Carteggi economici con un esperto giapponese che punzecchia Krugman
“L'Europa deve affrontare problemi molto più seri di quelli che ha fronteggiato il Giappone durante il cosiddetto ‘decennio perduto'”. A scrivere al Foglio è Eamonn Fingleton, editorialista irlandese naturalizzato a Tokyo che dal 1985 segue la crisi finanziaria giapponese e uno dei primi a prevedere lo scoppio della bolla speculativa nel 1990. Da qualche giorno Fingleton è al centro di un dibattito on line che ha coinvolto anche l'economista e premio Nobel Paul Krugman.
“L'Europa deve affrontare problemi molto più seri di quelli che ha fronteggiato il Giappone durante il cosiddetto ‘decennio perduto'”. A scrivere al Foglio è Eamonn Fingleton, editorialista irlandese naturalizzato a Tokyo che dal 1985 segue la crisi finanziaria giapponese e uno dei primi a prevedere lo scoppio della bolla speculativa nel 1990. Da qualche giorno Fingleton è al centro di un dibattito on line che ha coinvolto anche l'economista e premio Nobel Paul Krugman. All'inizio di gennaio Fingleton aveva scritto sul New York Times un articolo dal titolo “Il mito del fallimento del Giappone”, nel quale demoliva uno per uno tutti i pregiudizi occidentali sulla crisi economica di Tokyo del 1990. Krugman aveva risposto due volte, dalle pagine del suo blog, dando solo in parte ragione a Fingleton: il sistema economico resta un “basket-case”, praticamente da buttare, ma la crisi giapponese, dati alla mano, è stata sopravvalutata. Un bel passo indietro per il premio Nobel: Krugman, parlando del Giappone nel pieno del “decennio perduto”, definiva il paese del Sol Levante “uno scandalo, una vergogna! Opera molto al di sotto delle proprie capacità produttive solo perché i suoi consumatori e gli investitori non spendono abbastanza”.
“Su quanto sia infondato il mito del fallimento giapponese mi sono trovato d'accordo anche con l'economista del Financial Times, Gillian Tett”, confida Fingleton. Invitati a un faccia a faccia alla Bbc, i due hanno spiegato che l'idea del debito del governo giapponese “fuori controllo” è infondata. Un pregiudizio che ha inizio con l'accordo dell'Hotel Plaza a New York, siglato il 22 settembre 1985 dai ministri delle Finanze del G7. L'accordo aveva come obiettivo la riduzione dei tassi di interesse e il ridimensionamento del deficit americano, ma di fatto diede il via al “decennio perduto” giapponese, culminato nel 1990 con lo scoppio della bolla speculativa e un lungo periodo di stagnazione dell'economia. Nonostante il ministero dell'Economia di Tokyo per consuetudine presenti alle lobby giapponesi una situazione peggiore di quella reale, per Fingleton il governo potrebbe licenziare titoli di stato decennali a un interesse dell'uno per cento. Il ministero di Tokyo ha fatto pure da prestatore di ultima istanza, come nel 2009, quando “prestò cento miliardi di dollari per sostenere il Fmi”.
“Il crollo del mercato azionario e immobiliare in Giappone furono drammatici”, scrive Fingleton al Foglio, “ma rispetto all'Europa di oggi il Giappone allora aveva un'economia sottostante molto solida, basata sull'export”. I paesi occidentali sembrano cadere dalle nuvole quando si parla di una “intesa speciale” tra Giappone, Cina e Corea. “In realtà cooperano in modo stretto: la tecnologia in Corea e Taiwan, e ora in Cina, è arrivata dal Giappone. La storiella che siano in opposizione tra di loro, ostili, è un altro mito occidentale”. Eppure nessuno dei paesi asiatici vuole internazionalizzare la propria moneta: “Sarebbe più facile perderne il controllo. Vogliono mantenere la valuta bassa, e cercano di evitare quello che è successo agli Stati Uniti, la cui moneta è stata sopravvalutata sin dal 1960”. Per Fingleton il ruolo chiave ce l'ha il commercio, soprattutto in Italia: “Il Giappone ha rafforzato gli scambi negli anni, mentre in Italia si assiste a un crescente deficit commerciale: secondo i dati del Factbook della Cia il deficit delle partite correnti era più del 3 per cento del pil italiano nel 2010. Come l'Inghilterra e l'America, anche l'Italia sta perdendo terreno rispetto ai paesi asiatici che puntano a mantenere un buon andamento delle esportazioni e frenano, se necessario, le importazioni”.
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