Le bizzarrie dei giornaloni su S&P's che rafforzano Monti

Stefano Cingolani

Mentre le Borse sembrano aver già digerito il declassamento di mezza Europa, anche il finlandese Olli Rehn, commissario all’Industria, riconosce che “le agenzie di rating non sono imparziali”. Alla buon’ora. I tecnici del debito non sono puri. Ma siamo sicuri che abbiano sbagliato la diagnosi? Sui giornali italiani durante il weekend se ne sono lette di cotte e di crude. Il sublime è arrivato come sempre dalla Repubblica dove la penna del Fondatore ha tradotto direttamente dall’inglese il comunicato di Standard & Poor’s.

    Mentre le Borse sembrano aver già digerito il declassamento di mezza Europa, anche il finlandese Olli Rehn, commissario all’Industria, riconosce che “le agenzie di rating non sono imparziali”. Alla buon’ora. I tecnici del debito non sono puri. Ma siamo sicuri che abbiano sbagliato la diagnosi? Sui giornali italiani durante il weekend se ne sono lette di cotte e di crude. Il sublime è arrivato come sempre dalla Repubblica dove la penna del Fondatore ha tradotto direttamente dall’inglese il comunicato di Standard & Poor’s per sostenere che “il downgrade ha rafforzato la statura di Monti e del suo governo”. Intanto, il Corriere della Sera in prima pagina si chiedeva chi possiede queste agenzie e all’interno pubblicava una pignola disamina degli “errori fattuali”.

    Un po’ su tutti i quotidiani imperversano trame e complotti, dietro i quali si nascondono, ça va sans dire, gli Stati Uniti. Vuoi vedere che il gruppo editoriale McGraw-Hill, principale azionista di S&P’s, è una copertura della Cia? Nell’ormai lontano luglio 2008, il Foglio ha ricostruito storia, proprietà ed errori delle agenzie di rating. Le critiche hanno suscitato una piccata replica della direzione italiana di S&P’s la cui sostanza era questa: siamo indipendenti non solo dai nostri azionisti, ma dai nostri clienti (imprese, banche, governi che ci commissionano le ricerche e pagano salate commissioni); non è vero che influenziamo i mercati, siamo solo alcune voci nel coro degli analisti. La seconda affermazione sfida il senso comune, alla prima ha risposto il Senato degli Stati Uniti mettendo sotto un pesante fuoco di fila la commistione di interessi tra arbitri e giocatori.

    Ruggini del passato a parte, è possibile non pensare sempre a chi giova, leggere senza paraocchi quello che sostiene S&P’s e poi decidere se ha torto o ha ragione? Proviamo a farlo. Sull’Italia “degradata” in serie B (BBB+ per i titoli a lungo termine) sostiene: “Il downgrade è dovuto dalla crescente vulnerabilità dell’Italia ai rischi finanziari esterni, data l’alta proprietà estera del debito governativo. E’ nostra opinione che l’approfondirsi dei problemi politici, finanziari e monetari all’interno dell’Eurozona sta esacerbando i vincoli di finanziamento esterno dei settori pubblico e privato”. Sbagliato? E allora perché lo spread non si schioda da 500 punti (che vuol dire tassi al 7 per cento)? Di conseguenza, dice l’agenzia, “i costi sono cresciuti in modo marcato e resteranno alti per un esteso periodo di tempo”. Vero o falso? Il Tesoro nel 2012 e 2013 dovrà pagare rendimenti sempre più alti riducendo la tradizionale forza del debito italiano, cioè la sua lunghezza temporale (in media ancora sette anni). S&P’s stima che il debito esterno netto è pari al 240 per cento delle entrate correnti nette. Per pagare gli interessi bisognerà aumentare il risparmio interno o ridurre l’investimento.

    Non solo. Il Vertice europeo di dicembre “non ha determinato nessuna rottura”. L’intesa sul Fiscal compact si basa sulla convinzione che i problemi finanziari della zona euro derivino dagli “sprechi dei dissoluti paesi periferici”. Invece, sono generati da “crescenti squilibri esterni e divergenze di competitività tra il nocciolo dell’Eurozona e la cosiddetta periferia. Di conseguenza, un processo di riforma basato sulla sola austerità fiscale rischia di diventare autolesionista, dato che la domanda cade in linea con le crescenti preoccupazioni dei consumatori sulla sicurezza del posto di lavoro e dei redditi disponibili”. Sembra di leggere gli editoriali di Paul Krugman sul New York Times. Siamo in pieno protokeynesismo. S&P’s ce l’ha con il rigore germanico che deprime i redditi, la domanda e lo sviluppo. Chissà cosa direbbe un’eventuale agenzia europea a caratura teutonica. S&P’s ha torto? Allora non ci resta che la decrescita infelice.