Bunker alawita

Assad medita un mini stato dove resistere alla rivolta della Siria

Daniele Raineri

Per primo lo ha notato Michael Young, editorialista libanese sul Daily Star. “Date un’occhiata alle mappe della Siria nordoccidentale dove sono concentrati gli alawiti, soprattutto alla catena di monti conosciuta come Jabal al Nusariyyah o Jabal al Alawiyeen (entrambi i nomi in arabo vogliono proprio dire: montagne degli alawiti, ndr), che corre da nord a sud dal confine turco fino alle colline sopra la pianura libanese di Akkar”.

    Per primo lo ha notato Michael Young, editorialista libanese sul Daily Star. “Date un’occhiata alle mappe della Siria nordoccidentale dove sono concentrati gli alawiti, soprattutto alla catena di monti conosciuta come Jabal al Nusariyyah o Jabal al Alawiyeen (entrambi i nomi in arabo vogliono proprio dire: montagne degli alawiti, ndr), che corre da nord a sud dal confine turco fino alle colline sopra la pianura libanese di Akkar”. Se tracciate una linea verticale incontrate le cittadine di Tal Kala e Jisr al Shogur e poi più a sud le città di Hama e Homs, tutti centri abitati dove l’esercito del governo siriano nei mesi scorsi ha sferrato le operazioni di repressione più sanguinose, per terrorizzare i sunniti.

    Young parla di una campagna irregolare contro i civili che non è un semplice “disperdere le proteste costi quel che costi, anche con la violenza”, ma piuttosto un taglio verticale, una pulizia etnica in stile Arkan, il comandante serbo che durante la guerra nell’ex Yugoslavia svuotava le sacche di popolazione bosniaca e croata per creare una continuità territoriale a favore di Slobodan Milosevic. L’obiettivo è creare una enclave sulla costa, un mini stato nel cuore del territorio alawita, dove gli uomini del governo e dell’establishment potrebbero ritirarsi e organizzarsi in difesa se la rivolta della maggioranza sunnita li cacciasse da Damasco. La posizione sulla riva del Mediterraneo è essenziale per la libertà di rifornimenti via mare dalle potenze rimaste amiche, come l’Iran e la Russia. E in fondo sarebbe un ritorno alle origini, agli anni Trenta, quando, dopo la caduta dell’impero ottomano, i francesi diedero agli “Alaouites” una minuscola nazione autonoma, con capitale nel porto di Latakia, che durò dal 1930 al 1937.
    Rumors sostengono che i genieri dell’esercito sono già al lavoro per preparare una fortezza protetta da missili antiaerei e difese anticarro tra i boschi dei monti a est di Latakia, dove l’altezza massima è a 1.500 metri. La zona, oltre a coincidere con il massimo di densità demografica degli alawiti, che considerano il presidente Bashar el Assad loro protettore, è anche in tutto il paese la più adatta alla difesa. Sulla stessa catena, appena a sud, c’è il Krek des Chevaliers, la fortezza crociata che dai monti affaccia sul porto di Tartous, l’unica base militare russa al di fuori dell’ex Unione sovietica.

    Young dà sostanza alla sua teoria chiedendo: perché la repressione segue linee geografiche ? Perché arma i villaggi alawiti? Perché l’azione delle forze di sicurezza include gli stupri, l’uccisione di bestiame e l’incendio dei raccolti, in modo da allontanare la popolazione? Questo mese è arrivata un’intervista del giornale francese Figaro all’ex vicepresidente siriano, Abdel Helim Khaddam, in esilio a Parigi dal 2005. Anche Khaddam sostiene che il presidente e il suo clan stanno portando le armi nell’enclave rifugio. “Missili e arsenale strategico sono già stati trasferiti. Carri e artiglieria no, perché servono alla repressione. Il presidente ha cambiato tattica. Ha tentato a lungo di invadere le città e di bloccare i rivoltosi, ma non ha funzionato. Allora è passato al piano numero due, scatenare la guerra religiosa. So che un mese fa ha detto a un consigliere in Libano che vuole creare uno stato alawita da cui guidare una guerra settaria. Ora è pronto ad avere la sua repubblica, con centro a Latakia. Sono sicuro che ci sono abbastanza bunker sotterranei perché lui e il clan vi si possano rifugiare. Non vuole fuggire, ma non vuole nemmeno soffrire lo stesso fato di Gheddafi”. E perché, domanda il Figaro, l’esercito libero di Siria non tenta di fermarlo? “Perché non è presente in tutte le regioni e perché le strade sono ancora controllate dall’esercito”.

    Ieri l’analisi di Reuters parlava di un presidente  “messo all’angolo”, ma che dalla sua parte ha ancora la forza militare. Il numero dei disertori è relativamente basso, le stime variano tra i ventimila e i trentamila, meno di un decimo del totale delle Forze armate. Un intervento dall’esterno come fu quello della Nato in Libia è impensabile – da tre giorni la Russia blocca una risoluzione scritta dalla Lega araba che chiede al presidente di lasciare il potere al suo vice – e il nucleo alawita delle forze di sicurezza è intatto. Assad è stato visto cenare in un ristorante in centro e chi ha avut modo di parlare con lui assicura che non è dissociato dalla realtà e che no si tratta della bravata di un disperato. Il presidente si prepara a un conflitto durevole e ci tiene a proiettare un’aura flemmatica, funzionale a rassicurare i suoi.
    L’esercito libero di Siria proclama di controllare metà del territorio nazionale e si fa sotto, fino ai sobborghi sud della capitale Damasco. Assadnon può vincere schierando l’esercito in massa, per paura di altre e più grandi defezioni. Yezid Sayigh, analista al Carnegie Endowment’s Middle East Center, scrive che “i giorni del governo sono numerati” e che bisogna vedere per quanto reggerà: “Il regime non può vincere, ma certamente può resistere e prolungare il conflitto”. Ieri, per la prima volta in undici mesi, sono scoppiate proteste e sparatorie pure ad Aleppo, la seconda città del paese, un enclave di ricchi commercianti fin dai tempi della Via della Seta che finora era rimasta indifferente a quello che succedeva nel resto della Siria. Questa settimana è arrivata la notizia della liberazione di Abu Musab al Suri, il Leon Trotzky di al Qaida, un ideologo estremista siriano vissuto a lungo in occidente e capace di rimpiazzare il carisma di Bin Laden. Appartiene al campo dei nemici di Assad; la sua scarcerazione è allo stesso tempo un atto ostile contro America ed Europa.

    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)