La gravidanza? Non è etica

Nicoletta Tiliacos

Dopo la batosta subita alla Camera dei Lords sul Welfare Reform Bill al grido di “non ci sono soldi”, il premier inglese David Cameron ha, se non altro, qualche buon argomento per resistere alla furia della bioeticista Anna Smajdor, docente alla University of East Anglia e ricercatrice onoraria in Bioetica dell’Imperial College di Londra. In nome dell’intero genere femminile la Smajdor sostiene la necessità di dedicare urgentemente fondi pubblici alla ricerca sull’utero artificiale.

    Dopo la batosta subita alla Camera dei Lords sul Welfare Reform Bill al grido di “non ci sono soldi”, il premier inglese David Cameron ha, se non altro, qualche buon argomento per resistere alla furia della bioeticista Anna Smajdor, docente alla University of East Anglia e ricercatrice onoraria in Bioetica dell’Imperial College di Londra. In nome dell’intero genere femminile – che peraltro non risulta gliel’abbia chiesto – la Smajdor sostiene la necessità di dedicare urgentemente fondi pubblici alla ricerca sull’utero artificiale, allo scopo di emancipare le donne da quei relitti ancestrali e “barbari” (testuale), fatti di dolore e oppressione, che si chiamano gravidanza e parto. L’ectogenesi, cioè la gravidanza in un utero artificiale, è dunque la vera e ultimativa frontiera dell’uguaglianza tra i sessi (maschio e femmina in dolce attesa alla pari, tutti e due fuori dalla porta del laboratorio), senza la quale la stessa idea di parità, nello Smajdor pensiero, suona come una beffa.

    Non è uno scherzo. A farsi veicolo della richiesta di Anna Smajdor è una rivista universitaria di primo piano, il Cambridge Quarterly of Healthcare Ethics, che nel suo ultimo numero ospita le sue argomentazioni (“In Defense of Ectogenesis”) in risposta alle critiche a un primo articolo sull’utero artificiale pubblicato dalla ricercatrice nel 2007. I cambiamenti nelle strutture finanziarie e sociali possono marginalmente migliorare le cose, scrive la Smajdor, ma bisogna trovare una migliore soluzione alla gravidanza e al parto, che non sono altro che malattie protratte, qualcosa che assomiglia al morbillo ma che dura assai di più ed è più invalidante. Consideriamo le donne come portatrici di bambini, come marsupi viventi che devono subordinare i loro interessi al bene dei loro figli, o piuttosto dobbiamo ammettere che i nostri valori sociali e il nostro livello di esperienza medica non sono ormai più compatibili con la riproduzione naturale? Può ancora, una società liberale, tollerare che le donne rimangano incinte e partoriscano? No, non può, risponde naturalmente la dottoressa Smajdor, che vanta un curriculum degno del “Mondo Nuovo” immaginato dal suo conterraneo Aldous Huxley: dalla ricerca sugli ibridi uomo animale alla fabbricazione di gameti artificiali per arrivare alla partenogenesi e alla necessità di riconoscere la legittimità del mercato degli ovociti, i suoi interventi di turbobioetica sui maggiori quotidiani inglesi e le sue interviste radiofoniche sulla Bbc fanno a gara con se stessi nel dare corpo teorico e sostegno ideale ai peggiori incubi tecnoscientifici. Autrice nel 2007 del libro “From Ivf to Immortality. Controversy in the Era of Reproductive Technology”, per premio, ché anche nell campo dell’immaginazione horror il talento va compensato, la Smajdor ha ottenuto – per la sua tesi di dottorato e per la realizzazione di un cortometraggio di venti minuti amenamente intitolato “In vitro” – il sostegno di Wellcome Trust, prima fondazione britannica per la ricerca medica e seconda su scala mondiale, dopo quella di Bill e Melinda Gates.

    “In vitro”, che si può apprezzare integralmente sul sito della Smajdor, è ambientato nel 2044 e narra la storia di Rachel, una scienziata dalle ambizioni pionieristiche – un po’ come la sua autrice, insomma – che riesce a farsi beffe dei divieti vigenti nell’anno 2010 e crea dal proprio stesso midollo osseo lo sperma artificiale con il quale feconda un proprio ovulo e diventa madre di figlia, Sophia (fai da te estremo, insomma, anche se la gravidanza e il parto sono ancora del genere “barbaro”, non liberale e artificiale). Scoperta e ostracizzata, Rachel si ritira in una casa solitaria su una spiaggia, dove all’inizio del film la vediamo raccogliere rami per il fuoco…

    Ma lasciamo la fiction e torniamo alla realtà, o a quella che la dottoressa Smajdor vorrebbe che fosse. E’ lei a chiedere, serissimamente, nel suo saggio sul Cambridge Quarterly of Healthcare Ethics, “di dare priorità alla ricerca sull’ectogenesi come alternativa alla gravidanza”, mentre suggerisce che, di fronte alla scelta tra una società in cui le donne corrono tutti i rischi della gravidanza e del parto e una società in cui l’utero artificiale sia realizzato, nessuno dovrebbe aver dubbi sui vantaggi della seconda. Solo in quest’ultimo caso gli oneri della riproduzione della specie sarebbero equamente ripartiti tra maschi e femmine. Ectogenesi come “imperativo morale” dunque, in attesa di intentare un’opportuna class action contro il fatto che la Terra è tonda ed è costretta a girare intorno al Sole, e mai viceversa. E a chi le fa notare che molte donne si sentono felici nella gravidanza e nel parto, l’astuta bioeticista spiega che le poverette, allo stato attuale dei fatti, se vogliono un figlio non hanno alternativa, e quella che chiamano felicità è solo fare di necessità virtù. Separiamo le cose, da una parte il bambino e dall’altra il procedimento artificiale, asettico e standardizzato per averlo, e vedrete che non c’è lotta: tutte e tutti in fila nelle factory dove, alimentati da miscele di liquido amniotico sintetico e cullati da dondolamenti, suoni e gorgoglii simulanti le prestazioni dell’obsoleto grembo materno, piccoli pargoli robotizzati crescono, in attesa di essere consegnati ai felici committenti, mamma e papà finalmente alla pari.

    “La gravidanza e il parto, lungi dall’essere indispensabili per garantire il legame materno, possono ostacolare la capacità delle donne di prendersi cura dei loro bambini”, teorizza Anna Smajdor. La quale mette a frutto i suoi lati visionari anche in imprese molto glamour, come la collaborazione con l’artista Zoe Papadopulou nel progetto “Reproductive Futures”, sempre finanziato da Wellcome Trust, nel quale le “artificial reproductive technologies” diventano direttamente Art (carino, no?).

    E poi, nelle sue acrobazie profetico scientifiche, la Smajdor è in buona compagnia. Dall’altra parte della Manica, il biologo e filosofo Henri Atlan – fino al 2000 nel Comitato di bioetica francese, convinto che anche la clonazione umana diventerà un modo di procreazione come un altro – ha dedicato già da qualche anno all’“Utérus artificiel” un libro omonimo, pubblicato da Seuil nella collana “Librairie du XXI siècle”. Questione di pochi decenni, scrive Atlan, e le Sale di Decantazione di Huxley diventeranno una realtà che segnerà “la possibilità di una evoluzione verso una vera eguaglianza dei sessi”. A mezza strada tra il trattato di biologia e il manifesto filosofico, il saggio di Atlan esalta le meraviglie dell’ectogenesi. Già insigni studiosi, in ogni parte del mondo, ci si stanno applicando. Nell’Università di Cornell, Stati Uniti, l’équipe di Helen Liu ha impiantato un embrione umano appositamente fabbricato in vitro in un abbozzo di utero artificiale, con apporto di sostanze nutrienti e ormonali. L’esperimento è durato sei giorni, ma non è che l’inizio. Certo, “si potranno immaginare delle ragioni sociali” per proibire l’utero artificiale, scrive Atlan, ma “non resisteranno a lungo alle ragioni per consentirlo, perché i motivi per sostituire la gravidanza con uno sviluppo in ambiente artificiale non riguarderanno il più o meno fantasmatico ‘desiderio di figlio’ biologico a ogni costo. Le prime giustificazioni saranno probabilmente mediche, per salvare embrioni abortiti spontaneamente, poi per permettere a donne prive di utero di procreare… Molto presto, si svilupperà la domanda da parte di donne desiderose di procreare risparmiandosi la costrizione di una gravidanza.

    Da questo punto di vista, l’utero artificiale deve essere accostato non alla procreazione medicalmente assistita, ma alla pillola contraccettiva e alla liberalizzazione dell’aborto. Non è il ‘diritto al figlio’, più o meno contestabile, che sarà invocato, ma il diritto delle donne a disporre del proprio corpo. Quando sarà possibile procreare evitando la gravidanza, in nome di che ci si potrà opporre alla rivendicazione delle donne a scegliere questo tipo di gestazione?”. L’anziano intellettuale francese, a dire il vero, è più possibilista della sua giovane collega inglese, convintissima che, una volta messo a disposizione l’utero artificiale, nessuna femmina si farà più incastrare in quell’assurda attività consistente nel dare vita a un figlio. Uomo di mondo, il filosofo sa che le donne a volte possono essere bizzarre. Perché negar loro qualche piccola stravaganza? Quelle che lo vorranno, potranno continuare a far figli con il sistema delle loro nonne, un po’ come farsi i maglioni ai ferri invece che andare a comprarseli al Bon Marché o da Harrods. L’importante è che le altre possano emanciparsi. Così “la rivoluzione cominciata in modo apparentemente anodino con la pillola e la lavatrice sarà completata dall’ectogenesi”. Senza offesa per la lavatrice.