In memoria dei cavalli
Joey attraversò tutte le frontiere – e tutte le crudeltà degli uomini. Vide il sangue di milioni di esseri umani mischiarsi con il sangue di milioni di suoi simili – mortalità dei quadrupedi, mortalità dei bipedi, e sempre “la mia mortalità dovrebbe commuoverti”. Rose Line invece doveva correre e correre e correre – ancora non domata, giovane e fiera, e bella tanto da saper persino lasciarsi dietro il vento: e avrebbe sentito il suo sudore sulla pelle e le grida degli umani che scommettevano sulla sua velocità.
“Zeus vide il pianto, ebbe pietà dei divini corsieri. E disse: ‘Alle nozze di Pèleo avrei dovuto agire con più circospezione. Meglio, o miei cavalli, che non vi avessi mai ceduto! Che cercate laggiù tra i mortali, tra i miseri balocchi della sorte? Ora, eccovi afflitti da effimeri mali, voi che io ho fatto liberi da vecchiaia e da morte, e già partecipi dei guai degli umani’…” (Constantinos Kavafis, “I cavalli di Achille”)
Joey attraversò tutte le frontiere – e tutte le crudeltà degli uomini. Vide il sangue di milioni di esseri umani mischiarsi con il sangue di milioni di suoi simili – mortalità dei quadrupedi, mortalità dei bipedi, e sempre “la mia mortalità dovrebbe commuoverti”. Rose Line invece doveva correre e correre e correre – ancora non domata, giovane e fiera, e bella tanto da saper persino lasciarsi dietro il vento: e avrebbe sentito il suo sudore sulla pelle e le grida degli umani che scommettevano sulla sua velocità. Come hanno fatto per tutta la vita di Miss the Point, che ora si riposa. Gli uomini a volte fanno cose molto stupide: la guerra, la più stupida e feroce di tutte le cose stupide e feroci che sanno fare; e ancora, forse solo un peccato di vanità e di tiepida stupidità, fanno correre e poi scommettono comodamente – sull’altrui corsa, sull’altrui fatica. E così è – nonostante il sogno alcolico e poetico di Charles Bukowski, “accarezzare i cavalli vincenti”, e il perdersi e il ritrovarsi tra il rumore degli zoccoli in pista e zoccole fuori pista , “non vi venga l’idea che io sono un poeta: mi trovate / mezzo sbronzo all’ippodromo ogni giorno / a puntare su quarter, trottatori e purosangue, / ma fatevelo dire, là ci sono delle donne / che seguono i quattrini, e qualche volta / quando guardi queste puttane queste puttane da cento dollari / qualche volta ti domandi se la natura non ha scherzato / a regalare tanto petto e tanto culo e la maniera / in cui tutto sta insieme…” – così che forse a Roma non è un modo di dire, quando si vuol dire dell’incapacità di qualcuno di poca pratica di tutto, “ma datte all’ippica!” (pure, a volte, “cor cavallo a dondolo”).
Travolti dalla crisi, gli ippodromi italiani chiudono – perché soldi ne girano meno, perché lo stato si fa biscazziere con altri metodi (gratta! vinci! subito! – non c’è nemmeno la voglia e la pazienza di aspettare il volare meraviglioso e triste di un cavallo su una pista chiusa), forse perché certe forme di divertimento (divertimento?) semplicemente passano di moda: come la termocoperta, lo cherry e Giulio Andreotti – di corse di uomini e di cavalli appunto grande esperto. E prendono quota, invece, le miserabili bastardate delle corse clandestine, i cavalli ammazzati per le strade delle città – mascalzoni gli organizzatori, mascalzoni gli scommettitori: criminali gli uni, paracriminali gli altri. Ci sono quindicimila cavalli che chissà che fine faranno. Alcuni sono assistiti, come a Tor di Valle. “Per molti altri cavalli, la chiusura degli ippodromi potrebbe rappresentare l’anticamera del macello”, scrive la Repubblica. “I cavalli da corsa non possono andare al macello, in quanto non sono destinati all’alimentazione umana”, spiegano. “Così capita che le uccisioni degli animali vengano fatte in scannatoi abusivi” (si tornerà, con Tolstoj, su questa parola – scannatoi, scannatore: parola orrenda, che esiste solo per un mestiere da uomini). “In Italia sarebbero quindicimila che rischiano di andare al macello”, dicono alcuni gestori di ippodromi. Ripugna, pensarlo. “Non è che si può continuare a mantenerli tutti senza nessun provento” – ripugna sentirlo. Gli adoratori di bistecche potrebbero essere capaci di tutto (c’è il sospetto che siano capaci di tutto, quelli capaci di mangiare di tutto: come se ogni pezzo della Creazione potesse essere afferrato e comprato e squartato e ingoiato e lietamente defecato): anche di far precipitare nello stomaco una creatura in cui sempre i migliori hanno visto una bellezza che stordisce e un alito divino, dono di Dio persino, come Kavafis con Zeus, e in quel meraviglioso, antico proverbio arabo: “L’aria del Paradiso è quella che soffia tra le orecchie di un cavallo”.
Quella di Joey è un’altra storia – una favola, atroce e bella, che racconta Steven Spielberg nel suo nuovo film, “War Horse” (come il titolo del libro di Michael Morpurgo). Joey è un cavallo che attraversa i territori devastati dalla Prima guerra mondiale – come milioni di suoi simili: e quattro milioni di essi, e milioni di uomini, creparono e furono lacerati e si persero nel fuoco e nel fango in quell’abominio di trincee e di stupidità e di baionette. “Tremavo di paura in attesa della prossima pallottola o bomba e volevo restare solo, lontano da qualunque rumore, che fosse minaccioso o meno”. Alla fine riuscirà a tornare a casa – testimone di cosa sono capaci coloro che un cavallo vorrebbero pure condurre.
Ci dev’essere una sorta di percezione tra gli uomini, sulla maggiore grandezza di un cavallo rispetto a molti di essi. E non solo perché il cavallo c’era già – fermo sulle stupefacenti gambe, veloce e libero – quando i primi umani fecero la loro comparsa sulla terra, e in piedi neanche sapevano stare, e correre neppure, grugnire appena. C’è solo da pensare all’invenzione del mito del centauro – all’uomo che non si basta e che sogna di essere metà cavallo, di rubare per sé metà di quella bellezza, di quel saper correre nel vento: ché a un cavallo l’idea di essere metà uomo, chiaramente, non è mai venuta. Come sosteneva Milan Kundera (“L’insostenibile leggerezza dell’essere”), rievocando la faccenda della Genesi, con bestie create e al dominio dell’uomo affidate: “Naturalmente la Genesi è stata redatta da un uomo, non da un cavallo”. Bestia di stupore e di meraviglia – anche meravigliosamente amata e capace di riamare (Bucefalo, che si fa domare solo da Alessandro, e con lui in groppa andrà alla conquista di un intero mondo) – a fini ignobili è stata spesso utilizzata. Nelle guerre, appunto, nelle mille e mille guerre fin dove lo sguardo nel passato può arrivare – e la sua stessa figura, magica e di luce e di una sorta di tenerezza verso il suo cavaliere (persino il più carogna, persino il più sanguinario) è servita per conquistare sterminati imperi: è con pochi cavalli, una ventina, bestie divine agli occhi di chi non li aveva mai visti, che Cortés devasta e afferra quello azteco. E persino oltre le conquiste terrene: quell’imperatore cinese del Secondo secolo a caccia dell’immortalità (sempre qualche esaltato ha avuto di tali paranoie) che spedì i soldati ai confini estremi del regno perché trovassero certi cavalli leggendari capaci di portarlo in cielo. E comunque lassù, a dar retta alla Bibbia, di sicuro qualche cavallo è arrivato: cavalli di fuoco, su un carro di fuoco, fecero salire il profeta Elia “nel turbine verso il cielo”. E sanno compiere magie: quando nasce dal sangue di Medusa, Pegaso fa sgorgare acqua e canzoni e si muta in costellazione: perciò, lì è andato e lì ancora sta. E forse non era levato verso il cielo, sollevato da una gru, il corpo di quel cavallo morto nel centro di Roma – una di quelle povere bestie che trovi nella pena insensata di dover trascinare un carretto stracolmo di turisti, gli occhi bassi sul selciato, le macchine che ne sfiorano il corpo? E da sotto, mentre il corpo della bestia veniva sollevato, le sue gambe inerti, come rami secchi – come artigli che un giorno qualcuno alla ragione potranno ricondurre – pendevano da sotto le nuvole. E nei sogni, infine, esistono: l’unicorno, tra i cavalli il più magico – di leggendaria meraviglia e bellezza, così da trovarne traccia nel tesoro dell’infido Bonifacio VIII, “quattro coppe di unicorno, lunghe e contorte”: chissà cos’erano, chissà da dove venivano, chissà con quale avidità si conservavano.
C’è qualcosa di sordido, nella crudeltà verso un simile animale. Anche crudeltà più sottili, apparentemente quasi un’assenza di crudeltà. Poco prima di morire, Marguerite Yourcenar progettava di scrivere un libro, “Paysage avec des animaux”, dove “l’uomo non sarebbe visto che nel suo rapporto con l’animale: uomini che si sono serviti di animali, a volte persino nei loro crimini contro l’uomo”. E spiegò, la scrittrice: “Penso ad esempio ai cristiani offerti alle bestie feroci, ma anche a quella miniatura, che trovo terrificante, di Fouquet, in cui si vede Filippo Augusto, su un cavallo ingualdrappato di velluto azzurro, che guarda bruciare gli eretici da vicino; il fumo deve aver dato fastidio al cavallo innocente” – come il fumo dei corpi che bruciavano nelle trincee spaventava e infastidiva l’innocente Joey. Ci sono orrori a cui gli animali non avrebbero mai assistito (oltre a quelli di cui sono vittime), se gli uomini non fossero capaci di compierli. E incapaci così spesso di ricambiare le loro lacrime – anche se i migliori tra i viventi lo hanno fatto. Come le lacrime che evoca Omero nel XVII libro dell’“Iliade”: quelle dei cavalli di Achille di fronte alla morte in battaglia di Patroclo – da Achille amatissimo. Piangono, le bestie, il dolore del loro padrone. E così Kavafis mise in versi quel canto omerico memorabile, migliaia di anni dopo – celebrando un amore e un inaspettato dolore: “Come lo videro morto / lui così bravo così forte così tenero / i cavalli di Achille si misero a piangere Patroclo – / era lo sdegno del loro io immortale / che fremeva a quel tragico guasto. / Piegavano la testa, scuotevano le lunghe criniere / e con l’unghia raspavano la terra lamentando / unitamente il sentirlo lì sotto esanime, distrutto, / con il suo peso ormai inutile di carne, lo spirito / smarrito, indifeso, senza fiato; / dalla vita restituito al Gran Nulla”.
Non scompariranno certo i cavalli: c’erano prima di noi, ci saranno anche dopo. Hanno qualcosa di eterno, rispetto alla nostra fragilità. Non si avvererà la cupa profezia di quel cupo (saggio?) profeta che fu Emil Cioran: “La scomparsa degli animali è un fatto di una gravità senza precedenti. Il loro carnefice ha invaso il paesaggio: non c’è posto che per lui. L’orrore di vedere un uomo là dove si poteva contemplare un cavallo!”. Ma questa storia dei quindicimila che non si sa che futuro avranno, e che alcuni rischiano il coltello del macellaio, ecco, dovrebbe inquietare: bestie meravigliose usate per il nostro divertimento, e a divertimento forzatamente finito bestie da scarto – e quindicimila banalissime Ferrari (una bestia copia di un’altra, come una macchina all’altra simile, non esiste) troverebbero subito sistemazione, c’è da pensare. Noi non li conduciamo più alla guerra (seppure, tra gli insensati del mondo qualcuno di certo lo farà), né davanti al rogo degli eretici (seppure…), ma ecco che non sappiamo cosa fare di loro – quando di loro non possiamo più fare ciò che amavamo fare. Chissà se per la loro sorte ci saranno lacrime – come a loro successe, per l’amato del loro Achille morto. Ben oltre le bolse stupidaggini d’antan, “sorge il sole, canta il gallo / Mussolini monta a cavallo”, e Francesco De Gregori anni dopo, con perfetta similitudine, faceva notare come “i cavalli a Salò sono morti di noia / a giocare col nero perdi sempre”, a qualcosa di più dovremmo pur prestare attenzione – non lo scuotere indifferente delle spalle (“e che andavo all’ippodromo, io?”), meno ancora il lento procedere di rivoli di sangue di una bistecca in un piatto (anche perché, e conviene stare allertati su certe faccende, secondo gli indiani Arikara le anime dei cavalli puniranno chi è crudele con loro).
Certo, avrebbero molto da fare – le bestie, nell’aldilà. Tolstoj ha scritto un incredibile racconto su un cavallo – e la sua uccisione. Si intitola “Passolungo” – è il suo bellissimo nome. E’ ferito, trascina una zampa. Ecco la sua morte – per mano dello “scannatore”, che lo porta fuori dalla stalla per ucciderlo, e gli impedisce di avvicinarsi un’ultima volta all’abbeveratoio. “Non ne vale la pena!” – così ragiona sempre uno scannatore: nei romanzi e nella realtà. Poi estrae il coltello e una pietra per arrotarlo. Passolungo si culla in quel rumore, si fida. Crede che gli uomini abbiano per lui le lacrime che i suoi simili avevano per Achille. “Forse mi vogliono curare – pensò – lasciamoli fare”. “E difatti sentì che avevano fatto qualcosa alla sua gola. Provò dolore, ebbe un tremito, agitò una zampa; ma si trattenne e cominciò ad attendere ciò che doveva succedere poi… Dopo successe che qualcosa di liquido gli colò giù, come un fiotto, sul collo e sul torace. Sospirò con tutte le costole. E si sentì più leggero, molto più leggero. Chiuse gli occhi e cominciò a lasciar cadere la testa – nessuno la sosteneva. Poi le zampe cominciarono a tremargli, e tutto il suo corpo oscillò. Non era tanto spaventato quanto meravigliato. Tutto era diventato così nuovo. Si meravigliò, volle tirarsi in avanti, in su… Ma invece le zampe, spostandosi, gli si accavallarono, cominciò a cadere sul fianco; voleva fare un passo ma cadde avanti sul fianco destro. Lo scannatore aspettò che finissero le convulsioni…”. Poi lo scuoiano, saccheggiano il suo corpo. “Ah, è stato un buon cavallo!” – gli scannatori così pensano. Una cavallina bruna si ferma lì vicino – di qualche strano amore l’amava, Passolungo. Forse piange, “allungò la testa e il collo e fiutò a lungo l’aria. Durarono fatica a mandarla via”. Questo però gli scannatori non lo sapranno mai – di lacrime e di certi odori da pelle a pelle non sanno.
E c’è un altro bellissimo racconto – su una cavallina e sulle sue lacrime. Lo ha scritto l’autore di “Vita e destino”, Vasilij Grossman, si intitola “La strada” (è nel volume “Il bene sia con voi!”, Adelphi). C’è un mulo, di nome Giu, che la stupidità italica della guerra fascista ha scaraventato da un fronte all’altro, dall’Africa alla gelida Russia. Lo frustano sempre, a Giu: sul ventre, dove la pelle è più morbida. Lo colpiscono sui denti, sul muso, sul fianco. Gli danno pedate sulle zampe. Sono cattivi gli uomini – la guerra ancor di più li incattivisce. L’altro mulo, che tira con lui il carro, muore di queste spietatezze. Vicino a Giu attaccano allora una cavalla di Vologda. Giu sente il suo calore, si sposta sulle stanghe in maniera da portare lui il peso più grande – lei poggia la sua testa sul suo collo. “La vita del mulo Giu e il destino della cavalla di Vologda si erano contagiati a vicenda con il tepore del fiato, con la stanchezza degli occhi, e uno strano incanto si era prodotto in quei due esseri fiduciosi e teneri che stavano l’uno accanto all’altra nella pianura spazzata dalla guerra sotto un grigio cielo invernale”. Gli uomini li guardano – e persino degli uomini in guerra si accorgono di una cosa. “‘Quell’asino di un mulo ci ha messo poco a farsi piacere la Russia!’, rise un mulattiere. ‘No, guarda meglio, stanno piangendo tutti e due’, disse un altro. E sì, stavano proprio piangendo”. Sulla loro poca vita. Sulla cattiveria degli umani. Sulla crudeltà della guerra. Ma ancora – come tremila anni fa sotto le mura di Troia, al centro di una mattanza, la visione delle lacrime di un cavallo: a segnare l’ascesa del dolore che gli uomini non sanno vedere – sono, quelle lacrime, anche lacrime loro, che non sanno di avere.
Magari (ma chissà) commuoveranno gli scannatori futuri – così che nessun cavallo venga ucciso. E che la favola di Joey aiuti a ritrovare un senso anche a coloro che hanno il coltello in mano. E se non basta la pietà, allora ben vengano gli indiani Arikara (North e South Dakota): se toccate un cavallo son cazzi dell’anima vostra. Se tra le mani tenete un coltello, tra le mani farete bene, scaramanticamente, a tenere anche le vostre inutili palle.
Il Foglio sportivo - in corpore sano