Il destino di un capitano
Difficile fare giustizia nei processi per naufragio anche se, in estrema sintesi, il disastro ha una sola causa: in quel momento, la nave non doveva trovarsi lì. Di chi la colpa? A terra, è tutto più intricato, complesso: interagiscono molte forze e soggetti. In mare no, al solito, tutto è ridotto all’osso e per di più – in apparenza – tutto, rotta, comandi, responsabilità, regole, è codificato, previsto, scandito da ferree procedure, sedimentate non negli anni, ma nei secoli.
Difficile fare giustizia nei processi per naufragio anche se, in estrema sintesi, il disastro ha una sola causa: in quel momento, la nave non doveva trovarsi lì. Di chi la colpa? A terra, è tutto più intricato, complesso: interagiscono molte forze e soggetti. In mare no, al solito, tutto è ridotto all’osso e per di più – in apparenza – tutto, rotta, comandi, responsabilità, regole, è codificato, previsto, scandito da ferree procedure, sedimentate non negli anni, ma nei secoli. Naturalmente, in mare, come nella vita, spesso le procedure poco servono a evitare il naufragio e, dopo mille e mille anni di disastri, a volte si scopre che in realtà, le regole, i codici, sono più forma che sostanza.
Citata in questi giorni più a sproposito che a proposito, la catastrofica morte dell’Andrea Doria – perché fu morte, atroce, di una bellissima creatura sventrata, non un naufragio – dovrebbe oggi ricordare ai manichei linciatori di capitan Schettino, “capitan codardo”, che in mare e nella vita le cose sono un po’ più complesse di quanto appaia. Soprattutto sotto la linea d’acqua, là dove l’uomo vìola la forza del mare, in quella zona di riflessi ancora schiariti dal sole che, non a caso, si chiama “opera viva”. Il comandante dell’Andrea Doria, Piero Calamai, classe 1897 – chissà perché nessuno l’ha ricordato – nella maledetta notte del 26 luglio 1956, si comportò con il tragico stile di un grande del mare. Per due volte tentò di sprofondare con la sua creatura. “Andate – così ordinò ai suoi ufficiali, appena furono in salvo gli ultimi passeggeri – io resto in plancia”. Fu dissuaso con un semplice, secco: “Allora restiamo anche noi”. Non basta: saliti tutti gli ufficiali sulla scialuppa, ancora sulla nave, dall’alto, Calamai urlò l’ordine: “Voi andate…”. Lesto, uno degli ufficiali, risalì la scaletta sul bordo inclinato – la nave pareva inabissarsi da un istante all’altro – e non disse nulla, lo guardò e lui capì che la sua morte sarebbe stata la loro morte. Scese la scaletta. Distrutto, perché sapeva cosa sarebbero stati da quel momento i suoi giorni impietosi.
Il secondo naufragio del fiero Calamai arrivò infatti, una mazzata, pochi mesi dopo, durante l’istruttoria pubblica secondo il rito anglosassone, a New York. Innanzitutto perché il suo armatore, la Società di navigazione Italia, di proprietà dello stato, fece alla Swenska Amerika Linien una proposta che deve essergli subito parsa inquietante: che non si vada al processo – dove saremo costretti a dire verità ingombranti – concordiamo un concorso di colpa e non parliamone più. Non solo un offensivo scaricamento di Calamai (la Costa non è la prima società armatrice cinica con i suoi uomini), ma anche il chiaro segnale che “c’era qualcosa sotto”. Qualcosa che però, lo stesso Calamai non sapeva (o almeno, affermò sino alla morte di non sapere). Gli svedesi, che intuivano il trucco, rifiutarono e si arrivò al processo.
La Società Italia chiedeva alla armatrice della Stockholm trenta milioni di dollari di risarcimento per la perdita della nave. Gli svedesi chiedevano di converso due milioni di dollari agli italiani, per le riparazioni della prua e per il “mancato guadagno”. Per tutta la prima parte del dibattimento istruttorio, dedicata alla ricostruzione delle manovre effettuate dalle due navi e del rispetto o meno delle procedure, la partita parve sostanzialmente in mano agli italiani. Chiamati a deporre, gli svedesi fecero una figura quasi meschina: il capitano Gunnar H. Nordenson, comandante della Stockholm, che aveva lasciato il comando a un giovane e inesperto ufficiale proprio nella fase cruciale di avvicinamento al porto di New York e se ne era andato a riposare in cabina, apparve incerto e confuso. Il giovane ufficiale Carstens Johannssen, che aveva portato diritta diritta la prua della Stockholm a squarciare il fianco dell’Andrea Doria, nonostante l’avesse vista da una decina di minuti sui radar, sotto il fuoco di domande dell’avvocato della Società Italia, Eugene Underwood, non lasciò molti dubbi circa la sua responsabilità per la collisione. Peggio ancora il timoniere. Peder Larsen (“uno da controllare tre volte su quattro che gli si passa accanto”, disse Johannssen).
Ridicola, e smentita da molte testimonianze, la loro tesi che in quel momento non vi fosse nebbia. Successive ricostruzioni simulate dimostrarono i palesi torti del comando della Stockholm.
Ma anche il comandante Calamai, imbarazzato, dovette ammettere che non aveva molta dimestichezza con i radar (erano stati introdotti soltanto nel Dopoguerra sulle navi di linea), che non aveva seguito alcun corso di formazione al loro uso e soprattutto che non aveva dato ordine all’ufficiale di rotta di segnare sui fogli del carteggio i vari punti successivi rilevati dal radar. Se l’avesse fatto, la collisione certa, nonostante gli scarti successivi di rotta, sarebbe risultata lampante e i suoi ordini al timoniere ben diversi.
Quell’istruttoria è famosa tra le genti di mare, perché obbligò a cambiare le regole: le procedure e i protocolli di navigazione furono modificati proprio per evitare gli errori compiuti dalla Stockholm (e, in piccola parte, anche dall’Andrea Doria). Fu stabilito il raddoppio dei gradi di scarto in caso di avvistamento di nave in avvicinamento (dai quattro scartati infatti da Calamai a otto) e soprattutto furono studiati dei radar che segnalassero graficamente lo sviluppo virtuale delle rotte.
Ma l’8 gennaio 1957, tre mesi e mezzo dopo l’inizio dell’istruttoria, tutto lo scenario cambiò, di colpo, nel mistero apparente. La Società italiana aveva fornito tre giorni prima ai periti degli avvocati della Swenska Amerika Linien ventisei volumi del Cantiere Ansaldo di Genova, con i documenti da loro richiesti: piani di costruzione, prospetto della tubolatura, meccanica dell’allagamento incrociato e soprattutto definizione della dinamica di stabilità e del baricentro della Andrea Doria. Bastò poco tempo ai periti svedesi per capire, ancor meno per comunicare ai legali dell’Italia navigazione che avevano capito e questi accettarono subito di por fine al processo con un accordo che schiantava il comandante Calamai: patta. Le parti ritiravano le reciproche richieste di risarcimento. Il processo si chiuse prima di iniziare.
Perché? Non fu mai detto. Tantomeno chiarì il fatto – in pubblico – la commissione d’inchiesta avviata in Italia. La verità venne però rivelata dall’inchiesta condotta dal Committee on Merchant Marine and Fisheries della Camera americana che scrisse: “Non appare possibile spiegare il comportamento della Andrea Doria subito dopo la collisione se non supponendo che non fosse zavorrata in conformità delle regole prescritte”. In chiaro: le almeno mille tonnellate di carburante facevano parte integrante della zavorra e determinavano il baricentro corretto della Andrea Doria. Man mano che i serbatoi si svuotavano (ed erano quasi tutti vuoti all’arrivo a New York), la zavorra doveva essere ricostituita con acqua di mare (pena, lo spostamento verso l’alto del baricentro). Questo non era stato fatto, sicuramente per ordine della Società italiana, per la semplice ragione che a New York si sarebbero dovuti poi pulire i serbatoi con solventi, scaricando i liquidi non in porto, ovviamente, ma su apposite bettoline (con costi consistenti). Da parte sua, il comandante Calamai dichiarò di essere del tutto all’oscuro delle manovre di zavorramento non fatte. Ma qualcuno, a bordo, sicuramente sapeva.
Insomma, per risparmiare qualche migliaio di dollari, la povera Andrea Doria aveva perso il baricentro corretto. Se lo avesse avuto, lacerata per l’altezza di tre ponti, ma appena di traverso tra l’opera morta e l’opera viva, pur imbarcando acqua, avrebbe dovuto inclinarsi al massimo di 7-15 gradi. Invece si abbatté, in sole 11 ore, di 90 gradi. Di fatto, l’Andrea Doria non è affondata, ma si è capovolta e anche un mozzo sa che questo non può, assolutamente non può accadere a una nave moderna. A meno che…
Torniamo ora al nostro capitan Schettino e anche qui, scopriamo che quanto a procedure violate, non si scherza. Sia chiaro: è indiscutibile e ai limiti della demenza la colpa di Schettino che ha portato la Costa Concordia a poco più di duecento metri dal Giglio a squartarsi su uno scoglio emergente e ha così provocato la morte di una trentina di passeggeri. Nessuna attenuante, condanna certa per incauta manovra e omicidio colposo. Però, anche alcuni tra i suoi più feroci accusatori (verrebbe da dire, linciatori), hanno a loro carico responsabilità e complicità pesanti. Pare proprio infatti che il comportamento cinico e irresponsabile della Società di navigazione Italia abbia – ahimè – trovato proseliti nei dirigenti della Costa Crociere.
Detto questo, non sarebbe male se gli autori del suo linciaggio mediatico (inclusa la Capitaneria di Porto di Livorno e i dirigenti della Costa Crociere) prendessero atto che capitan Schettino ha agito – da demente – all’interno di una consuetudine consolidata di incontri ravvicinati (52, si dice, sono stati gli “inchini” solo al Giglio), pubblicizzata dalla Costa Crociere sul suo sito internet (subito oscurato dopo l’incidente), addirittura magnificata dal comandante Mario Terenzio Palombo in un suo libro. Un formidabile documento d’accusa per i “complici morali” di capitan Schettino, perché capitan Palombo oggi afferma: “Ho sempre informato la centrale operativa e la guardia costiera di ogni deviazione. Adesso il governo proibirà queste manovre, e molti posti di lavoro andranno perduti”. Dunque, la guardia costiera, anche quella di Livorno, anche il capitano Gregorio De Falco (quello del “torni subito a bordo, cazzo!”), come è ovvio, quantomeno dal 1993 – da 19 anni – erano al corrente di questa aperta, palese, irresponsabile pratica promozionale, per indurre gli spettatori a prenotare una crociera (per questo la sua proibizione farà “perdere posti di lavoro”). Ma hanno sempre lasciato fare, in deroga al Codice della navigazione (non serve nessuna nuova legge per vietare queste follie, questa è pura demagogia), alle procedure e persino al buon senso. Tant’è, che chi passasse col suo gommone a quella distanza dalla riva, si vedrebbe togliere la patente nautica dalla capitaneria. Pure, tutte le rotte della navi (sia pure ex post, a oggi) sono segnalate e descritte dal sistema di rilevamento satellitare.
E qui, proprio qui, sul tracciato del sistema satellitare Ais, troviamo il vero mistero di questa vicenda, vergognosamente evitato da settimane dai media (e dalla capitaneria di porto di Livorno, dalla Costa Crociere e dalla procura di Grosseto). Inequivocabilmente, il tracciato reale dimostra che capitan Schettino, fatto l’errore tragico, si è subito comportato come un eccezionale comandante, come un lupo di mare provetto, salvando col suo sangue freddo centinaia, se non migliaia di vite.
Guardando il tracciato e la successione dei tempi, si spiegano anche i “video dello scandalo” in cui si vede e si sente una hostess filippina rimandare tutti i passeggeri nelle cabine. Si spiega il ritardo di più di un’ora nell’ordine di abbandonare la nave. Dopo l’urto, infatti, la Concordia, con il timone fuori uso e i motori in panne, ha un abbrivio di circa un miglio, verso il largo, dove l’acqua è profonda 200 metri. E imbarca acqua, a tonnellate, come viene riferito a Schettino che capisce che dare in quel momento l’ordine di abbandonare la nave, a un miglio dalla costa, rischia di vedere la Concordia inabissarsi in acque profonde ben prima che le migliaia di passeggeri e membri dell’equipaggio possano salire sulle scialuppe. Schetttino allora getta le ancore, e fa filare le catene, impone così alla nave un testa coda, un prua-poppa, da vertigine, geniale, il tracciato forma un nodo strettissimo, come quel colosso di nave fosse un gozzo. Poi, con quel poco d’abbrivio e di forza di macchine che ancora ha, Schettino riavvicina la nave alla costa e la fa incagliare in acque bassissime, a un braccio dal porto del Giglio. Chapeau! E’ passato poco più di un’ora dallo speronamento. L’ordine di abbandonare la nave viene dato da capitan Schettino esattamente dopo due minuti dall’incagliamento.
Una sequenza di decisioni da far tremare i polsi presa con perizia e bravura eccezionali. Tutto questo è subito chiaro a chi sa un briciolo di mare. Ma viene taciuto da chi inizia la bagarre sulla viltà di capitan Schettino, con la capitaneria di porto di Livorno che dà in pasto alle belve la conversazione tra lui e il capitano De Falco (speriamo, contro la sua volontà) e la procura di Grosseto che soffia sul fuoco sull’infamia del disgraziato.
Il tutto, si badi bene, in nome e in omaggio di un articolo del nostro Codice di navigazione che prevede pene sino a 15 anni per il comandante che – in buona sostanza – non abbandoni per ultimo la nave. Prescrizione giudicata poco meno che demenziale dall’autorevole viceammiraglio Alan Massey, capo esecutivo della guardia costiera britannica, che ha affermato: “Nel diritto internazionale non è previsto che il comandante debba essere l’ultimo ad abbandonare la nave. Anzi, talvolta questa opportunità può risultare addirittura controproducente”. Dunque, capitan Schettino, nel processo – ma sarà ormai troppo tardi – pur avendo tutta l’indiscutibile colpa per la morte di una trentina di passeggeri, avrà materia per difendere quantomeno il suo nome, la sua onorabilità e anche il merito di avere comunque salvato centinaia di vite. Un chiaroscuro. Il peso della colpa per l’accostamento folle alla riva e il contrappeso della manovra da manuale per rimediare. Materia fine, complessa, comprensibile solo a chi frequenta quella “linea d’ombra” che porta con sé il comando, specie sul mare.
Materia totalmente estranea alla voracità manichea imperante.
Infine, ma non per ultimo, qualcosa va ancora detto sul destino dell’ottimo comandante dell’Andrea Doria Piero Calamai. Il mare, il fato, Poseidone, o chi per lui, non si dimenticò di non aver potuto divorare con la sua creatura anche la sua vita. E si vendicò. Passati pochi mesi, suo fratello, il contrammiraglio Paolo Calamai mentre navigava con la sue vele tra Livorno e Barcellona (era comandante della Accademia Navale) per raggiungere la famiglia, venne rapito da un’onda e inghiottito dai flutti, il due alberi intatto. Divinità feroci pareggiarono così il conto.
Il Foglio sportivo - in corpore sano