Corporation & scorporation

Premiata ditta privatizzazioni

Stefano Cingolani

Il 23 ottobre 1992 su proposta di Piero Barucci, economista e banchiere (Monte dei Paschi di Siena), ministro del Tesoro nel governo di Giuliano Amato (un politico ad alta caratura tecnica), cambiano natura Iri, Eni, Enel, Imi, Bnl e Ina. L’intero arsenale dello stato padrone si prepara a essere collocato sul mercato italiano e internazionale, “esprimendo il desiderio – si disse allora – che la cessione delle partecipazioni a nuovi soggetti imprenditoriali contribuisca a rinnovare l’intera dialettica del sistema industriale  italiano”.

    Il 23 ottobre 1992 su proposta di Piero Barucci, economista e banchiere (Monte dei Paschi di Siena), ministro del Tesoro nel governo di Giuliano Amato (un politico ad alta caratura tecnica), cambiano natura Iri, Eni, Enel, Imi, Bnl e Ina. L’intero arsenale dello stato padrone si prepara a essere collocato sul mercato italiano e internazionale, “esprimendo il desiderio – si disse allora – che la cessione delle partecipazioni a nuovi soggetti imprenditoriali contribuisca a rinnovare l’intera dialettica del sistema industriale  italiano”. Nel gennaio del 2012 Corrado Passera già manager e banchiere (Intesa SanPaolo) anch’egli ministro tecnico di un nuovo governo d’emergenza, guidato da un tecnico a caratura politica come Mario Monti, presenta un altro decreto volto a modernizzare l’Italia e aumentare il suo potenziale produttivo. Allora erano le privatizzazioni, oggi sono le liberalizzazioni. In mezzo, due decenni nei quali il paese ha sperimentato una lunga stagnazione, la più lunga insieme a quella giapponese. E non è finita, davanti ci sono due anni di recessione, poi le terre incognite.

    Il governo promette un aumento del prodotto lordo di dieci punti. Altri autorevoli tecnici, per esempio il bocconiano Michele Polo, invitano a non dare troppi numeri troppo presto. Grandi aspettative, grandi delusioni. L’economia italiana resta schiacciata tra l’utente isolato e non protetto da una parte, il blocco industrial-politico-sindacale, dall’altro. Il mantra degli anni 90 era privatizzare e liberalizzare. Le due gambe dovevano camminare insieme, allo stesso passo, invece, sono andate l’una per proprio conto. Il contrario di quel che è accaduto nel Regno Unito.
    Prendiamo le ferrovie britanniche. Privatizzate nel 1994, con chilometri di esercizio simili a quelli delle Fs (16.272 chilometri contro 16.686) presentano costi operativi di poco superiori (tre miliardi di euro contro 2 miliardi 896 milioni nel 2009), coperti con maggiori ricavi da pedaggi e tariffe, e minori contributi pubblici (il 27 per cento dei costi rispetto al 44, 51 milioni di euro ogni mille chilometri di rete rispetto a 77). Si è parlato spesso di scarsi investimenti a causa di incidenti avvenuti negli scorsi anni in Gran Bretagna soprattutto sui treni per pendolari. Ebbene, la differenza con la rete locale italiana, è come tra primo e terzo mondo. Non solo, chiunque sia stato a Londra ha preso il treno dall’aeroporto di Heathrow alla stazione di Paddington, prezzo 18 sterline, tempo impiegato 15 minuti; e può fare il paragone con le fetide tradotte che collegano Fiumicino a Roma o Malpensa a Milano e impiegano tre quarti d’ora se tutto va bene.

    L’Unione europea ha imposto la liberalizzazione dei binari. Il decreto Monti rimanda la questione a una nascitura Autorità dei trasporti le cui funzioni per ora sono assorbite dall’Autorità su energia, gas, acqua. Non si sa con quali risorse e competenze. Ma, al di là dei tempi, la confusione regna sovrana sulle strategie. Spiega Andrea Boitani, professore alla Cattolica, a lungo consigliere del ministero dei Trasporti: “Le direttive europee fissano soltanto un minimo comune denominatore: separazione contabile tra gestione dei servizi (nel quale possono convivere diversi tipi di concorrenza) e gestione della rete (che si prevede rimanga monopolista). Altri paesi europei hanno compiuto scelte diverse: dalla completa separazione societaria e proprietaria inglese alla separazione societaria completa (Svezia), alla separazione, ma con permanenza di rete e servizi all’interno di una medesima holding (Italia, Germania). Il governo non ha deciso di muovere decisamente nella direzione svedese (o inglese) e ha affidato alla nuova Autorità il compito di analizzare l’efficienza dei diversi gradi di separazione tra l’impresa che gestisce l’infrastruttura e l’impresa ferroviaria”. Sarà dunque la politica a compiere la scelta, sulla base dell’istruttoria dell’Autorità.
    Se per le Fs siamo al rinvio, per le Poste siamo all’oblio. Non c’è nulla nel decreto governativo, eppure l’Unione europea ha stabilito che dal primo gennaio 2011 il monopolio legale doveva essere interamente rimosso. Vincenzo Visco Comandini, docente di Economia delle istituzioni all’Università di Roma Tor Vergata, ricorda che “rispetto ad altri paesi, l’Italia presenta due peculiarità che tendono a ostacolare, anche dopo l’abolizione del monopolio legale, una reale concorrenza. Da un lato un mercato postale di dimensioni assai ristrette (circa 110 lettere per abitante contro una media europea superiore a 200, con punte di 400-500 in Francia e Olanda) rende strutturalmente in deficit il business postale tradizionale, con obbligo di recapito giornaliero su tutto il territorio nazionale. Dall’altro il fornitore nazionale, Poste Italiane, realizza forti profitti ma solo nei servizi assicurativi e finanziari. Di conseguenza, il servizio universale è finanziato de facto da fonti esterne, per una metà circa da uno specifico trasferimento dello stato e per l’altra da un sussidio incrociato implicito dai servizi non postali”.

    Le privatizzazioni senza liberalizzazioni hanno creato una serie di problemi e inefficienze in settori importanti: dalle autostrade agli aeroporti passati per lo più a gestione privata, ma senza compiere un salto di qualità nell’efficienza e soprattutto senza ridurre i costi per la collettività e i prezzi per gli utenti. Chiunque lo sperimenta ogni giorno sulla propria pelle, al di là delle cifre, delle tabelle e dei grafici. Un dato per tutti riguarda le tariffe delle autostrade. Mentre si tende ad abolire ovunque la scala mobile (non c’è più nei salari e nemmeno nelle pensioni degli statali e dei pensionati, a parte i trattamenti minimi) viene concessa alle società autostradali: ogni anno aumentano per una quota del 75 per cento rispetto all’indice del costo della vita stabilito dall’Istat. Il Consiglio dei ministri ha affrontato il dossier, ma ha deciso che la riforma tariffaria si applicherà soltanto alle nuove concessioni autostradali, non a quelle “in essere”. L’Autorità delle reti potrà solo “promuovere” l’adozione del price cap al termine del primo quinquennio di efficacia dell’ultima convenzione e comunque “garantendo la sostenibilità del piano economico finanziario e l’equilibrio economico del gestore”. In sostanza, i signori dei caselli, dai Benetton ai Gavio per citare i più importanti, si sono salvati.

    Il price cap, introdotto originariamente da Stephen Littlechild, economista del Tesoro di Sua Maestà, e applicato alle utilities privatizzate in Gran Bretagna, funziona in modo opposto alla scala mobile. Lo spiega Marco Ponti, ordinario di Economia dei trasporti al Politecnico di Milano: “E’ una vera e propria simulazione del mercato. Vengono prima osservati i costi autostradali, si fa un’analisi della situazione complessiva autostradale e lo stato, quindi il regolatore, dice, per esempio, che in cinque anni l’autostrada deve diventare più efficiente del 10 per cento. Allora, visto che le tariffe di oggi pagano anche un’eventuale inefficienza, lo stato mette un tetto in modo che in cinque anni l’autostrada deve comunque far pagare agli utenti il 10 per cento in meno. Questa operazione si chiama regolazione incentivante. Al suo interno c’è il profitto normale del regolato, che viene riconosciuto sul capitale investito: se però il gestore è molto abile e riesce a stare sotto a quel valore, ottiene degli extraprofitti. Immaginiamo, per esempio, che i costi siano 100 e la società ne copra 90: se riesce ad arrivare a 80 ottiene extraprofitti, quindi è incentivato a essere più efficiente”.

    I modelli teorici abbondano, anzi ce n’è uno per tutte le occasioni. Ogni promessa viene accompagnata da una teoria e ogni delusione dalla teoria opposta. E non è un vizio solo della politica. Basta ricordare l’annosa questione se la grande industria deve concentrarsi sul core business o diversificarsi in più attività in modo che l’una controbilanci l’altra. Ebbene, per decenni la Fiat ha oscillato tra l’uno e l’altro. Quando prevaleva Vittorio Ghidella, era in auge la concentrazione sull’auto, come avviene adesso con Marchionne. Se vinceva Cesare Romiti, allora via libera alla diversificazione che con l’arrivo di Fresco diventa addirittura modello conglomerata. Prima la fusione poi il break-up, prima la verticalizzazione, poi lo spezzatino.

    Prendiamo l’energia: basta aprire l’accesso ai nuovi arrivati o bisogna anche cambiare proprietà e controllo societario? Nel caso dell’elettricità si è andati avanti a zig zag cominciando con la soluzione soft: la separazione funzionale della rete affidata a una nuova società, Terna, ma sempre all’interno dell’Enel. Successivamente, è arrivata la vendita sul mercato, ma senza metterla in mani private. La prima fase è stata realizzata da Pier Luigi Bersani nel 1999. La seconda nel 2006 all’epoca delle lenzuolate. Oggi Terna ha come azionista di riferimento il Tesoro sotto altra forma, cioè attraverso la Cassa depositi e prestiti.
    E’ l’esempio che si vuol seguire con Snam. Terna ha fatto bene all’Enel che nel frattempo è diventata più internazionale e non solo grazie all’acquisizione della spagnola Endesa. Scaroni dice che lo stesso potrebbe accadere all’Eni ma sta ben attento a non svalutare la sua partecipata. Il Cane a sei zampe detiene il 52,5 per cento della società fornitrice di gas, oltre ad avere il controllo dei grandi gasdotti nazionali e di alcuni nodi strategici all’estero. La separazione mira a calmierare i prezzi che in Italia sono tra i più cari d’Europa, circa il 26 per cento oltre la media, anche se bisogna considerare il peso superiore delle imposte. Il gas copre il 40 per cento dei consumi energetici dell’industria e fornisce il riscaldamento al 60 per cento delle abitazioni.

    Di scorporare Eni e Snam si parla da più di un decennio. Nel 2000 il governo Amato stabilì la “terzietà” delle reti di trasporto del gas, la legge anti blackout tre anni dopo (secondo governo Berlusconi), ha fissato al 20 per cento il limite massimo di possesso, a partire però da luglio 2007. Un tetto ribadito nel 2004, ma la cui scadenza era stata rinviata alla fine del 2008 con la Finanziaria del 2006 (siamo al terzo governo Berlusconi). L’anno successivo, con la legge di Bilancio varata dal governo Prodi, la scadenza del 2008 diviene elastica: 24 mesi dopo l’entrata in vigore di un apposito decreto. Il decreto Monti stabilisce che entro sei mesi dall’entrata in vigore, la norma su Snam verrà emanata. Ma l’Eni avrà due anni di tempo per scendere al 20 per cento di Snam rete gas.

    In ogni caso, lo stato non perderà il controllo. Il modello britannico qui non passa, come non è passato in Francia e in Germania. La Cassa depositi e prestiti trova una gemella nella Caisse des Dépôts et Consignations francese e una cugina nella tedesca KfW, Kreditanstalt für Wiederaufbau. Nata a Torino nel 1850 per ricevere depositi quale “luogo di fede pubblica”, investita poi del compito di finanziare investimenti in opere pubbliche degli enti locali, la Cdp fino al 1983 era una direzione generale del Tesoro. Dieci anni dopo le viene attribuita una propria personalità giuridica e nel 2003 diventa società per azioni: ben 65 fondazioni di origine bancaria acquisiscono il 30 per cento del capitale su invito del ministro Giulio Tremonti. Se aumenta il suo portafoglio di partecipazioni, la Cassa finisce per diventare una sorta di nuova Iri. Una vera marcia indietro rispetto al decennio.

    A favore di questo ritorno allo stato imprenditore in Italia gioca una delusione diffusa. Secondo Francesco Forte, “quello che si è sviluppato negli anni Novanta con le privatizzazioni, ma in genere con il nuovo modello di capitalismo di cui il centrosinistra della Seconda Repubblica si è nutrito è il capitalismo dei compradores. Un genere opposto al capitalismo schumpeteriano che cresce all’interno dell’impresa, mediante la sua espansione, fatta soprattutto con il suo autofinanziamento, il credito bancario alla produzione e il ricorso al mercato azionario, tramite l’innovazione tecnologica e di marketing”. Ci sono due paradigmi di compradores: “I parvenu del nuovo suq e quelli del vecchio salotto buono di Mediobanca”. Al primo corrispondono la vendita della Sme, il caso Cirio, Cragnotti, Parmalat. Al secondo le Autostrade o Telecom Italia.

    Marcello De Cecco, storico dell’economia, sottolinea che le privatizzazioni si incrociano con “la decisione strategica degli imprenditori privati italiani di uscire gradualmente da settori assediati dalla concorrenza dei paesi asiatici per entrare in settori meno aperti”. Il business non si basa più sul prezzo che nasce dall’incontro tra domanda e offerta, ma sulla tariffa che viene decisa o influenzata in modo determinante dai governi. Fa da battistrada Carlo De Benedetti rovesciando come un guanto l’Olivetti e puntando su editoria, energia, sanità. Lo seguono quasi tutti compresi gli Agnelli: prima un modesto tentativo con Telecom, poi si lanciano alla conquista di Edison insieme a Edf. Con Telecom ci provano Roberto Colaninno e Marco Tronchetti Provera. Sconfitti, cambieranno marcia. Pirelli torna ai pneumatici, Colaninno si dà alla Vespa, ma poi cede alla tentazione dell’Alitalia.

    “L’enorme flusso di liquidità – aggiunge De Cecco – avrebbe potuto permettere una politica di trasformazione della proprietà pubblica delle imprese assai più articolata e strategicamente indirizzata di quel che in effetti è avvenuto. Ma non è solo la dirigenza economica dello stato a non essere riuscita a esprimere una tale politica, è stata soprattutto la mancanza di capacità progettuale da parte delle grandi imprese italiane”.
    Due studiosi di altra impostazione come Emilio Barucci e Federico Pieroboni si domandano se le privatizzazioni sono state “progetto o navigazione a vista, recupero di efficienza o rendita”. Le vendite hanno fruttato 103 miliardi di euro con i quali sono stati ricomprati titoli pubblici, riducendo il debito. Ma “le ombre provengono dagli assetti proprietari, che non sono risultati stabili nel tempo e non si sono tradotti nella nascita di public companies, e dai risvolti di politica industriale: le privatizzazioni non hanno rafforzato i gruppi industriali italiani. A fronte di un significativo aumento di redditività, ma non generalizzato, e di una sostanziale stabilità nei livelli di investimento; il dato che risulta in aumento secco, dopo la privatizzazione, è quello dei dividendi, un fenomeno tipico delle imprese regolate”. Perdite pubbliche, profitti privati.
    Adesso è troppo tardi per rimediare? E poi siamo sicuri che si voglia davvero liberalizzare? Prendiamo il trasporto aereo. “Liberi cieli”, era lo slogan à la page una decina d’anni fa. Ebbene, la fusione Alitalia e Air One ha di fatto creato un semi-monopolio sulla tratta Roma-Milano e adesso la compagnia di bandiera, rinata grazie ai capitali coraggiosi finanziati da Intesa, vuole assorbire anche Blue Panorama e Wind Jet. Si torna all’antico. Cos’hanno fatto del resto Air France e Lufthansa?

    Dunque, mentre ci si accapiglia sui tassisti, sui camionisti, sulle parafarmacie e sui notai, il grande business, quello che conta davvero anche nell’arena del potere, marcia tranquillo sui sentieri del monopolismo parastatale? Non esattamente. Intanto, le categorie toccate dal decreto rappresentano pur sempre un quinto del prodotto lordo. Eppoi, la battaglia è aperta in Italia come in Europa, uno scontro tra i poteri forti che non s’annidano più nell’industria manifatturiera, ma nei servizi. Se vinceranno i nuovi centauri con il corpo pubblico e la testa privata, pagheremo tutti di più e riceveremo tutti di meno. Il grande risiko è appena cominciato.