Come e perché in Unicredit cambieranno gli equilibri di potere

Stefano Cingolani

Prima si distrugge, poi si crea. La pars destruens l’abbiamo vista ed è stata traumatica. Unicredit valeva 69 miliardi di euro nel 2007; è precipitata fino a 5,3 miliardi lunedì scorso. Il titolo in cinque giorni ha perso il 63 per cento. La pars construens è ancora confusa, ma passa attraverso l’aumento di capitale di 7,5 miliardi. Nella sola seduta di ieri ha cambiato portafoglio il sette per cento del capitale. Dunque, hanno ricominciato a comprare. Chi? Gli stessi che avevano venduto a rotta di collo?

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    Prima si distrugge, poi si crea. La pars destruens l’abbiamo vista ed è stata traumatica. Unicredit valeva 69 miliardi di euro nel 2007; è precipitata fino a 5,3 miliardi lunedì scorso. Il titolo in cinque giorni ha perso il 63 per cento. La pars construens è ancora confusa, ma passa attraverso l’aumento di capitale di 7,5 miliardi. Nella sola seduta di ieri ha cambiato portafoglio il sette per cento del capitale. Dunque, hanno ricominciato a comprare. Chi? Gli stessi che avevano venduto a rotta di collo? C’è una trama per impadronirsi della più europea tra le banche italiane? L’aumento di capitale è tardivo come ha scritto ieri il Financial Times, lo sconto del 43 per cento è segno di paura, il management è stato sorpreso dagli eventi e non ha preparato una rete di sicurezza.

    Le micro ragioni del tonfo sono molte. Una sola cosa è certa: l’assetto proprietario è in divenire. “La futura composizione azionaria di Unicredit tende a essere nelle mani del consorzio di garanzia”, spiega Marcello Messori, professore di Economia dei mercati monetari e finanziari a Tor Vergata e già presidente di Assogestioni, in un’intervista a Firstonline. E il consorzio è guidato da Mediobanca, principale azionista con il 5,247 per cento, e Merrill Lynch. Supponendo che gli americani facciano solo da intermediari, vuoi vedere che le leve di comando passeranno da Piazza Cordusio a Piazzetta Cuccia? Pochi metri nella mappa di Milano, in realtà un rovesciamento storico. Giancarlo Galli, gran conoscitore del sistema bancario italiano, spiega al Foglio che sarebbe la somma di più debolezze perché oggi la stessa Mediobanca ha un problema di capitale e di strategie. I sogni del triangolo magico che si chiude con Generali sono tramontati per sempre? Molto dipende da cosa accadrà tra i soci della banca d’affari e Galli invita a tener sempre d’occhio Vincent Bolloré.

    Oltre Mediobanca (della quale Unicredit è il principale azionista con l’8,7 per cento), gli altri partner sono la Libia con la Banca centrale (il 4,988) e il fondo sovrano Lia (2,594), Aabar il fondo sovrano di Abu Dhabi con il 4,991, poi la Fondazione Cariverona con 4,2, la Fondazione Caritorino 3,31, la Carimonte, la compagnia di assicurazioni Allianz con il 2 per cento, quota che ha intenzione di mantenere. Cariverona, presieduta da Paolo Biasi, è in rotta. Fabrizio Palenzona, che rappresenta in consiglio i torinesi e sembrava così potente nella filiera Unicredit-Mediobanca, sarà uno tra tanti. I libici sono un punto interrogativo. Tra i privati destinati a uscire c’è Ligresti il cui gruppo sta per essere smembrato. Gli eredi di Maramotti, già grande sponsor di Profumo, o Pesenti, partner storico, dovrebbero ridimensionarsi. Nel loro insieme, gli azionisti stabili si sono impegnati a sottoscrivere il 24 per cento del nuovo capitale che sarà ancor più frazionato (il numero di azioni viene diviso in due). A farsi carico dell’inoptato, il consorzio di garanzia che comprende 24 banche italiane e straniere. E secondo Messori titoli invenduti ci saranno, eccome. Angelo De Mattia non crede, oggi come oggi, a scalate da grandi istituzioni finanziarie straniere e invita ad attendere. “Certo è aperto il grande interrogativo sulla tenuta delle fondazioni: per vent’anni hanno garantito la stabilità del sistema. E adesso?”.

    La crisi Unicredit precipita negli ultimi mesi, ma ha tutto il segno di un ciclo che si chiude. Nel 1999 la banca guidata da Alessandro Profumo annuncia un’Opa sulla Commerciale italiana. Cuccia alza le barricate in difesa della propria autonomia dai suoi principali azionisti. Con lui si schierano Antonio Fazio, governatore della Banca d’Italia, e Massimo D’Alema, presidente del Consiglio. La Comit finisce a Intesa, frutto a sua volta del nuovo Banco Ambrosiano di Giovanni Bazoli e della Cariplo di Giuseppe Guzzetti. Frustrato in patria, Profumo si spinge sempre più all’estero. Nel 2005 conquista la tedesca HypoVereinsbank, istituto bavarese in serie difficoltà. Si porta dentro Dieter Rampl che diventa presidente e soprattutto una catena di partecipazioni in Polonia, in Austria in Croazia e nell’Europa centro-orientale. Nel 2006 si sparge la voce che Intesa voglia scalare Capitalia. Geronzi incontra Bazoli e davanti a una tazzina di caffè (lo racconta lo stesso banchiere romano) si raggiunge un accordo di non belligeranza che diventa una sorta di duopolio. Nel 2007 Intesa prende il Sanpaolo di Torino e a Unicredit va Capitalia. Così andarono le cose. Sul Corriere della Sera Massimo Mucchetti ha scritto che fu Mario Draghi a sostenere le “gigantesche fusioni”. Ma non fu solo la Banca d’Italia: il ministro del Tesoro Tommaso Padoa-Schioppa e Romano Prodi presidente del Consiglio le giudicarono come operazioni sistemiche.
    Le acquisizioni centro-europee rivelano la loro fragilità.

    L’integrazione con Capitalia è complessa sul piano della cultura aziendale. Poi scoppia la grande crisi. Nel 2008, subito dopo il crac di Lehman, i mercati picchiano su Unicredit, unica banca esposta all’estero, che crolla di un terzo in ottobre. Profumo rifiuta i Tremonti bond mentre si riaffaccia di nuovo l’ipotesi Mediobanca (che allora valeva in Borsa più della banca controllante). Parte il primo di tre aumenti di capitale, tutti bruciati dal mercato. Finché l’uscita di Profumo, tredici mesi fa, ha il senso di una resa. La Lega denuncia la scalata libica. In realtà, l’ad usa i libici che ha trovato in Capitalia, nel tentativo di salvarsi. Per la successione, circola tra gli altri il nome di Enrico Cucchiani, allora rappresentante del socio tedesco Allianz e oggi capo azienda di Intesa. Prevale la soluzione interna con Federico Ghizzoni il quale si mette a far pulizia: svaluta 9 miliardi di asset, però rinvia l’aumento di capitale fino al momento in cui l’Eba mette brutalmente le banche italiane con le spalle al muro.

    Profumo ha comprato troppo, ben nove integrazioni in pochi anni, ma aveva una strategia”, sottolinea Galli che guarda per il futuro assetto di Unicredit all’ingresso dei fondi sovrani. Magari quelli asiatici corteggiati da Vittorio Grilli nel suo viaggio a Pechino, Hong Kong e Singapore del settembre scorso. Unicredit è in Cina dal 1987. E fa da sportello per le aziende italiane. I suoi primi 200 clienti rappresentano l’80 per cento dell’industria tricolore. Forse non verranno da Pechino, forse saranno russi, ma, insiste il saggista Galli, le mani forti oggi si levano là dove i debiti sono bassi e il contante elevato. “Rischio scalata remoto”, ha detto ieri il direttore generale di Unicredit, Roberto Nicastro.

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