Washington-Gerusalemme

La Cia e il Mossad si tirano calci sotto il tavolo del fronte anti Teheran

Daniele Raineri

La storia grande è quella dell’accelerazione non voluta verso uno scontro diretto tra Stati Uniti e Iran nelle acque del Golfo, e in parallelo a questa crisi territoriale corre la questione delle sanzioni brutali decise a Washington contro il programma atomico iraniano. La storia più piccola è quella di Cia e servizi segreti d’Israele, che si starebbero lanciando avvertimenti e scambiando sfavori. Il contesto è quello che è successo – che sta ancora succedendo – nelle ultime due settimane.

    La storia grande è quella dell’accelerazione non voluta verso uno scontro diretto tra Stati Uniti e Iran nelle acque del Golfo, e in parallelo a questa crisi territoriale corre la questione delle sanzioni brutali decise a Washington contro il programma atomico iraniano. La storia più piccola è quella di Cia e servizi segreti d’Israele, che si starebbero lanciando avvertimenti e scambiando sfavori. Il contesto è quello che è successo – che sta ancora succedendo – nelle ultime due settimane. Anne Gearan, che segue la sicurezza nazionale per Associated Press, scrive che il rischio di guerra con Teheran “durante il mandato di Barack Obama non è mai stato così alto”. Il capo di stato maggiore Martin Dempsey da oggi è in Israele per lavorare a una strategia comune. Un contingente senza precedenti di militari americani lo ha preceduto e presidia le batterie antimissile contro un eventuale attacco da fuori. La marina dice che due unità sono state disturbate in modo aggressivo da motoscafi iraniani. Il segretario al Tesoro, Tim Geithner, martedì scorso è stato a Pechino per convincere i cinesi a partecipare alle sanzioni. I sauditi offrono rassicurazioni sul fatto che riusciranno a pompare greggio a sufficienza per tutti, anche se verrà meno l’offerta da parte dell’Iran. Teheran versa in una crisi monetaria gravissima, tanto che intermediari si procurano di contrabbando dollari dalla Banca centrale del vicino Iraq.

    E’ un’accelerazione e l’Amministrazione Obama vuole frenare. Considera lo scontro un fallimento della propria politica, non intende affrontare un altro problema di sicurezza militare e per questo ha aperto un canale segreto con il nemico al massimo livello. Giovedì scorso il New York Times ha scritto che la Casa Bianca è riuscita a entrare in contatto con la Guida Suprema, Ali Khamenei. Laura Rozen, ex Politico ora specialista ben informata per Yahoo!News, specula che gli Stati Uniti si siano affidati a un paese terzo, un intermediario, e nota che il ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu prima s’è incontrato con il sottosegretario al dipartimento di stato, Bill Burns, ad Ankara e poi è volato a Teheran dicendo di essere latore di un messaggio da parte dell’occidente.

    “Non c’è un telefono rosso (tra Washington e Teheran) – dice Patrick Clawson, direttore del Washington Institute for Near Policy – si è trattato di una lettera”. L’avvertimento mandato a Khamenei da Obama è che la chiusura dello Stretto di Hormuz – minacciata a più riprese  nei primi dieci giorni di gennaio – “è una linea rossa che se attraversata provocherebbe la risposta americana”. La missione di Davutoglu ha avuto un secondo scopo: il ministro turco ha detto che la Turchia è pronta a ospitare il prossimo round di negoziati sul nucleare tra Europa, America e Iran. Le condizioni poste dagli americani sono severe, ma da Teheran non arriva un “no”, là sostengono anche di “avere risposto” alla proposta di nuovi colloqui avanzata dal capo della diplomazia dell’Ue, Catherine Ashton.

    A questo punto mercoledì, con tempismo disgraziato, uno scienziato nucleare iraniano, Mostafa Ahmadi Roshan, è stato ucciso da una bomba attaccata da due motociclisti alla portiera della sua macchina in mezzo al traffico di Teheran. Il governo dell’Iran ha subito accusato Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele. Il segretario di stato Hillary Clinton ha categoricamente negato “qualsiasi coinvolgimento americano in atti di violenza dentro l’Iran”. Due giorni dopo, ecco il giornalista di Foreign Policy Mark Perry tirare fuori, grazie a fonti nella Cia, una storia scabrosa, di quando Obama non era ancora presidente. I servizi israeliani reclutavano i loro agenti in Iran anche tra i membri di un gruppo terrorista sunnita, Jundullah, e agivano facendo finta di essere agenti americani della Cia o della Nato. Tanto che persino il loro capo, Abdolmalek Rigi, catturato dagli iraniani nel 2010, confessava durante gli interrogatori di sospettare che qualcosa non quadrasse perché gli incontri avvenivano in Marocco e a Londra, e non invece in Afghanistan dove sarebbe stato più semplice e comodo per tutti. Rigi è stato giustiziato nella prigione di Evin nel marzo 2010. Quando nell’Amministrazione Bush vennero a sapere dell’operazione a nome americano – scrive Perry – montarono su tutte le furie. Jundullah fu poi dichiarata organizzazione terroristica – come al Qaida – dal dipartimento di stato poche settimane dopo l’insediamento di Obama alla presidenza.

    Se l’uccisione mirata a Teheran è legata ai servizi israeliani ha aggiunto tensione a un tempo di tensione già forte. Se le informazioni sul Mossad pubblicate da Perry non sono arrivate per caso, si tratta di uno calcio sotto il tavolo fra colleghi. Domenica il vice primo ministro israeliano, Moshe Yaalon, ha detto di essere “deluso dalle esitazioni di Obama, che frena sulle sanzioni decise dal Congresso perché è un anno elettorale”. Le intenzioni sono in comune, le relazioni sono più difficili.

    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)