Dopo “X Factor” non sembriamo più un paese per vecchi (capito “Sanremo”?)

Stefano Pistolini

Si è conclusa in modo impressionante, dal punto di vista emotivo e artistico, la quinta edizione di “X Factor”, che ha sancito il proprio ruolo pilota nella appropriazione televisiva della musica leggera, in quella formula contaminata di Web che appartiene al suo progetto e incontra i gusti e gli stili del suo principale pubblico di destinazione, ossia i teenager.

    Si è conclusa in modo impressionante, dal punto di vista emotivo e artistico, la quinta edizione di “X Factor”, che ha sancito il proprio ruolo pilota nella appropriazione televisiva della musica leggera, in quella formula contaminata di Web che appartiene al suo progetto e incontra i gusti e gli stili del suo principale pubblico di destinazione, ossia i teenager. Tanto che stasera su Sky Uno andrà in onda il film. Perfino paradossale che a suggellare questa notevole kermesse, quando si tratta d’inventare il premio degno di tanta mobilitazione, l’idea del contratto discografico (“da 300 mila euro!” sottolinea con pomposa voluttà il conduttore) sia debole e pleonastica. Chi ha vinto il talent show, del contratto potrebbe farne a meno, perché la sua popolarità, la sua musica e perfino i suoi guadagni viaggeranno, nella maggior parte dei casi, attraverso altri canali – concerti, apparizioni tv, la fidelizzazione a grandi media, la Rete.

    Ma tant’è: lo show è stato grandioso, al punto da pensionare una volta per tutte nonno “Sanremo”, restituendo credibile sincronicità tra consumi della platea giovanile e laboratorio per la produzione di showbiz a largo spettro. Compito svolto egregiamente, coi compromessi del caso, dal team produttivo di “X Factor” che ha denotato mestiere, competenza e quella dose di cinismo che da sempre fa parte del mondo della musica, allorché veste i paramenti professionali. Cose fatte in grande, come si doveva, però anche con un gusto della messinscena inatteso, una grandeur visionaria, stravagante, che è riuscita a stupire in quel regno del prevedibile che è la tv d’intrattenimento. E soprattutto un cast notevole, una nutrita schiera di volti nuovi, già pronti a assumere quei ruoli di tradizionale canzonettismo ben fatto, che è sempre stato un punto forte dell’industria musicale italiana (Antonella Lo Coco, la delusa della finalissima, ha già le carte in regola per affiancare o soppiantare una Giorgia o un’Irene Grandi, planando su questa opportunità saltando a piè pari la gavetta).
    Sorvolerei sul dubitabile valore oggettivo dei Moderni, trascinati così in alto più dalla loro adattabilità alle bizzarrie dei costumisti che da un oggettivo valore come band vocale. Qualcosa invece va detto sulla vincitrice Francesca Michielin, la ragazzina di Bassano che ha portato nelle case degli italiani una visceralità musicale per niente imparentata con la nostra tradizione, incarnazione piuttosto di un residuo di cultura rock anglofila che, col passare degli anni, si è certamente schematizzata, ma che pure trasmette ancora potenti messaggi alle teste in grado di recepirle. Dove una ragazza di provincia italiana nata nel ’95 incontra le voci di Janis Joplin e Robert Plant, dove, nella formazione delle sue gerarchie estetiche, impara istintivamente a collocare reperti come Led Zeppelin o Leonard Cohen, dove coniuga tutto questo col senso di estraneità che le arriva dal mondo che la circonda, lì nascono personaggi come Francesca – e il bello è che una platea ruvida e sbrigativa come quella tv, ne decifri l’intenzione e lo slancio, se ne innamori, e coroni col successo la sua improbabile favola artistica.

    Nel grido strozzato “Non siamo un paese per vecchi!” pronunciato da Simona Ventura nel lanciare la candidatura della sua protetta risiede pochissima verità, ma intercetta la vaga chance che un’area del nostro pubblico – quella che guarda “X Factor” in modo interattivo e vota i personaggi – esprima per una volta la sua forza decisionale, sovvertendo il prevedibile. Cosa possa essere ora di Francesca Michielin – che pure i suoi giudici più attendibili volevano mandare “a studiare ancora un po’”, contraddicendo il primo comandamento del rock (tutto e subito) e svelando un bieco assoggettamento alla regola del mainstream – è un mistero più grande di quelli che coinvolsero i suoi predecessori. La sua figurina è eccezionale: quel suo accendersi e spegnersi a intermittenza, a seconda che sia il momento di cantare o di parlare, lo sguardo sbarrato di fronte alle domande elementari, i suoi tentativi di spiegare sentimenti e intenzioni, neppure cercasse di farlo in un’ignota lingua straniera, la naturalezza con cui canta scalza o s’arrampica su tortuosi sentieri vocali, ne fanno, al tempo stesso, una vittima predestinata dei lupi da sala di registrazione, o un’eroina romantica capace d’ispirare reggimenti di coetanei.

    Dunque il suo personaggio, gracile e intenso, è meno trascurabile di quelli che l’hanno preceduta. Stare a vedere come andrà a finire (se sbranata, banalizzata, spenta e appiattita, oppure miracolosamente viva e artisticamente tutta da scoprire) rende, una volta di più, il diabolico meccanismo di “X Factor” necessario, forse perfino indispensabile all’idea di una possibile musicalità del presente.