Numeri, suggestioni, previsioni e nuovi scenari della New Economy

Bolle da orbi

Claudio Cerasa

Chiunque sia andato recentemente a curiosare in mezzo alle mille previsioni fatte in questi giorni da alcuni tra i più autorevoli esperti di diavolerie tecnologiche non può non essersi accorto che alla fine di ogni descrizione relativa ai possibili scenari economici legati all’anno appena incominciato l’immagine che gli osservatori propongono continuamente al lettore incuriosito è sempre quella, ed è sempre la stessa: una coloratissima bolla rigonfia d’aria che a poco a poco si avvicina in modo inesorabile all’affilatissima punta di un grossissimo ago. Insomma, ci siamo capiti no?

    Chiunque sia andato recentemente a curiosare in mezzo alle mille previsioni fatte in questi giorni da alcuni tra i più autorevoli esperti di diavolerie tecnologiche non può non essersi accorto che alla fine di ogni descrizione relativa ai possibili scenari economici legati all’anno appena incominciato l’immagine che gli osservatori propongono continuamente al lettore incuriosito è sempre quella, ed è sempre la stessa: una coloratissima bolla rigonfia d’aria che a poco a poco si avvicina in modo inesorabile all’affilatissima punta di un grossissimo ago. Insomma, ci siamo capiti no?

    Uno dei temi sui quali da un paio di mesi a questa parte si stanno scervellando gli operatori finanziari di mezzo mondo riguarda quelle due parole che dalla scorsa estate sono tornate a rimbombare in modo minaccioso al civico numero quattro di Times Square, all’angolo con la quarantatreesima strada, al settimo piano di uno dei palazzi più famosi di New York: il Nasdaq MarketSite. Le due parole sono quelle, sì: in inglese “Internet bubble”, in italiano semplicemente “bolla di Internet”. Eh, già Internet. Perché è inutile girarci attorno. E perché dopo un 2011 in cui è successo tutto quello che poteva succedere – e in cui il Nyse di Wall Street, per dire, ha quasi dimezzato il suo valore (passando dalla quota 39.600 di metà luglio alla quota 27.000 di inizio gennaio) – oggi tutti gli occhi degli osservatori sono puntati sull’unico mercato che nell’anno appena trascorso invece che perdere terreno ne ha conquistato ancora. Il Nasdaq, appunto: l’indice dei principali titoli tecnologici della Borsa americana che nel 2011 – al contrario di tutte quante le altre principali Borse del mondo – ha guadagnato terreno ed è passato da un valore pari a 2.652 punti base ai 2.702 raggiunti proprio questa settimana. Un valore, questo, che secondo Bloomberg alla fine dell’anno – cioè quando la quotazione più attesa dell’anno dovrebbe essere portata a termine: quella di Facebook – dovrebbe avvicinarsi al massimo mai raggiunto nella storia del Nasdaq: quei 5.132,52 punti che nel 2000 prima portarono la bolla della New Economy al massimo della sua espansione e che poi la fecero rotolare in modo inesorabile sull’affilatissima punta di un grossissimo ago. Bum! Era il marzo del 2000 – ricordate? – e poche ore dopo che il Nasdaq toccò il suo massimo storico successe la stessa cosa accaduta nel 1637 in Olanda con i tulipani, nel 1719 in Europa con i titoli della Mississippi Company, nel 1929 con il dow Jones di Wall Street, nel 2008 con i mutui subprime: il mercato si gonfiò a dismisura e poi improvvisamente iniziò a crollare – perdendo in tre giorni il nove per cento del suo valore e registrando in pochi mesi prima la scomparsa di molte dot.com e poi l’arrivo di circa 560 mila nuovi disoccupati.

    E oggi? Oggi la situazione, per certi versi, sembra essere diversa da allora: all’interno del Nasdaq ci sono infatti molte società legate al dot.com che hanno una solidità maggiore rispetto a quella che avevano alcuni giganti della New Economy nei primi anni del 2000. Ma se è vero, per esempio, che la grande star del Nasdaq degli ultimi anni (Google) dalla sua Ipo, dalla sua quotazione, a oggi non ha smesso di correre – e se è vero che nel corso del 2011 il suo titolo ha registrato un rialzo vicino al 9 per cento (e a gennaio le sue azioni sono tornate dopo quattro anni a superare quota 650 dollari) – è anche vero che all’interno del settore delle nuove tecnologie c’è un comparto che, mentre veniva celebrato dalle copertine dai più autorevoli magazine internazionali, da qualche tempo a questa parte, nell’indifferenza generale, ha iniziato a offrire agli osservatori i primi segnali allarmanti: il mondo dei social network.

    Il 2011, infatti, per chi non se ne fosse accorto, è stato l’anno in cui per la prima volta alcuni importanti social network hanno sfidato la crisi economica e hanno scelto di tentare la fortuna in Borsa. Lo ha fatto Linked-in (il social network professionale più importante del mondo, che ha a suo carico qualcosa come 100 milioni di utenti), lo ha fatto Groupon (il social network dedicato all’offerta di coupon con sconti e offerte nelle proprie città, che ha a suo carico qualcosa come 130 milioni di utenti in tutto il mondo), lo ha fatto Pandora (il social network dedicato alla condivisione di musica in streaming più famoso, che solo in America ha raccolto qualcosa come 40 milioni di iscritti) e lo ha fatto anche Zynga (social network specializzato nello sviluppo di videogiochi che ha a suo carico circa 200 milioni di persone che mensilmente smanettano sulla rete con i vari CityVille, CastleVille,Texas HoldEm Poker, FarmVille). Il risultato? Non è stato buono. E, negli stessi mesi in cui il Nasdaq cresceva e Google scoppiava di salute, Groupon è passata da 20 dollari a 16 dollari ad azione; Pandora è passata da 16 dollari a 10 dollari ad azione; Zynga dai 9,5 dollari agli 8,5 di oggi; e Linked-in – che aveva aperto le danze delle Ipo dei social network prima dell’estate, passando in pochi giorni dai 45 dollari ai 110 dollari ad azione – dopo mesi di vorticosi sali e scendi ha perso quasi metà del suo valore, arrivando agli 80 dollari di oggi, e contribuendo, seppur in piccola parte, a far cadere il listino dei titoli tecnologici all’interno del Nasdaq più di quanto siano caduti i titoli di Wall Street: 14,83 per cento.

    Solo numeri? Solo suggestioni? Solo semplici interpretazioni? Non proprio. “Vedete – ha detto qualche mese fa, commentando l’imminente quotazione in Borsa di Facebook, il numero uno di Google Eric Schmidt, intervistato dal magazine svizzero Bilanz – io non credo che ci siano dubbi sul fatto che in giro vi siano chiari segnali di una nuova bolla internet: le valutazioni sono quelle che sono, lo sappiamo, ma il punto è che la gente ritiene che queste società raggiungeranno vendite enormi nel futuro, e nessuno può dire se le cose andranno davvero così”. Schmidt non è il solo a pensarla così e come lui la pensano tanto Warren Buffett – che nel 1999 fu uno dei primi a predire la bolla del dot.com – quanto il finanziere George Soros – che ha dedicato una grande parte della sua vita allo studio delle bolle speculative. “Attualmente – ha detto Buffett a fine novembre – le quotazioni dei social network sono difficili da valutare, ma la mia impressione è che la maggior parte di loro sono aziende supervalutate, e mi sentirei di dire che la bolla non è affatto da escludere”. “L’attuale escalation di quotazioni nel sottosegmento tecnologico dei social network – ha aggiunto invece Soros nella lettera inviata lo scorso luglio ai suoi investitori – lascia a desiderare e non è da escludere la possibilità del ritorno di ciò che successe al Nasdaq undici anni fa”. Quando Buffett e Soros e Schmidt si soffermano sul fatto che “la gente ritiene che queste società raggiungeranno vendite enormi nel futuro” in realtà intendono esprimere un concetto più semplice di quello che si potrebbe credere. Potremmo metterla così, con una domanda elementare: ma insomma, il prezzo del titolo dei social network oggi è compatibile oppure no con le prospettive della loro crescita futura? Il caso di Facebook, in questo senso, è forse il caso più interessante per provare a studiare la questione. Secondo molti analisti, quando Mark Zuckerberg deciderà di quotare in Borsa il social network più famoso del mondo si stima che la valutazione di Facebook al Nasdaq raggiungerà circa i 70 miliardi di dollari (una stima per difetto, si parla addirittura di quote vicine ai 150 miliardi di Ipo, che nasce dal momento in cui per acquistare poco meno dell’un per cento della società non ancora quotata Goldman Sachs e Digital Sky Technologies hanno speso lo scorso anno circa 500 milioni di dollari: 450 i primi, 50 i secondi). Ora il problema qual è? Il problema è che, stando ai dati del 2011, Facebook fattura circa 32 volte in meno quello che vale (2 miliardi di dollari all’anno) e considerando che maggiore è la differenza tra il fatturato reale di un’azienda e il suo valore in Borsa e maggiore è il rischio che un’azienda sia impossibilitata a rimborsare gli azionisti nel caso di un improvviso crollo della Borsa. Si capisce che una bolla improvvisa avrebbe l’effetto immediato di mettere ko la società di Zuckerberg.

    “Il modello di business di Facebook, così come quello di tutti gli altri social network – ci dice il professor Alberto Marinelli, docente di Nuove Tecnologie alla Sapienza di Roma – è un modello di business a rischio, ed è un modello che può sopravvivere solo nella misura in cui la società in questione continua a macinare profitti incredibili per un numero impressionante di anni. Tanto per fare un esempio: Linked-in dovrebbe crescere del 50 per cento ogni anno per raggiungere nel 2015 un fatturato tale da giustificare la capitalizzazione odierna. E poi – continua Marinelli – davvero vogliamo dire che Facebook vale più di una società come Google? Davvero vogliamo dire che Twitter vale più della Ford? Davvero vogliamo dire che Groupon vale più di Unicredit? Vedete, non siamo qui a fare previsioni catastrofistiche ma siamo qui per ragionare sul fatto che se le bolle non vengono previste in tempo rischiano di sgonfiarsi e di fare male a qualcuno. Ricordate, per dire, cosa successe a Tiscali all’inizio del 2000? All’epoca Tiscali valeva 17 miliardi di euro, persino più della Fiat, oggi, dopo la crisi delle dot.com di dodici anni fa, vale 150 milioni di euro. E se una cosa del genere succedesse a Facebook, o a Twitter, sarebbe semplicemente un disastro”.

    Non siete ancora convinti? Credete davvero che il mondo dei social network sia totalmente immunizzato dai virus della crisi economica? Pensate davvero che l’idea che vi possa essere una bolla del settore tecnologico sia solo un esercizio di terrorismo psicologico? Difficile a dirsi naturalmente. Fatto sta che dopo le parole di Buffett, dopo le frasi di Soros, dopo l’allarme di Schmidt, dopo il crollo dei titoli tecnologici al Nasdaq, e dopo la perdita di valore dei primi social network quotati in Borsa, oggi succede che gli operatori finanziari di mezzo mondo hanno individuato altri due segnali utili a far comprendere la ragione per cui parlare oggi di bolla tecnologica è tutto tranne che fantascienza. Il primo è un piccolo segnale ma è comunque un segnale che è stato accolto con preoccupazione nel mondo della finanza americana. Il segnale riguarda l’andamento di un titolo molto particolare quotato al Nasdaq. Il titolo è quello di un fondo (Gsv Capital) che alla fine del 2011 ha scelto di investire molte delle sue risorse (circa 49 milioni di dollari) proprio in titoli tecnologici. Da Groupon (2 milioni di investimento) a Twitter (8,5 milioni di investimento) passando per Zynga (4 milioni di investimento) e naturalmente Facebook (10 milioni di investimento). Ebbene, cosa è successo? E’ successo che da metà luglio a oggi Gsv Capital ha perso il 30 per cento del suo valore, tre volte più di quanto perso dal Nasdaq da luglio a oggi. Solo un caso? Difficile. Così com’è difficile sia solo un caso quello che sta succedendo nel mercato dei titoli tecnologici cinesi. Sì, quelli cinesi: avete capito bene. Nel 2011, per chi non lo sapesse, al Nasdaq di New York è successo che tra le nuove aziende quotate il cinquanta per cento di queste era di origine cinese. Il cinquanta per cento: significa un’azienda su due. Ebbene, alla fine del 2011 le così dette “US-listed Chinese Internet Stocks” – ovvero le aziende cinesi legate alle nuove tecnologie – hanno registrato un calo, netto, del cinquanta per cento del loro valore. E in particolare, delle otto principali aziende cinesi quotate al Nasdaq nel 2011 soltanto una ha chiuso l’anno con una quotazione superiore alla valutazione di ingresso (“Qihoo 360”, il secondo browser per navigare sulla rete più utilizzato della Cina). Tutte le altre grandi società cinesi, invece, hanno subito dei cali mostruosi. Alcuni del 34 per cento (Jiayuan), altri del 38 per cento (Vianet), altri ancora del 43 per cento (NetQin), del 46 per cento (Taomee), del 52 per cento (Phoenix New Media), del 59 per cento (Tudou) fino al 73 per cento perso da “Renren”, l’omologo di Facebook in Cina: partito con un prezzo Ipo di 14 dollari e arrivato a inizio 2012 a circa 3,7 dollari. Per non parlare poi del caso del YouTube cinese (Youku), che dal 19 aprile 2011 a oggi ha visto scendere di quasi il 70 per cento il suo valore di mercato (passando dai 67 dollari di aprile ai 36 dollari di oggi). Numeri, numeri, numeri. Numeri per certi versi spaventosi, sì, ma numeri ai quali vanno però accostati altri numeri per avere un’idea più chiara del nuovo quadro dell’universo delle dot.com. Perché, è vero, la bolla tecnologica sembra pronta per essere infilzata da un nuovo grandissimo ago, ma la verità è che la condizione necessaria affinché la bolla collassi su se stessa è che i rubinetti che portano denaro nel mondo dell’on line vengano chiusi improvvisamente. E in questo senso, i numeri da tenere d’occhio sono quelli legati alla pubblicità on line. E i numeri qui, a dire il vero, sembrano essere incoraggianti. Come ricordato dal numero di fine anno dell’Economist, il 2011 è stato un anno particolarmente positivo per il mondo della pubblicità on line: e negli Stati Uniti le cose sono andate meglio persino rispetto al 2010 (anno in cui la pubblicità su Internet ha superato per la prima volta quella sui media di carta). E così, mentre in America all’inizio dello scorso anno era previsto un incremento della pubblicità on line di circa il 10 per cento annuo fino al 2014, in realtà già dal primo trimestre 2011 la crescita del settore è aumentata più del previsto, sfiorando un clamoroso più 23 per cento (ragione per cui nel 2011 Google, i cui ricavi arrivano al 98 per cento dalla pubblicità on line, ha continuato a crescere a crescere e a crescere). E i numeri sono ancora più da sballo considerando che le stime (fonte eMarketer) prevedono che entro il 2015 il mercato della pubblicità on line andrà a ricoprire circa il 28 per cento della spesa pubblicitaria degli Stati Uniti (con la televisione tallonata sempre più da vicino, dato che oggi la pubblicità in tv in America vale circa il 38 per cento del mercato pubblicitario).

    “Generalmente – ha scritto sull’Economist il professor Jean-Paul Rodrigue, docente di Imprenditoria alla Stanford University e alla Columbia University pochi giorni dopo l’incredibile caso della quotazione di Linked-in – una bolla tecnologica è formata da quattro fasi: stealth, awareness, mania e blow off. La prima fase è quella dell’azione furtiva: i venture capitalist adocchiano un settore, o un segmento di mercato in forte crescita in cui investire, e iniziano a spendere soldi. La seconda fase è quella della consapevolezza in cui, dopo i primi astuti capitalisti, arrivano i secondi investitori che portano denaro nelle casse delle società, e ne fanno lievitare il prezzo. Un esempio? Quello del fondo di investimento russo, Dst, che alla fine del 2011 ha iniettato 200 milioni di dollari in Facebook. Il terzo stadio, quello della mania, prevede delle improvvise e irrazionali quotazioni alla fine del primo giorno di negoziazione. Un esempio? Linked-in: un’azienda che fattura poco più di 300 milioni di dollari l’anno che al primo giorno di quotazione ha toccato i 4,2 miliardi di dollari. Infine, dopo la mania, c’è il blow off: la fase di sfogo, dello sgonfiamento. Ecco – conclude Rodrigue – nessuno mette in dubbio che i social network abbiano rivoluzionato Internet e che siano dei bocconi appetitosi per via dei loro milioni di contatti. Il punto è che nessuno ci garantisce che queste compagnie abbiano le spalle solide per sopportare il peso di una bolla. E dato che ormai siamo alla fine della fase mania sarebbe il caso che i vari Facebook e Twitter dimostrassero che hanno le spalle larghe. Sennò, puf, la bolla sappiate che ormai è davvero pronta a esplodere”.
    www.ilfoglio.it/cerazade
    twitter@ClaudioCerasa

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.