Cameriera con vista
Ogni cameriera a servizio da signora odiosa ha, a un certo punto, a disposizione il grandioso momento della vendetta: la Terribile Porcata. Tutti ne abbiamo in mente una, da fare al capo, all’ex amante, all’impiegato dell’Acea, e ci culliamo, la sera, con il pensiero della resa dei conti, ridacchiamo sotto le coperte pensando alla faccia che farà, quel bastardo, quando si troverà davanti alla Terribile Porcata. Ma la Terribile Porcata della cameriera nei confronti della signora a cui lava i pavimenti è la più tremenda, perché può nutrirsi di segreti casalinghi.
Ogni cameriera a servizio da signora odiosa ha, a un certo punto, a disposizione il grandioso momento della vendetta: la Terribile Porcata. Tutti ne abbiamo in mente una, da fare al capo, all’ex amante, all’impiegato dell’Acea, e ci culliamo, la sera, con il pensiero della resa dei conti, ridacchiamo sotto le coperte pensando alla faccia che farà, quel bastardo, quando si troverà davanti alla Terribile Porcata. Ma la Terribile Porcata della cameriera nei confronti della signora a cui lava i pavimenti è la più tremenda, perché può nutrirsi di segreti casalinghi, di fissazioni per la pulizia del forno, di sogni di rivalsa, di immedesimazione, soprattutto del confronto, sempre sull’orlo del precipizio, fra due donne dentro una casa e dentro una vita che appartiene soltanto a una delle due. Non ci sono effetti speciali, invenzioni, magie che possano superare la meraviglia dei meccanismi della natura umana e i suoi contorcimenti. La cameriera e la signora non sono due fiumi che scorrono tranquilli e paralleli. Possono essere poche ore alla settimana, o può trattarsi di una convivenza che si interrompe il sabato alle due per riprendere il lunedì mattina, può esserci il distacco glaciale che molte signore stabiliscono con le collaboratrici domestiche (cameriera non si può dire, è come chiamare bidello un operatore scolastico) o l’ostentata adorazione di molte che ripetono spesso: “La mia colf è di famiglia, la tratto come una di noi”, che equivale a dire: “Ho molti amici gay”, oppure una rilassata e affettuosa distanza, o un complicato e eterno conflitto, ma l’equilibrio è sempre lì per spezzarsi, il filo sottile della reciproca tolleranza può arrotolarsi a poco a poco e diventare una valanga.
Ecco, allora, che si comincia a meditare la Terribile Porcata. In “Radical Chic”, Tom Wolfe non indaga sullo stato d’animo della servitù a New York negli anni Sessanta, quando la ricerca di domestici bianchi (di solito sudamericani) divenne disperata, perché la necessità di stare al passo con i tempi imponeva di invitare ai party i rivoluzionari, e non era immaginabile che i camerieri in uniforme con il vassoio in mano e “Gradisce un drink, signore?” fossero proprio neri. Poi non si sapeva ancora come chiamarli, “negri, neri, gente di colore”? (africani ancora non usava), dipendeva dal livello di istruzione dell’interlocutore, insomma tutta questa mondana insicurezza provocava una deliziosa agonia. In “Radical Chic” la servitù non fa Terribili Porcate, al massimo il portiere e il ragazzo dell’ascensore lanciano occhiatacce ai progressisti in limousine. Negli stessi anni e un po’ più a sud, in Mississippi, la questione cameriere sta crescendo come l’acqua in una pentola che bolle a fuoco basso: le cameriere in uniforme sono ovunque chiamate “negre”, anche “luride negre”, sono piuttosto arrabbiate ma anche spaventate, crescono i bambini delle signore mediamente alcolizzate e dedite a feste di beneficenza, cucinano, lavano, stirano, versano il tè ai pomeriggi di bridge, non ricevono il minimo sindacale, disprezzano quelle mollaccione bianche incapaci di lustrare un bagno e sempre stanche, contano l’argenteria per non essere accusate di furto, e le pallide mogli cotonate si preoccupano di far costruire per loro bagni in giardino, per questioni di igiene e di trasmissione malattie. E’ qui che covano, più di ogni altro luogo e momento storico, le Terribili Porcate. In “The Help”, romanzo americano venduto a milionate, da cui hanno tratto il film di Tate Taylor appena uscito nelle sale, c’è la madre di tutte le Terribili Porcate. Padrona di casa intrigante e convinta dell’inferiorità esistenziale, antropologica, culturale e igienica delle “cameriere negre”, ma bisognosa dei loro servigi, fa terra bruciata intorno alla domestica di sua madre (che la figlia amorevole decide di spedire in ospizio), mettendo in giro la voce che sia una ladra, poi le fa un’offerta di lavoro: “Nessuno si sogna di prendere a servizio una negra insolente e ladra, a questo punto puoi anche lavorare gratis per me”. A questo punto la cameriera non si tiene più, le dice: “Lei è una mangiamerda” e se ne va. Poi a casa prepara la sua famosa torta al cioccolato, ci mette lo zucchero, il cacao Baker’s, la vaniglia vera che sua cugina le compra in Messico. La porta alla signora, che prende la torta come un segno di pentimento. E ne ingoia due fette, ridendo. “Che cosa ci metti, Minny, per farla così buona?”. “La vaniglia messicana e…”. Minny vuota il sacco e racconta cos’altro ha messo per lei in quella torta.
La madre scoppia a ridere e si rivolge proprio alla figlia, che ha ancora la bocca piena: “Se fossi in te non andrei in giro a spettegolare su Minny, altrimenti in città sarai conosciuta da tutti come la signora che ha mangiato DUE fette di merda di Minny”. Quelle due fette di torta contengono un mondo: l’odiosità delle signore bianche, le umiliazioni sociali, il dolore di stringere al petto bambine deliziose che le chiamano mamma e poi diventano grandi e fanno costruire il bagno in giardino “per le negre”. Ma la Terribile Porcata non riguarda solo i momenti delle rivoluzioni culturali, è sempre in agguato, riguarda una guerra strisciante e femminile per il dominio casalingo. Terribile Porcata è anche quella della saponetta. In “Downton Abbey”, serie televisiva su aristocrazia e servitù inglese (sceneggiata da Julian Fellowes, ha appena vinto il Golden Globe) i domestici sono così tanti da costituire, al piano di sotto, lo specchio perfetto dei padroni, di cui replicano gli snobismi e le fissazioni per l’argenteria, la disposizione dei posti a tavola, gli ingressi per la servitù, le macchinazioni. A parte una ragazza che fa in segreto un corso per dattilografa perché vuole cambiare vita, sono tutti fieri del proprio ruolo e completamente immedesimati nelle gerarchie: non tollerano la bizzarria del cugino avvocato del conte che vuole servirsi il tè da solo e, peggio, scegliere i gemelli da indossare al mattino. E’ un modo di vivere che ha a che fare con la rappresentazione di sé, spiega il conte al cugino progressista e infastidito da tutte quelle assurde convenzioni, e anche dallo scandalo suscitato dal fatto che lui si guadagni da vivere lavorando: ognuno deve impersonare il proprio ruolo fino in fondo, e non sarebbe giusto infilarsi la camicia da soli, se c’è chi sta aspettando di poter eseguire il proprio compito di porgitore di camicie. Sarebbe come entrare in cucina al ristorante e mettersi ai fornelli al posto del cuoco: uno sfregio. Una simile visione del mondo dovrebbe liberarci almeno in parte dal moderno senso di colpa che ci mette sempre in imbarazzo quando a cena a casa d’altri c’è qualcuno in divisa che serve a tavola, ma certo non può nulla contro la sensazione che la tizia/o in divisa stia pensando: guarda a che razza di noiosissimi stronzi mi tocca portare il caffè (e come nella canzone di Paolo Conte canticchi tra sé e sé: “Lampo di genio vieni a prendermi / salvami in fretta / non ne posso più di questo ambiente”). Ma la saponetta, si diceva, è stata un colpo basso. Dopo dieci anni di onorato servizio (le cameriere vestono e svestono le signore, come bambole, le lavano, le pettinano, le incipriano, le svegliano al mattino, stanno dietro la loro sedia durante la cena e aiutano a sbarazzarsi di cadaveri, se necessario), la cameriera personale della contessa ascolta una conversazione che la sconvolge.
Bisognerebbe scrivere un saggio sul talento mai abbastanza osannato per l’ascolto delle conversazioni altrui, ormai sostituito dalle pigre intercettazioni, così fredde, così poco creative, ed è evidente che non si può essere una brava cameriera, né una brava qualunque cosa, se non si è capaci di orecchiare anche i bisbigli. Il risultato dell’origliamento è devastante: la contessa sta cercando un’altra cameriera. E’ una pugnalata alla schiena, è un dolore insopportabile, è l’apocalisse, la perdita del proprio posto nel mondo. Allora, mentre la contessa fa il bagno in una bellissima vasca di zinco posta al centro della stanza, la cameriera afflitta si china per raccoglierle il sapone e in un istante matura la Terribile Porcata. Lascia un altro pezzo di sapone per terra. La signora esce dalla vasca, scivola sul sapone, cade e perde il bambino che portava nella pancia, l’erede maschio che avrebbe cambiato le sorti di “Downton Abbey”. E la cameriera scopre che la contessa non aveva nessuna intenzione di licenziarla.
Più di tutto, però, conta lo sguardo. L’occhio raramente benevolo di chi, mentre stira le camicie due volte alla settimana o va a prendere i bambini a scuola perché la madre è al lavoro, entra nel segreto di una casa, di una famiglia e scopre un mondo fatto di caos, amore, gelo, sfinimento, liti, silenzi e anche orrori. L’orrore può essere estetico e riguardare il contenuto di un frigorifero, i maglioni appallottolati nel forno, una collezione di animali impagliati, le manette appese al letto (questione di gusti). Ma sono soprattutto le abitudini e i codici dell’esistenza quotidiana a venire giudicati e ridicolizzati da chi ne applica di completamente diversi. Per quanto mi riguarda, la mia baby sitter moldava mi scruta come si fa con uno scarafaggio appena schiacciato quando le chiedo di fare un altro giro di sciarpa ai bambini e, in caso di doccia, di asciugar loro tutti i capelli col phon, non solo un ciuffo a testa; per quanto la riguarda, io non mi capacito di certe salsicce non molto cotte che lei ingoia come biscotti. Ma questo è solo il mondo emerso, ci sono milioni di dettagli meno evidenti che non possono quadrare e per cui lei mi riterrà una sciattona, che esce di casa con la borsa aperta, non controlla gli scontrini, porta il gatto dal veterinario.
Mi ha guardato sconvolta, una mattina: ma come, i dottori anche per gli animali, e ho letto nei suoi occhi tutta la preoccupazione per la decadenza dell’occidente. Mentre io ammiro infinitamente il suo modo eretto di affrontare le cose brutte della vita, l’accettazione limpida, come se avesse deciso di congelarsi il cuore fino al raggiungimento dell’obiettivo, della sorte per cui deve lavorare in un posto lontano e sconosciuto per mantenere la sua famiglia in Moldavia e costruire una casa in mezzo alla campagna da cui però presto i figli scapperanno, e mi piace sentirla ridere al telefono (quando sicuramente sta raccontando quanto sono scema), se insomma nella mia personale classifica di donne importanti lei sta tra Alice Munro e l’ostetrica russa che fece nascere tre anni fa mio figlio, con pochi gesti perfetti, io non sarò mai certa di avere guadagnato la sua benevolenza, con i miei ridicoli tentativi di fare sembrare vecchio un tavolo nuovo, con i capricci dei bambini per un ennesimo regalo, con la bizzarra convinzione familiare che l’olio per friggere le patate non vada riutilizzato. Due vite diverse (e con le gonne) che si incrociano intimamente non possono mai essere soltanto rispettose le une delle altre. Vanno incontro alla trasformazione dei sentimenti umani: il rispetto si può mutare in affetto, la soggezione in disprezzo, la tenerezza in insofferenza, l’antipatia in comprensione e i segreti, sempre, smettono di esserlo. Le nostre meschinerie adesso hanno testimoni spietati: per questo i domestici dei vip, quando sono molto vip, devono firmare rigidi accordi di riservatezza, pena il sequestro dei beni e l’impiccagione, più o meno – tranne il valletto della principessa Diana. In “Una stanza tutta per gli altri”, Alicia Giménez-Bartlett immagina di avere ritrovato il diario di Nelly, per diciotto anni la cameriera di Virginia Woolf (che era realmente ossessionata da lei e scrisse nel 1929 nei suoi diari: “Se questo diario non l’avessi scritto io e un giorno dovesse cadere nelle mie mani, cercherei di scrivere un romanzo su Nelly, sul suo personaggio. Tutta la storia fra noi, gli sforzi miei e di Leonard per liberarci di lei, le nostre riconciliazioni”).
Non c’è odio più sottile di quello delle domestiche che odiano, scrive Alicia Bartlett, e l’odio di Nelly per Virginia Woolf ebbe il tempo di passare attraverso l’ammirazione, l’emulazione, l’invidia, la delusione, la collera, il rancore, e si nutrì degli incontri del gruppo di Bloomsbury e dei discorsi di Virginia sulla dignità delle donne, sull’orrore del matrimonio, sull’inutilità di una vita qualunque, e crebbe per la sua scarsa generosità in fatto di cibo e denaro (mentre alle cene con gli amici intellettuali lei e il marito Leonard parlavano con commozione dei poveri) e del suo modo di tendere il collo e di fare le scenate alle cameriere, senza mai urlare, ma come se fosse sempre profondamente ferita. Nelly Boxall passò dall’orgoglio di appartenenza a un importante gruppo intellettuale, dal disprezzo per l’amica cameriera il cui padrone era solo un avvocato (gente ordinaria, diceva Virginia), al più profondo rancore e a nessuna pietà per il suicidio della signora, il suo specchio rovesciato. Nel loro caso, se fosse vero, la Terribile Porcata starebbe nel disamore senza più speranza, nel definitivo abbandono anche degli scoppi d’ira, nel silenzio assoluto che va a coprire per sempre migliaia di lenzuola lavate, pasticci di lepre per cena, stanze riassettate ogni giorno, lacrime, racconti e stracci per pavimenti, notti condivise. Elizabeth di “Orgoglio e Pregiudizio” comincia a rendersi conto di aver sbagliato a ritenere mr. Darcy un bastardoquando sente i domestici parlare di lui con grande affetto. A lui di certo nessun valletto avrebbe mai fatto la Terribile Porcata. Ma Darcy non era una donna.
Il Foglio sportivo - in corpore sano