Nel Pd spunta un fronte montiano che chiede a Bersani di convocare il congresso

Claudio Cerasa

Si parlerà ancora di riforma del mercato del lavoro, naturalmente. Poi ci saranno la questione della legge elettorale, i ritocchi sulla riforma del welfare, le valutazioni sul pacchetto delle liberalizzazioni e i suggerimenti da presentare lunedì prossimo in Parlamento prima della sottoscrizione della mozione unitaria con Pdl e Udc sulla politica europea del governo Monti. Si discuterà di tutto questo, tra oggi e domani, durante l’Assemblea nazionale convocata a Roma dal Partito democratico.

    Si parlerà ancora di riforma del mercato del lavoro, naturalmente. Poi ci saranno la questione della legge elettorale, i ritocchi sulla riforma del welfare, le valutazioni sul pacchetto delle liberalizzazioni e i suggerimenti da presentare lunedì prossimo in Parlamento prima della sottoscrizione della mozione unitaria con Pdl e Udc sulla politica europea del governo Monti. Si discuterà di tutto questo, tra oggi e domani, durante l’Assemblea nazionale convocata a Roma dal Partito democratico. Ma al di là della scaletta ufficiale della due giorni dem c’è un tema che in queste ore continua a vivere sottotraccia nel movimentato mondo del Pd. Il tema è presto detto ed è riassumibile con la stessa domanda che in questi giorni si stanno ponendo un gran numero di esponenti del Pd: ma davvero qualcuno crede che non sia necessario prima delle prossime elezioni ridiscutere la linea del nostro partito? E davvero c’è qualcuno convinto che non sia da convocare al più presto un congresso per certificare il nuovo percorso del Pd?

    La questione, al contrario di quanto si potrebbe credere, non è un capriccio sollevato da una singola minoranza del Pd (quella meno in sintonia con la linea del segretario: veltroniani, fioroniani e compagnia) ma è un argomento che viene rilevato anche in ambienti più vicini al segretario. “Di sicuro – dice Francesco Boccia, deputato lettiano del Pd – Monti ha dimostrato al nostro partito che non è necessario seguire una linea legata alla sinistra conservatrice per ottenere buoni risultati. Bersani è stato bravo a tenere insieme tutte le anime del Pd e se continuerà a dimostrare che il campo in cui il nostro partito deve giocare è lontano da quello di Vasto non credo sia necessario dover ricorrere a congressi e congressini. In caso contrario la faccenda sarebbe diversa”.  Nel Pd, a nessuno è sfuggito che l’appoggio al governo Monti ha costretto Bersani a rivedere alcuni dei punti cardinali scelti  per orientare la rotta della sua leadership democratica. E proprio questa improvvisa sterzata offerta dal segretario ha avuto l’effetto di eccitare (e incoraggiare) tutti coloro che da tempo sostengono che per il più grande partito progressista del paese sia una necessità irrinunciabile quella di presentarsi alle prossime elezioni con un profilo più riformista rispetto a quello offerto in passato.

    “Il governo Monti – dice al Foglio Enrico Morando, senatore del Pd – sta offrendo a tutti i riformisti una lezione esemplare. In due mesi sono state messe all’ordine del giorno tutte quelle riforme di cui il nostro paese aveva bisogno da vent’anni e i sondaggi mi sembra che stiano premiando la scelta di appoggiare le politiche presentate dal presidente del Consiglio. Si tratta però di una piccola rivoluzione rispetto a quanto professato fino a due mesi fa dai vertici del nostro partito, basti pensare al fatto che la nostra segreteria ha dovuto fare un passo indietro nella difesa a oltranza dell’articolo 18”. Questo per quanto riguarda la premessa, poi Morando nomina anche la parola che in molti oggi vorrebbero pronunciare all’Assemblea nazionale del Pd ma che nessuno probabilmente avrà il coraggio neppure di sussurrare: congresso. “Detto questo è importante – aggiunge Morando – che il passo in avanti fatto dal Pd rimanga tale in futuro, e che non ci sia nessun ritorno al passato. Nessun ritorno alle foto di Vasto. Nessun ritorno al recente passato conservatore. E in questo senso io dico che è impensabile andare alle prossime elezioni come se non fosse successo nulla. E’ ovvio: si deve arrivare a un nuovo confezionamento della proposta politica, e tutto questo può succedere solo all’interno di una battaglia congressuale che il Pd deve convocare ben prima delle prossime elezioni”.

    E come Morando la pensa anche il braccio destro di Giuseppe Fioroni, Lucio D’Ubaldo, senatore del Pd, anch’egli di Modem, che suggerisce una precisa scadenza temporale per mettere a fuoco i nuovi equilibri del Pd. “Entro aprile o maggio – dice D’Ubaldo – ci deve essere una verifica, subito dopo le amministrative. E’ importante che sia così per arrivare al prossimo autunno con la certezza di chi sarà il candidato premier con cui il Pd si presenterà alle elezioni”. Congresso, congresso, congresso, dunque. Un congresso per ridiscutere la linea del partito e per capire se il leader che deve portare il centrosinistra al voto è quello attuale oppure no. “In questi primi sei mesi dell’anno – dice Stefano Ceccanti, senatore del Pd – è importante muoversi in modo compatto per aiutare il governo a far risorgere il paese ma una volta conclusa questa fase è improponibile presentarci di fronte ai nostri elettori senza aver certificato se la nuova linea del partito è la linea su cui ci ha orientato il governo Monti oppure se quella di Monti è stata semplicemente una pausa di riflessione. Per questo lo dico anche io senza problemi: chiedere la convocazione di un congresso non può essere un tabù”.

    Al di fuori del circolo della minoranza del partito, anche nelle altre aree del Pd sembra essere però sentito il tema del non poter far finta che il governo Monti non abbia rivoluzionato il Pd. “Dopo le amministrative – dice Pippo Civati – sarebbe il caso di convocare una serie di grandi convention all’americana per discutere dei temi, degli argomenti e delle alleanze che costituiranno il Dna del prossimo progetto con cui il nostro partito andrà alle elezioni: finora, da quando si è insediato il governo Monti non è stata convocata neppure una direzione dai vertici del Pd e prima si spiegherà ai nostri elettori quali sono le nostre intenzioni e meglio sarà per il futuro del nostro partito”. Bersani, in più occasioni, ha lasciato intendere che la parola congresso bisogna maneggiarla con la stessa cura (vedi alla voce parole altamente infiammabili) con cui il Pd ha maneggiato in questi mesi l’espressione “articolo 18”.

    Ma di fronte alle richieste delle minoranze del Pd, che sognano di poter certificare attraverso la convocazione di un congresso la formazione di una nuova maggioranza del partito, tra i bersaniani più fedeli c’è qualcuno che invece la sfida dice che sarebbe un peccato non accettarla. “Se qualcuno dovesse chiederlo in modo ufficiale – dice Matteo Orfini, responsabile Cultura del Pd – secondo me non c’è nessun motivo per cui non andrebbe fatto questo congresso. E’ vero che negli ultimi mesi molte cose sono cambiate nel Pd ma a mio avviso Bersani non è mai stato così forte come è ora, e sinceramente fossi al posto suo ci penserei due volte prima di perdere l’occasione di convocare un congresso e chiudere una volta per tutte questa faccenda un po’ surreale”.

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.