Crisi dell'euro? Perché gli americani ne sanno di più

Francesco Forte

Caro Wall Street Journal, il tuo editoriale di ieri coglie nel segno. In particolare quando segnala che la tesi del Fondo monetario internazionale di Christine Lagarde.

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    Caro Wall Street Journal, il tuo editoriale di ieri coglie nel segno. In particolare quando segnala che la tesi del Fondo monetario internazionale di Christine Lagarde, secondo cui l’Italia da sola non ce la farà a sostenere il rinnovo del proprio debito a meno di un rafforzamento dei cosiddetti “firewall” finanziari, come anche quella attribuita a Mario Monti – aggiungo io – secondo cui occorre aumentare la potenza di fuoco dei Fondi salva stati (Efsf e Esm) dagli attuali 500 a 1.000 miliardi, sono errate e riflettono non solo considerazioni pratiche personali, ma la loro cultura economica.

    La Lagarde, facendo intendere che alcuni paesi europei hanno bisogno dell’aiuto del Fmi, cerca un ruolo in Europa per la sua istituzione e, indirettamente, anche per la Francia, che ha una stella un po’ appannata nel direttorio con la Germania. Essa vorrebbe 500 miliardi di dollari per intervenire in Europa con 1.000, cifra del tutto sproporzionata ai problemi dell’est europeo extra euro, mentre l’Eurozona non ha alcun bisogno del Fmi per risolvere i suoi problemi, dato che la Bce ha un potenziale di intervento molto superiore, anche applicando la teoria monetarista di Milton Friedman, come ha dimostrato di recente William Buiter in due lezioni alla Sapienza (nella nostra facoltà di Economia dove ha studiato Mario Draghi). Monti chiede un raddoppio della dote dell’Efsf perché, come è umano, cerca un alleggerimento per i propri problemi come ministro dell’Economia e, inoltre, vorrebbe farsi il merito e la fama di quello che dall’Europa, e specie dalla Germania, si fa ascoltare.

    Ma detto ciò, resta il fatto che i due sono, sia pure in modi diversi, neokeynesiani. Come scriveva Keynes, i politici e gli economisti sono schiavi del pensiero degli economisti del passato. In questo caso entrambi sono schiavi del keynesismo, innanzitutto dal punto di vista metodologico: per esso la razionalità dei governi degli esperti è illimitata, a differenza che per Hayek e la scuola austriaca e per Luigi Einaudi o Federico Caffè, cultore come me di economia del benessere, cioè di una scienza per sua natura microeconomica. Inoltre il punto di vista rilevante per i neokeynesiani come per Keynes è quello macroeconomico, in cui le quantità prevalgono sui prezzi e i prezzi medi globali su quelli marginali e su quelli differenziati. E, in base a Keynes, credono che per la soluzione del problema del debito pubblico e per la crescita economica serva un’enorme massa di denaro con cui la Banca centrale o suoi vicari (l’Efsf o/e il Fmi) comprano una grande massa di debito pubblico, creando il grande stimolo. Una volta che il mercato è libero da lacci e lacciuoli – dice la teoria neokeynesiana nei suoi migliori cultori, come Alberto Alesina – tutto va da sé.

    Sinora in Europa non ha vinto Keynes, ma Hayek, scriveva ieri correttamente il New York Times. Infatti la Bce sta seguendo la teoria austriaca, anche se penso che molti tedeschi non lo sappiano. Secondo tale teoria, che è anche quella (autonoma) di Einaudi, il livello dei prezzi non include solo i beni e i servizi, ma anche i beni capitali, titoli compresi. Quindi una Banca centrale che, come la Bce, ha la missione della stabilità monetaria, deve intervenire per espandere la quantità di moneta quando il valore dei titoli pubblici scende e ciò genera deflazione e un alto tasso di interesse. Ma essa non può finanziare il Tesoro comprando suo debito di nuova emissione; opera piuttosto sul mercato secondario del debito pubblico e abbassa il suo tasso a favore delle banche.

    Le “politiche non convenzionali” adottate da Draghi a dicembre non costituiscono un marchingegno ipocrita per far fare alle banche gli interventi sul debito statale con i soldi della Bce, come qualcuno scrive. Infatti siamo in regime di razionalità limitata e il mercato ha più informazioni delle autorità centrali. Le banche comperano i titoli che scelgono con le loro informazioni e deformazioni, e i governi le devono persuadere a farlo con le loro offerte differenziate. Il debito che il Tesoro deve emettere nel 2012 è di circa 450 miliardi, ma quello cui si riferisce lo spread decennale non supera i 240. Come spiega Maria Cannata, che al Tesoro gestisce il nostro debito, i titoli a breve che le banche comprano fruendo dei riporti sui prestiti Bce hanno tassi del 2,7-3 per cento. I tassi del 6,5 sui Btp decennali (e settennali) che, al netto dell’inflazione attesa del 2 danno il 4,5, riguardano metà delle emissioni, l’altra metà viaggia sul 2,5-3 per cento. E i titoli triennali e quadriennali possono beneficiare di bassi tassi perché fruiscono dei prestiti triennali della Bce. Ciò abbassa il costo del finanziamento del debito e lo facilita anche per i titoli a lungo, il cui rischio si diluisce. Ma tale politica hayekiana non assicura la crescita. Per la crescita non bastano le liberalizzazioni né la pioggia di denaro, serve una politica di investimento azionata dalla mano pubblica. Qui hanno torto sia Keynes che gli austriaci.

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