alto che incutono non meno timore di certe sedute in basso – e pare fossero facce di dementi, dall’artista da foto fornite dal prof. criminologo Cesare Lombroso copiate.

    E c’è da pensare, e gli appositi gazzettieri avrebbero certo da rimarcare, che come pianeti che comunicano tra loro nel cosmo sia quel raccordarsi verticale tra vecchi e nuovi criminali. Ma la noia del bottone da spingere – solo un bottone, sempre un bottone – mai amplificata da viti e leve e manopole (in altre mani le manopole sempre sono, per non dir  delle leve), con l’arrivo del governo tecnico, governo di prof., governo di sapienti, tanti antipatici ma con almeno otto coglioni a testa, come dicevano gli appassionati di Bettino (re magi bocconiani, nel loro approssimarsi alla sgarrupata capanna italica, anziché ministri appunto ministeriali e fantozziani), ora conosce un salto ennesimo di noia – un bottone solo ogni tanto, i supplì dal costo impennato, né l’opinione interessa, né a momenti interessa neppure la sempre richiamata e indispensabile manualità bottinistica.

    Un ozio di nuovo conio che si somma all’ozio decennale, cinquantennale ormai, che ammorbava le giornate dei politici pulsantieri. Un ozio più un altro ozio, non fanno due ozi – ma un solo insormontabile picco. Non si vive di due ozii – che non sono due amori, come lo splendido verso di un antico poeta arabo, “ti amo di due amori”: quasi non si sopravvive a due ozii. E dorme il Cavaliere – già da anni, forse stremato da improprie tenzoni in penombra, forse di oziosa noia pervaso – e sembrano ora appisolati tutti gli altri, marionette dismesse a spettacolo finito, confusamente accatastate, groviglio di fili e destini – un leggero ronfare di noia traboccante a percorrere i centoquaranta metri del Transatlantico, davvero ponte di nave da crociera: e certi hanno la testa rovesciata sulla spalliera del divano, e certi invece ce l’hanno abbassata, il doppio mento si moltiplica e si espande in un sussultare rassegnato e abbandonato. E verrebbe quasi da andar vicino, uno a uno, il democratico e il berlusconiano, il finiano e il bossiano, “fate la nanna coscine di pollo / la vostra mamma vi ha fatto un gonnello / ve l’ha fatto con lo smerlo intorno / fate la nanna coscine di pollo” – così da sperare di mutare l’inerzia in riposo, lo sbadiglio in riflessione. Ma non c’è possibilità alcuna: perché è un ozio per forza vigile pur oziosamente inoperativo, quello del politico accampato lungo il Transatlantico e nei corridoi laterali. E’ sonno da gatto guardingo, da serpe vigile, da antilope nella savana: dal leone fiutata, dalla tigre osservata. E’ sonno da sbalzi, è sonno destato a volte da sberle.

    Perché se l’ozio conduce all’abbiocco (e dell’abbiocco vero e proprio, appassionata e autorevolissima testimonianza di seguito vedremo), il rumoreggiar intorno – là nel vasto mondo di gazzette e blog, Web e Twitter, girotondi e quattro cantoni – costringe a stare alleprati, vigili, scattanti. Vitalizio a chi? Casta a chi? Privilegiato a chi? Pure il collega che ti cogliona – e tu parli e parli e dici cazzate assordanti, come tutti diciamo, che si fanno verità assolute, come tutti temiamo. “Stronzo!” – c’è chi urla al parlamentare che vagava combinato come uno 007 da film con Franco e Ciccio, e registrava registrava registrava, e dunque lo sputtanamento è dietro ogni angolo, oltre ogni bordo di divano, nei pressi della fontana del cortile interno. E nell’Aula, persino! La sacralità dell’Aula! Uno sputare o un pomiciare in chiesa, la telecamera nascosta – non bastassero quelle lassù nelle tribune, che ti riprendono dall’alto che bordeggi zoccole sul tuo iPad, mentre ritagli figurine dai fogli degli appunti, e nel buco al centro infili un dito, così da mostrare ai vicini le vantate sorprendenti proporzioni. Un levarsi però lesto e inutile, da mummie da kolossal, da rassegnati urlanti – da chi sa che la battaglia è persa, e persa è forse tutta la guerra.

    Non solo i crudeli del Fatto, non avendo più le chiappe berlusconiane da addentare (peraltro, a testimonianza, calanti non meno della sorte politica), su ogni peccatone e peccatuccio di casta si gettano –  Travaglio t’allunga paro paro nel suo editoriale, e steso come un tappetino dall’ingresso della cucina di una pizzeria stai: ognuno passa, ognuno scatarra un insulto, ognuno maledice. Macché: persino il morigerato Corriere della Sera ci dà sotto – e Stella e Rizzo e Rizzo e Stella e Stezzo e Rilla, e succedanei di non minore fervore seppur di minore bravura, che a loro stanno come le uova di lombo al caviale, paginate di supplì e buste paga di onorevoli e stipendi di stenografi (però, cazzo, mica male…) e auto blu e vacanze (alle Maldive! alle Maldive! oh schifezza, oh fremito d’indignazione, oh banditi), e ognuno a precisare tot soldi spesi tot aereo preso tot pasti consumati. Giorni da Terminillo, questi, non da trasvolate oceaniche – e giustamente, a ripensarci ora, l’indimenticabile ministro Nitto Palma che voleva andare in Polinesia, avendo già biglietti e prenotazione, e non lo fecero partire (c’è la Giustizia e vuoi andare a Tonga?), e quello con apposito comunicato rinunciò, ma alla fine il governo berlusconiano che lo aveva imbarcato a momenti durava meno della vacanza prevista, sospirata, accarezzata – e rinunciata…

    E perciò l’eletto, dall’ozio ridestato, fa un musetto da parastatista indignato, tra la lenta testuggine e l’iperteso furetto, e spesso finisce col metterci del suo – “i meno pagati d’Europa! i meno pagati del mondo! i pezzenti delle assemblee elettive siamo!” – e alla fine né il torto né la ragione contano: ma le parole sì, e certe parole possono pure essere giuste, e singolarmente sbagliate risultare. A esempio, a modello, a innarrivabile metodo, qui c’è da citare il senatore Gasparri, alle prese con la Stampa (pur essa con il fuoco di San Vito della casta acceso in redazione), e nello specifico con Mattia Feltri. Un assoluto capolavoro, un pezzo di bravura teatrale, un lanciare la palla lontano e ritrovarsela in campo, in un vortice frenetico e spiazzante di “banchieri e banchieroni, professori e professoroni, direttori e direttoroni”, e dunque e di conseguenza, “anche voi giornalisti spesso marchettari, che non sempre si sa quale consulenze avete, sareste la società civile che ci fa la morale?” – ecco com’è facile avere (qualche) ragione e stare pure dalla parte del torto. (E proprio l’insospettabile Secolo d’Italia, di ritrovata gasparriana vocazione, allerta e avvisa: “Politici, massacro continuo e autodifese alla Fantozzi”).

    Come coscine di pollo, perciò, ozia e dorme il parlamentare. Da divano a poltrona, da buvette a bar, da cortile a barbiere – in rassegnata sonnolenza, in scaramantica attesa (ché intanto, a consolazione e a informazione, può agevolmente sfogliare il Fatto: come certe riviste regalano l’agenda con gli oroscopi o con i santi, il quotidiano padellariano offre “il calendario delle indagini e dei processi del 2012”: ieri le prime due paginate, e continua. Titolo: “Un paese alla sbarra”, segnatevi quando). E’ il frullare a vuoto quotidiano, forse con lo spavento che si possa aprire sotto i piedi la botola della dimenticanza – ah, quello, ma che faceva? il ministro? non me lo ricordo per niente!, faccine allineate e perse nella memoria, come i ritratti appesi ai muri del Caffè Greco, nel centro di Roma: saranno stati qualcosa, ma chi ha più voglia e desiderio di saperlo? Assolutamente mirabile, l’intervista dell’ex ministro degli Esteri Franco Frattini (di cui pure, i perfidi, lodavano più la presenza sciistica che quella internazionale) al Giornale per dibattere tanto dei modi dell’infortunio su pista del ministro Di Paola, quanto per andare di metafora in politica, “il governo deve sciolinare bene i suoi sci”, mentre le primarie del Pdl “saranno il nostro slalom speciale”. E così, che l’ozio politico quotidiano non genera mostri, ma stralunati momenti sì. E l’immagine, sempre dal Giornale, di Cicchitto che “per rimettersi in forma dopo la grande bouffe delle feste”, va a farsi massaggiare all’Hotel de Russie, con centro benessere “specializzato nello stone-massagge” – e se ne ricava la fulminante visione, “indossava un accappatoio dal quale si intravedeva una canottiera bianca”, tra un Tiberio a Capri e un geniale omaggio all’Aldo Fabrizi della famiglia Passaguai (al mare).

    Fu un saggio democristiano che decenni fa santificò e decretò la condizione della vita in Parlamento: “Ozio senza riposo, fatica senza lavoro”; e che ora un deputato finiano, Enzo Raisi, aggiorna così: “Il Parlamento è un ozio senza riposo dove il facile diventa difficile attraverso l’inutile” – quando all’appisolarsi sui divani qualche collega un po’ Franti legava tra loro i lacci delle scarpe del dormiente, così che al suo rialzarsi se ne calava rumorosamente a terra, tra bestemmie e stupore, con rapido accorrere di solerti commessi e rapido darsi di gomito di colleghi un po’ stronzi. L’ozio che l’irruzione professorale ha moltiplicato per cento, era da sempre una componente della quotidianità dell’onorevole nel suo ciabattare tra saloni e corridoi. Nessuno meglio del grande Lucio Colletti –  perfido e intelligente segnalatore di ogni quotidiana noia, “filosofo dell’abbiocco hegeliano assai indulgente verso la catalessi” – seppe raccontare questa condizione di faticosa inattività, “una fabbrica del nulla”, e spesso di inconcludente attività: “Stare alla Camera è un otium ininterrotto. Che ti fiacca, ti snerva, ti ruba l’intelligenza. Cerco di starci meno che posso. Voto e scappo. Dopo un’ora che sto lì ho il cervello cotto” – e chissà le risate, se si ritrovasse ad avere a che fare con qualche petulante cronista un po’ surreale questurino (si riconoscono: hanno spesso il sorrisetto irritante, a caratura di spioncino: parla parla pure, a me non mi freghi): il vaffanculo, di casta e di cuore, sarebbe risuonato alto dal Transatlantico fino alla campana del Palazzo: 8.333 chilogrammi pronti a calare di colpo – a maledizione, a stanchezza – sulla testa dello screanzato interrogante.

    Nell’ozio quotidiano del parlamentare, in quel meriggiare pallido e assorto e tedioso, nella lentezza da cerimonia del tè zen che cala la palpebra e lascia l’orecchio appizzato – allo spread, magari, piuttosto alle conseguenze delle decine di pagine mattutine castiga casta –  non c’è più modo di assistere al volo pindarico di uno Scilipoti, che plana in Aula per votare sul filo dei secondi, in un incrocio tra il rag. Filini e un ballerino di rumba: straordinario – tra il non saper che fare e cosa fare, spesso i diretti interessati fanno la cosa sbagliata. Ora che c’è già qualcuno che identifica il sobrio prof. Monti (“Se dovete fare una scelta ascoltate, non applaudite”, li ha ripresi: così  male  non possono più dire, bene non possono dire, pernacchie non ne possono fare, applausi nemmeno, sbadigli con cautela: ognuno sta come il gozzaniano “Loreto impagliato”; e strada per strada, schermo per schermo, giornale per giornale preso per il culo) con il popolare marchese Onofrio del Grillo, quello di Sordi, quello della famosa enunciazione “io sono io e voi non siete un cazzo” – insomma, più o meno ci siamo: e il non essere un cazzo, politicamente parlando, e l’essere oziosi, sempre politicamente parlando, sono condizioni che si sommano. Ci avevano fatto il callo, all’accusa di essere oziosi, i parlamentari (commento dell’estate del 2006 del prof. Michele Ainis – saranno i professori, i nuovi optimates che cancelleranno un’intera antropologia di deputati e senatori? – annotava, in altra fase e pur per altre faccende: “E’ il nuovo record di cui possono fregiarsi i nostri 945 deputati e senatori: il record dell’ozio. (…) Qui invece conviene domandarsi quale sia l’effetto di quest’ozio prolungato, e se vi sia uno scopo”.

    Potrebbero, gli oziosi – un po’ per natura, un po’ per forza – onorevoli, ritrovarsi nel famoso “Autoritratto con occhiali” di Chardin, “perché quel volto esprime tutto l’amore e il rispetto per il diritto all’ozio, bene così labile nel nostro stile di vita” (Gabriella Colletti), ma più probabilmente risulteranno oggettivamente più evocati dei Ficarra e Picone “Nati stanchi” – nella parodia, però, meno nella simpatia. Nell’inquieto ozio (ozio affaticato: trattasi di scuola di pensiero) che oggi li sfianca, rispetto all’ozio (ozio benefico: trattasi sempre della stessa scuola di pensiero), si registrano così esempi di autodenuncia: ecco, giornalisti, la mia busta paga; ecco, cronisti, il reale pensiero dei miei colleghi; ecco, indignati, il mio mea culpa davanti a tali e tanti ributtanti privilegi – e se ne trova annotazione e costrizione nei titoli delle cronache: “Noi, onorevoli e nullafacenti”, “Così viviamo a scrocco”, “Pranzo di lusso: sette euro”, ecc. ecc. Ride Mario Landolfi, ex ministro e parlamentare del Pdl: “Sono dei coglioni, dei piccoli Philippe Egalité, come l’aristocratico Borbone-Orléans che si mise al servizio della Rivoluzione francese e che finì ghigliottinato tra i primi… Quella è la fine che faranno”. Le giornate hanno breve luce e ore infinite. Al calare della sera, il divano del Transatlantico ancor di più invita a chiudere gli occhi – fosse magari solo un brutto sogno, questo dei professori che ci tengono inoperosi e ci rendono indesiderati. Nemmeno un “Porta a Porta” dove andarne a sparlare, che bello sarebbe davanti a un plastico dell’Aula come della magione di Avetrana. Niente, nessun riparo – vento e freddo. Uno spiraglio a “Piazzapulita”? Mah… Da Lilly? Figurarsi. Neanche da Gad si può andare: là i prof. ci stavano già quando noi ce ne fregavamo alla grande. Un caffè, allora? Piano, che adesso sta a ottanta centesimi… Meglio reclinare la testa, e lasciar fare all’ozio il suo lavoro.