Getta le reti
Per farsi notare, un po’ incerti sulla terraferma, con i berretti calati sugli occhi, i pescatori si sono dovuti menare con la polizia. Sennò nessuno si sarebbe accorto della loro protesta, convinti come siamo che il pesce si crei per partenogenesi nei ristoranti giapponesi, o nasca direttamente in pescheria. Controlliamo però che i totani siano freschissimi, con la stessa aria stravolta di un intenditore di vini, abbiamo anche diverse lauree in conversazione sulla morbidezza dell’orata e sulla sfilettatura della spigola.
Per farsi notare, un po’ incerti sulla terraferma, con i berretti calati sugli occhi, i pescatori si sono dovuti menare con la polizia. Sennò nessuno si sarebbe accorto della loro protesta, convinti come siamo che il pesce si crei per partenogenesi nei ristoranti giapponesi, o nasca direttamente in pescheria. Controlliamo però che i totani siano freschissimi, con la stessa aria stravolta di un intenditore di vini, abbiamo anche diverse lauree in conversazione sulla morbidezza dell’orata e sulla sfilettatura della spigola, andiamo a caccia di “posticini” meglio se in riva al mare per raccontare che il vino era ghiacciato e il branzino ancora vivo, mangiamo quintali di pesce perché dicono che faccia bene e non ingrassi, facciamo corsi di sushi, ci preoccupiamo dei metalli pesanti nel tonno. E releghiamo l’esistenza dei pescatori, che escono di notte a procurarci le nostre cene evolute e equilibrate, ai film di Crialese. O alle vacanze estive, quando, sentendoci particolarmente in comunione con la natura, elogiamo la grande poesia esistenziale del pescatore con la pelle bruciata dal sole, che magari ci porta anche sul gozzo a vedere le meraviglie dell’isola (noi con protezione solare centoquaranta, lui che finge di non disprezzarci). E’ anche molto elegante scegliere, al posto dell’albergo stellato, la sistemazione frugale nella capanna del pescatore, per sentirsi viaggiatori e non turisti, per mescolarsi alla gente del luogo (avviso alle signore: quando un uomo vi dice così, e guarda l’orizzonte con occhi luminosi, scappate senza pensarci un secondo, prima che vi venga l’orticaria al cervello).
Per il resto, nulla. Una canzone di Fabrizio De André, qualcosa di Bertoli, il ricordo di padron ’Ntoni, e l’indignazione perché adesso i pescatori scassano i fondali nel tentativo di trovare pesci anche in questi mari svuotati, pescano a strascico e non rispettano il ciclo di crescita, insomma non rispettano la poesia del mare. Conta di più la vaga indignazione, quanto a visibilità e applausi, di un pigro universitario fuori corso che urla: mi rubano il futuro, della reale povertà di un tizio che non riuscirà più a sostenere i costi della nafta, di un ragazzo che guadagna duecento euro a settimana lavorando tutta la notte, “ma anche sedici ore” (diceva l’altra sera uno che aveva aspettato tutto il giorno di essere ricevuto insieme agli altri pescatori, a Montecitorio), d’estate e d’inverno, in mezzo al mare, con la cerata, con il freddo, con il buio. Adesso siamo stati colti di sorpresa dall’esistenza di una catena alimentare, e di persone che, per vivere – non per farsi la foto con la trota gigante pescata nel laghetto artificiale, non per spiegare al mondo come bisognava far ormeggiare il Concordia con poche semplici mosse – pescano il pesce nei nostri mari. Lo fanno in modo non sempre ecologico ma senza le bombe atomiche che lanciano in Cina in mare per fare più in fretta, e come noi andiamo in ufficio, non come gesto poetico. Forse dovremmo perfino appassionarci alla loro protesta. In “Terraferma” di Crialese, il figlio di pescatore sceglie di usare il peschereccio per far ballare “Maracaibo” ai turisti. Mentre noi mangiamo enormi, freschissimi gamberi cinesi.
Il Foglio sportivo - in corpore sano