Ritratti intrecciati dei duri di Sicilia
Siam rimasti in tre / tre briganti e tre somari / sulla strada lunga lunga di Girgenti… / Ma se tu proponi di piombare sui Borboni / uno gira l’avamposto / uno attacca il fronte opposto / uno sfodera il trombone e l’altro balza sul cannone /…ed intanto a poco a poco tutto quanto è a ferro e fuoco… / Il Borbone se la squaglia, abbiam vinto la battaglia…”. Sono giorni di forconi in Sicilia e alla fine viene in mente la filastrocca cantata da Domenico Modugno nel “Rinaldo in campo”, commedia musicale di Garinei e Giovannini.
Siam rimasti in tre / tre briganti e tre somari / sulla strada lunga lunga di Girgenti… / Ma se tu proponi di piombare sui Borboni / uno gira l’avamposto / uno attacca il fronte opposto / uno sfodera il trombone e l’altro balza sul cannone /…ed intanto a poco a poco tutto quanto è a ferro e fuoco… / Il Borbone se la squaglia, abbiam vinto la battaglia…”. Sono giorni di forconi in Sicilia e alla fine viene in mente la filastrocca cantata da Domenico Modugno nel “Rinaldo in campo”, commedia musicale di Garinei e Giovannini. Roba da anni Sessanta, rifatta oggi al Sistina di Roma: un Robin Hood siculo ruba ai ricchi per dare ai poveri, fino a che una bella nobildonna garibaldina non lo riporta sulla via dell’onestà.
Sono giorni di forconi in lotta, pescatori in secca, carogasolio che strozza, Tir in blocco, notti al casello, madri arrabbiate, studenti arrabbiati, preti arrabbiati, contadini arrabbiati: tutto un quarto stato che s’avanza con lo scaffale vuoto, e però sempre in tre sono, sulla strada lunga di Girgenti (e di Palermo e di Catania e di Trapani e di Marsala). Tre uomini, tre capipopolo, tre modi di fare, e uno stesso governatore Raffaele Lombardo che spunta qui e là da tre diversi passati, senza che nessuno voglia essere legato a lui. Tantomeno ora che il colloquio Lombardo-Monti sui mali dell’isola ha prodotto una promessa di tavoli tecnici che ha “deluso” i forconi, hanno detto i forconi prima di riunirsi in assemblea per decidere altre forme di lotta. I tre si chiamano Giuseppe Richichi, Mariano Ferro e Martino Morsello: il lunedì li pensavi come una cosa sola, il venerdì erano unità distinte e litiganti, il mercoledì erano di nuovo insieme sebbene non più uni e trini, ché Morsello dai forconi è stato espulso per sospette vicinanze con Forza nuova, il tutto mentre Richichi e Ferro si allontanavano e si riavvicinavano (uno voleva continuare a oltranza, l’altro meno a oltranza). “Guardate che c’è pericolo di infiltrazioni mafiose nella rivolta”, ha detto il presidente di Confidustria Sicilia Ivan Lo Bello, e i tre sono insorti come un sol uomo: Morsello in sciopero della fame, Ferro indignato e Richichi a “fottersene”, come ha detto a Panorama, di ogni accostamento tra lui e Jimmy Hoffa, sindacalista degli autotrasportatori americani sospettato di contatti con la malavita e morto in circostanze misteriose nel 1975. Poi c’è stato quello striscione per le strade di Palermo, durante la manifestazione congiunta di forconi e studenti: “Lo Bello il mafioso sei tu”, e chi si intende di mafia e Sicilia dice che questo tipo di risposta “non è casuale”.
“Autotrasporti, c’è la zona grigia”, dicono i cronisti catanesi ai cronisti del continente, raccontando episodi che lambiscono i clan. A Lentini i negozianti sono stati “invitati” da noti capimafia a chiudere i negozi durante i blocchi, ha detto Lo Bello nel salotto televisivo di Gad Lerner (e poi di Corrado Formigli), davanti a un Richichi imperturbabile che diceva “ma se siamo pezzenti!” e a un Ferro offeso che diceva “ma se la Sicilia s’è svegliata!”. C’è poi chi osserva i tre ribelli che discutono e ci vede una modalità tipicamente siciliana di fare la rivoluzione: “C’è sempre qualcuno che ti segue, e sempre qualcuno che ti vuole sostituire”, dice il professor Aristide Civiletti, conoscitore della Weltanschauung isolana: “Sono tutti e tre combattenti e reduci di altre battaglie, ma in Sicilia il ribellismo è sempre andato a portare acqua alle classi dominanti, che hanno sempre rafforzato, alla fine, il loro potere. Fasci siciliani, separatismo, milazzismo – con tanto di trappolone scandalistico al Grand Hotel et Des Palmes di Palermo: chi ha vinto, alla fine?”. Sia come sia, in tre sono rimasti, sulla strada, e tre sono le storie.
Giuseppe Richichi
Secondo Dopoguerra, entroterra di Catania. Nonno Richichi fa il carrettiere, papà Richichi fa il camionista, mamma Richichi muore giovane lasciando sei figli, tre maschi e tre femmine. Chi può si occupa dei fratelli. Chi può si mette a lavorare. Giuseppe Richichi, detto Pippo e poi “Zu Pippo”, si occupa del fratello minore, e un giorno sale sul camion paterno. E’ l’inizio di tutto. Pippo ha undici anni e da quando ne ha cinque porta “la spesa ai figli dei nobili per dare qualche soldo a casa”, dice oggi. La scuola non la finisce, la licenza elementare la prende da ventenne, per far piacere a sua moglie che gli chiede di partecipare al concorso da autista di bus. Scendere dal camion, avere un orario normale, questo pensa la moglie, non proprio questo ottiene il marito: licenza elementare sì, posto da autista no (“anche lì erano tutti raccomandati”, dice). Il Richichi descritto da Richichi è “un figlio di povera gente che non ha scheletri nell’armadio né Porsche Cayenne”. Il Richichi descritto dalla stampa siciliana è un “uomo intelligente che a volte si mostra con vesti più modeste del vero”, dice un cronista. E insomma Richichi dice che vive a Librino, periferia di Catania, e che in famiglia si spostano in Cinquecento.
Ha sessantadue anni e quattro figli: uno studia, uno lavora, una fa la casalinga, uno ha seguito le orme paterne e fa l’autotrasportatore. Ci sono tante ore di camion, nel passato di Richichi, e tante ore a capo dei camionisti in lotta, motivo per cui ora dice: “Ma quale regia, dietro a questo sogno siciliano riuscito ci sono solo la mia esperienza nell’organizzare i blocchi e il popolo che resterà nella storia”. Ci tiene ad appiattirsi sul modello di manifestante-base, sul genere del signor Alfredo intervistato per Linkiesta da Giuseppe Alberto Falci, il 21 gennaio scorso: uno che si definisce brava persona, che soffre per il carovita, il gasolio alle stelle, l’inflazione e i valdostani che hanno vantaggi sconosciuti ai siciliani (“chi minchia sono i valdostani?”, diceva Alfredo). C’è un momento di svolta, nella vita di Zu Pippo. Nel 2000, all’hotel Gelso Bianco sull’autostrada Palermo-Catania, lo stesso hotel dove un paio di settimane fa Richichi, Ferro e altri rappresentanti del movimento Forza d’urto (agricoltori, pescatori e cittadini esarcerbati) si sono riuniti a discutere le modalità del blocco poi chiamato, dai manifestanti con memoria storica, “cinque giornate siciliane”. L’hotel sembra una citazione di quell’incontro del 2000 che fu preludio di almeno tre blocchi.
C’era, quel giorno, l’allora assessore regionale ai Trasporti Mimmo Rotella. E c’era Zu Pippo Richichi che ancora non parlava, come fa oggi, di danni del “libero mercato” come fosse tra gli indignados di Zuccotti Park, e di “federazioni nazionali sindacali che non difendono la categoria”, e di “gente che si è ammazzata a lavorare a Priolo”, polo petrolchimico, “e ora sta in chemioterapia”. E’ la summa del ribellismo da falò al casello, quello che Richichi mette in scena quando, dalla torre di “Servizio pubblico”, davanti a Michele Santoro, agita il braccio di una giacca larga con le toppe, si alza in piedi cupo, fa sfoggio di inflessione catanese con il suo “ma state schezzzaaando?” e si rivolge al “dottore Letta” (Enrico) per non rispondere alla domanda: “Come mai vi ribellate proprio ora, quando avete ottenuto alcune cose che chiedevate?”. E’ un Richichi da guerra di posizione quello che all’“Infedele” muove con calma le mani indicando con le dita il punto uno, il punto due e il punto tre, per poi bere acqua a piccoli sorsi senza mai sorridere. Ha diretto vari blocchi, Zu Pippo, dal 2000 a oggi. Una volta mette in ginocchio Catania. Una volta parla con Pier Luigi Bersani, allora ministro dei Trasporti, e dice ai suoi di aver ottenuto “soltanto caramelle” (ma poi in qualche modo la protesta si ferma). Poi ci riprova. I Tir che non vogliono protestare se la vedono brutta. Richichi è accusato di aver tagliato le gomme ai riluttanti. Oggi non dice “sono finito in carcere”, come pure scrivono tutti i giornali locali. Minimizza: “Uno scatto d’ira, arresti domiciliari, mai una condanna”. Ammette di essersi allargato con i paragoni (una volta disse: “In Cile nel ’73 i camion hanno fatto cadere il governo”, sorvolando sul successivo golpe di Augusto Pinochet). Non ammette di aver avuto simpatie per An, con cui pure si candidò alle provinciali catanesi nel 2003 (“è stato uno scherzo dopo un battibecco con Lombardo, per dimostrare che prendevo voti anche da solo”). Ne prese pochi, e Lombardo divenne presidente della provincia. Non ammette, Richichi, e anzi smentisce le consulenze sui trasporti in epoca Cuffaro che pure gli attribuiscono (“è un disguido, la stampa ha scambiato il mio nome con quello del fisico Zichichi”). Sembra pensare a future discese in campo politiche “non escludo che il movimento…”, ma subito si schermisce come fosse un’ipotesi campata in aria (“non sarò io il politico, io vorrei dare supporto ai giovani che si vogliono spendere per questa nostra terra”). Dice che il governo regionale “è dormiente”, fa battute in tv sui “grossi uomini” della rappresentanza autotrasporti, non prevarica ma neppure dà confidenza, insondabile come un Anthony Hopkins nella parte di Hannibal the Cannibal.
Mariano Ferro
Avola, provincia di Siracusa, fine anni Cinquanta, famiglia di agricoltori che ancora vivono di speranze per l’annata buona e di dolori per l’annata cattiva. Mariano Ferro nasce “in mezzo alla polvere di mandorlo”, dice oggi, pieno com’è di nostalgia per un mondo “non globalizzato in cui la rovina non era dietro l’angolo”. Parla per metafore e proverbi, Mariano Ferro, leader agricolo dei forconi siciliani: “Stiamo vedendo un brutto film”, “ingoiamo rospi”. Parla con toni elegiaco-visionari (“la povera Sicilia che piange”, “il risveglio degli oppressi”, “la rivoluzione culturale di questa meraviglia”) e con una pacatezza che contrasta con l’irruenza da uomo di gran stazza: gesticola con vigore, tamburella le dita, sgrana gli occhi cerchiati per le notti di protesta, scuote con forza il capo sormontato dal cappellino blu (divisa forconista) e rigira un collo che quasi fa da appendisciarpa (nodo sempre lento). Aveva un’impresa di ortaggi, Ferro, ma è fallita due anni fa: venti ettari mangiati dai debiti (“siamo tutti pignorati, e siamo monoreddito, a casa mia: moglie casalinga e due figli all’università”, dice). Ferro è in prima linea a Catania, a Palermo e persino a Cagliari, in trasferta per gli amici pastori sardi, tanto più che il nome “forconi”, dice, se l’è inventato il capo dei pastori Felice Floris. E’ “stanco”, Ferro, così ha detto a Santoro in collegamento da una piazza del Sulcis, “stanco di rispondere a Ivan Lo Bello” che vede l’ombra della mafia allungarsi sul movimento – e pensare che Lo Bello, a ogni talk-show, non fa che ripetere che “Ferro è una persona perbene”, come se fosse altrove il problema, come se al massimo ci fosse dell’ingenuità, nella sua leadership, della debolezza che dovrebbe rinforzarsi “per il bene dei manifestanti”. Ma Ferro non vuol sentire distinguo, si inalbera, invita a contare “i quindicimila in piazza”, si accende di fervore “per la gente che vuole mandarvi a quel paese” (ce l’ha con i politici). “Siamo disposti a tutto, pure alla morte”, diceva qualche giorno fa, quando appariva improvvisamente distante da Richichi e da Morsello (poi con Richichi ha fatto pace). “Niente vertenze settoriali perché sennò ci fregate”, dice ai politici.
Eppure Ferro nel suo passato la politica l’ha conosciuta. Gli è anche piaciuta, anche se ora la nomina come fosse sempre brutta, sporca e cattiva, viste le tante volte in cui si è candidato a sindaco di Avola con Forza Italia, sempre perdendo (“è stato trombato”, ha detto Richichi in un momento d’ira) e sempre perseverando (“ma oggi mi ritengo uno degli imbecilli che hanno creduto che Berlusconi potesse salvare l’Italia”, dice). La sua ultima digressione politica risale “a undici anni fa” (con Sergio D’Antoni, tentativo di candidarsi alla Camera), anche se la primaversa scorsa colloquiava pubblicamente con l’ex ministro dell’Agricoltura Saverio Romano (tema: le rivendicazioni pre-forconiste) e poi, a un’assemblea dell’Mpa, con Raffaele Lombardo: era un giorno d’estate, Ferro diceva “l’Italia è una barca con troppe falle” in tempi non sospetti per le metafore marittime inflazionate dal naufragio Concordia, e ammetteva uno sguardo “attento” verso Lombardo, pur nella critica (“lei appoggia Berlusconi che ha dato la golden share a Bossi”). Oggi dice: “Ci accusano di essere leccapiedi. Ma è una stronzata per distruggere il nostro scatto d’orgoglio”. Ferro si sente “fallito tra gente fallita”, pensa che questo sia garanzia di non permeabilità del movimento alla mafia (“chieda alla Digos che ci segue sempre”), si consola “nel mal comune” degli agricoltori-allevatori come lui.
Martino Morsello
Marsala, provincia di Trapani, 1954. Martino Morsello nasce in una famiglia di braccianti negli anni in cui “mettendo ortaggi”, racconta oggi, suo padre “riuscì a sposare tutti e tre i figli”. Non poteva immaginare, papà Morsello, che Martino nel Terzo millennio sarebbe finito a vivere in camper, con una moglie e tre figli a carico – la figlia, dice, “ha tentato di ammazzarsi per la disperazione” e il figlio fa sempre questa battuta: “Papà, sei stato un cretino. Potevi rivolgerti alla mafia e noi non saremmo rimasti senza lavoro”. La casa di famiglia ha dovuto cedere ai debiti. Dei conti in sospeso con la Serit (l’Equitalia siciliana) e le banche Morsello non parla, ma ci tiene a definirsi “soggetto usurato” nel senso di “imprenditore ittico vittima dell’usura” e non importa se in Sicilia i cronisti dicono che in realtà, per molti anni, Morsello è stato soltanto un impiegato comunale (qualche giorno fa il sito marsala.it ha parlato di un processo a suo carico per bancarotta fraudolenta e di varie accuse di assenteismo; Morsello dice che la stampa spesso “getta fango” invece di “telefonare alle famiglie palermitane che stanno alla fame”). Ora che è stato espulso dai forconi, ora che Mariano Ferro e Giuseppe Richichi prendono il caffè senza di lui, ora che su Facebook è in corso la gara a dissociarsi al grido di “Martino Morsello è legato a Forza nuova”, anche se lui dice che è sua figlia, “ragazza intelligente”, a essere di Forza nuova, mentre lui è ancora “un socialista”, Morsello sembra distante anche dal se stesso dell’altroieri. Quello che se ne andava in giro con i cartelli appesi al collo e le sopracciglia a triangolo aggrottate: in piazza in nome e per conto dei forconi tutti, a fare scioperi della fame per protestare contro chi vede nel movimento qualche pericolo di infiltrazione mafiosa, a dire che le mamme dell’isola non ne possono più di vedere i figli dormire tutto il giorno per mancanza di occupazione, a evocare primavere arabe, monete speciali e scissioni che nemmeno in Padania.
Oggi Morsello, in piazza da cavaliere disarcionato, dice che tutto questo è “nuovo risorgimento”. Parole che gli frullano in testa almeno da quando, nel 2009, diceva al cronista di Livesicilia.it che “era giunta l’ora di riscrivere le regole contro l’interesse delle multinazionali e dei poteri che hanno oppresso gli agricoltori negli ultimi 15 anni”. Vive alla giornata, recita slogan anticasta contro politici, industriali e funzionari “da tremila euro al mese” e racconta di un passato politico sospeso tra socialismo e giustizialismo in nuce: inneggia al Psi di cui fu consigliere comunale negli anni Ottanta a Marsala, ma inneggia pure a se stesso, che fortissimamente volle, dice “lo scioglimento dello stesso Consiglio comunale” nell’anno 1993, piena Tangentopoli, vuoi “per sospette infiltrazioni mafiose denunciate da Paolo Borsellino” vuoi “per arrivare all’elezione diretta del sindaco”. Molti cronisti siciliani ci vedono dell’esagerazione: il comune si sciolse per favorire l’elezione diretta del sindaco punto e basta, dicono. Dell’azienda finita in malora Morsello sussurra: “Difficile far riprodurre spigole e orate”, difficile “sborsare sessantamila euro al mese di spese”. “Tutte le aziende falliscono in Sicilia”, è la sua sentenza. Ce l’ha pure con il governo regionale (“ma che classe politica è?”), e però la politica l’ha tentato di nuovo nel 2008, elezioni regionali, lista legata a Raffaele Lombardo. Il suo volantino diceva: “Sono schietto, umile, testardo, sincero, un uomo che ama sua moglie e i suoi tre figli, uno che nonostante le falsità ha sempre portato avanti le sue idee, la sua voglia di legalità e che ha sempre detto la verità”. Non è stato eletto. Oggi dice che per il futuro, “rivoluzione a parte”, non si fa illusioni.
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