Sotto l'urto dell'anti casta barcolla il Pd che si voleva all'americana

Marianna Rizzini

Il caso Lusi interroga i partiti sulla contiguità tra soldi e politica. Ci sarebbe (anche) da chiedersi se sia opportuno o meno cambiare la forma-partito stessa o lo stesso meccanismo di fund raising, e se sia necessario o meno regolamentare le lobby o avviare una metamorfosi nel senso del “partito-cartello elettorale”. Ma non sono queste le riflessioni prevalenti, nel day after dello scandalo per la casetta in Canadà dell’ex tesoriere della Margherita. E pensare che, qualche anno fa, di questo si parlava, nell’allora nascente Partito democratico.

    Il caso Lusi interroga i partiti sulla contiguità tra soldi e politica. Ci sarebbe (anche) da chiedersi se sia opportuno o meno cambiare la forma-partito stessa o lo stesso meccanismo di fund raising, e se sia necessario o meno regolamentare le lobby o avviare una metamorfosi nel senso del “partito-cartello elettorale”. Ma non sono queste le riflessioni prevalenti, nel day after dello scandalo per la casetta in Canadà dell’ex tesoriere della Margherita. E pensare che, qualche anno fa, di questo si parlava, nell’allora nascente Partito democratico. Walter Veltroni, nel 2007, in un’intervista a questo giornale, prometteva una moltiplicazione delle “occasioni di fund raising” diretto e si diceva favorevole, “entro certi limiti perché non siamo gli Stati Uniti”, al finanziamento “da parte di imprenditori”. Pier Luigi Bersani, due anni prima, in pieno deflagrare della “questione morale” per l’affare Unipol, diceva al Foglio: “Sarebbe opportuno cambiare registro quando si giudica il rapporto tra soldi e politica… mi sembra abbastanza logico e scontato che, negli Usa, imprese che si occupano di industria pesante o armamenti siano tradizionalmente filorepubblicane, mentre imprese che si occupano di tecnologia siano filodemocratiche”. Invitava al “coming out”, Bersani: l’impresa che confessa la predilezione politica, il politico che dichiara il collegamento con l’impresa.

    Linda Lanzillotta, prima nel Pd e ora portavoce di Api, già anni fa pensava si dovesse “trovare un modo di dare trasparenza a rapporti del tutto legittimi tra legislatore e gruppi di interesse economico”. Oggi Lanzillotta dice che “la modalità organizzativa dei partiti italiani tradisce una sorta di coazione a ripetere su un modello di partito tradizionale che alla fine organizza solo ceto politico, e che rappresenta sempre meno interessi, realtà territoriali e nuove realtà sociali che non si inseriscono nel modello tradizionale – che è poi quello che genera enormi costi. E’ un sistema improduttivo che crea nei cittadini una percezione di autoesclusione, anche perché oggi le opinioni dominanti si formano in rete e non in sezione”. Lanzillotta pensa si debba “dare attuazione all’articolo 49 della Costituzione”, e che la soluzione sia nel “punto di equilibrio tra finanziamento privato – un investimento di alcuni settori della società, un segno di rilevanza e qualità della stessa proposta politica – e un finanziamento pubblico non tanto dei partiti quanto di attività e iniziative politiche documentate. Eliminarlo del tutto darebbe eccessiva prevalenza alla rappresentanza di interessi, come ha sperimentato lo stesso Barack Obama, ma non si può lasciare in mano ai partiti anche il controllo sulla gestione delle risorse pubbliche”.

    L’armata dell’anti casta, però, non mette in dubbio il sistema-partito. Si concentra sulle regole: rimborsi con un tetto, fatture obbligatorie, multe per chi si finanzia illecitamente, dicono i tre punti della petizione del Fatto sulla “responsabilità giuridica dei partiti” – seimila firme in quattro ore. E Antonio Di Pietro propone addirittura il “carcere per i trasgressori”. L’armata dell’anti casta, più che mettere in discussione il modello-partito tradizionale, si fa avida di processi televisivi sulle presunte malefatte degli amici di Renata Polverini e Roberto Formigoni e si indigna per le storie di tangenti che nutrono l’anti politica sul Web. E nel giorno in cui i magistrati indagano su “altri fondi” dell’ex Margherita, i partiti si adeguano all’onda furibonda. Ieri, infatti, era tutto un profluvio di annunci “puri & duri” sul finanziamento (pubblico) ai partiti (rientrato dalla finestra dopo il referendum del ’93 sotto forma di “rimborso elettorale”): Bersani chiedeva una “corsia preferenziale per approvare nuove norme su “certificazione dei bilanci, trasparenza delle decisione interne e adeguamento dei finanziamenti alla media europea”, e Pier Ferdinando Casini seguiva a ruota. A molti, fino a oggi, il sistema pareva andare bene così com’era, facevano notare i Radicali, tanto che ieri il segretario Mario Staderini invocava “l’azzeramento del finanziamento pubblico” e un nuovo referendum in caso di niet parlamentare.

    • Marianna Rizzini
    • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.