Mare d'inverno
Il riscaldamento globale non è una variazione del clima ma una condizione dell’anima, quella tensione del cuore e del corpo verso l’estate anche d’inverno, l’irresistibile tentazione di partire con la sciarpa, arrivare in un posto lontano e assolato, mettersi in mutande, scottarsi la pelata. Anche se fino all’altroieri si girava in maniche di camicia, anche se i segni dell’abbronzatura estiva sono ancora tutti al loro posto, insieme alle foto dei tramonti, c’è un cinepanettonico (libero e legittimo) bisogno di atollo, di resort.
Il riscaldamento globale non è una variazione del clima ma una condizione dell’anima, quella tensione del cuore e del corpo verso l’estate anche d’inverno, l’irresistibile tentazione di partire con la sciarpa, arrivare in un posto lontano e assolato, mettersi in mutande, scottarsi la pelata. Anche se fino all’altroieri si girava in maniche di camicia, anche se i segni dell’abbronzatura estiva sono ancora tutti al loro posto, insieme alle foto dei tramonti, c’è un cinepanettonico (libero e legittimo) bisogno di atollo, di resort, di pranzo a buffet in costume da bagno (provoca spesso varie dissenterie, accadde anche a Charlotte nel film di “Sex and the City”, ma è un inconveniente più raccontabile del virus gastrointestinale che si prende restando in città). L’inverno non è inverno se non c’è estate da raggiungere, ciabatta di gomma da far dondolare dall’alluce, gennaio da salutare sdraiati da qualche parte in mezzo al mare, cappellini da baseball da girare al contrario sulla testa per difendere la nuca dal troppo sole sulla pelle già color mattone.
Non c’è niente di male, davvero, non c’è bisogno di dire, come ha fatto Elisabetta Tulliani intervistata da Chi, che sessant’anni si compiono una volta sola (anche trentaquattro, anche novantanove e mezzo), né di vantarsi di avere guadagnato quei soldi onestamente (come se, per la terza carica dello stato, potesse esistere l’ipotesi di guadagnarli disonestamente). C’è soltanto da godersi quel bisogno realizzato di Tropici a gennaio, la voglia di pronunciare la parola “paradiso” riferita a una capanna col tetto di paglia e un tizio che serve l’aperitivo, e il trionfo per aver spezzato l’attesa struggente del prossimo traguardo, l’estate estiva. Che però è, a livelli diversi, a disposizione di tutti, quindi offre meno chance di utilizzare quell’espressione mostruosa che avvicina un vacanziero a una lavatrice: “Avevo bisogno di staccare la spina”.
Gianfranco Fini, ad esempio, stacca spesso la spina ed è impaziente di uscire da quelle cravatte color salmone per infilarsi in magliette con ricamati giganteschi giocatori di polo, anche se la compagna, per non suscitare troppa invidia popolare, ha raccontato la fatica di montare e smontare ogni giorno tutta l’attrezzatura da sub, l’ora necessaria per raggiungere il punto di immersione, l’ora necessaria per tornare indietro, “il tempo che resta per fare altro è ben poco”, tanto che viene da consigliare un secondo turno di Maldive, intorno a febbraio, per riprendersi dalle fatiche di queste vacanze senza tregua. Ma o si è Mario Monicelli, che una volta disse che avrebbe fatto scrivere sulla sua tomba “Mai stato alle Maldive”, o davvero non c’è nulla di cui doversi giustificare in questo entusiastico e continuo inseguimento dell’estate d’establishment, che nessun Neri Parenti sarebbe riuscito ad anticipare.
I Tropici sono ancora un posto da calciatori con corpi scolpiti, da fortunate soubrette e da Fabrizio Corona, gente che passa ore a lucidare i muscoli e che dà lustro alle spiagge bianche, ma fanno sempre più spesso largo alla mezz’età. Il livello estetico si è democratizzato, e in tempi di crisi qualunque decadimento fisico è ammesso, si spera con un sovrappiù di prezzo. Grazie al cielo, in mezzo a tanto molliccio Parlamento, quest’anno è stato ancora possibile consolarsi, dopo le immagini di Renato Schifani che prendeva il sole sulla spiaggia, con le foto di Francesco Totti che, poco lontano, giocava a racchettoni.
Il Foglio sportivo - in corpore sano